L’Italia è abissalmente lontana dagli standard e dagli obiettivi sociali fissati in sede europea, a cominciare dalla tutela dei minimi vitali, come prescritto dalle Carte dei diritti sovra nazionali. La sinistra e i movimenti sociali in questo paese, nonostante quelle europee siano indicazioni in parte ancora prive dei necessari vincoli, dovrebbero giocarsi questa chance e promuovere a livello continentale il decollo di un autentico modello sociale dell’UE incentrato sullo ius existentiae.
In una recente ( 7.3.2009) intervista al Corriere della sera il Ministro “antifannulloni”, in piena crisi economica internazionale, tesseva lodi smisurate del “modello” sociale nostrano: “il mercato del lavoro italiano, al di là delle sue contraddizioni, è mirabile, funzionale, efficiente, flessibile, reattivo, intelligente, e a modo suo equo. Molto ” italian” ma con più luci che ombre. Con tanta gente che rischia e troppi privilegi, d’accordo. Ma per come è andato costruendosi nel dopoguerra, con un insieme di pesi e contrappesi, sotto l’influenza di forze imprenditoriali e sindacali, istituzioni, territori, culture, è il più efficace d’Europa. Relazioni industriali e ammortizzatori sociali, compresi”. Certamente l’affresco brunettiano contempla anche la memorabile stagione delle riforme, Statuto dei lavoratori (1970) in testa, quando l’Italia seppe mettersi alla testa dell’innovazione garantista nel diritto del lavoro ed in quello sindacale ed ospitava schiere di studiosi da tutto il mondo. Ma se riferito alla stato di cose presenti: “sembra che il brutto anatroccolo sia diventato un cigno” ( cfr. F. Berton, M. Richiardi e S. Sacchi “Curare la precarietà: proposte per un dibattito” in Urge paper n. 2 /2009). Tutti i documenti comunitari degli ultimi anni segnalano l’allarmante ritardo dell’Italia nel raggiungere quegli obiettivi che l’Unione ha consensualmente scelto di perseguire come priorità con la Lisbon Agenda nel 2000. Il “bel paese” è sempre tra gli ultimi, spesso ultima (non solo in una Unione a 15, ma addirittura in quella a 27) riguardo indicatori strategici come il tasso di occupazione in generale, quello femminile e quello relativo alla “popolazione anziana” (over 55), il numero di laureati, il numero di brevetti; non è mai indicata come promotrice di ” buone pratiche” nella lotta all’esclusione sociale visto che detiene il tristissimo primato di non avere un sistema di protezione dei “minimi vitali” insieme a Grecia ed Ungheria. Recenti indagini come quella dell’Istat o come la relazione del dr. Brandolini dell’Ufficio studi della banca d’Italia in Parlamento dimostrano che due milioni e mezzo di italiani vivono in situazione di povertà assoluta e che il nostro paese è penultimo dopo la Lituania negli aiuti destinati a coloro che si trovano in gravi difficoltà sociali.
In pochi anni siamo diventati, sempre per queste fonti, tra i paesi più avanzati con maggiori ineguaglianze perché i fondi perequativi sono pochi e sono mal orientati ( non raggiungono mai coloro che davvero sono in situazioni di indigenza). Insomma pietà l’è persa, ma non come nella canzone partigiana, per sdegno contro l'”invasor”, ma per cinismo per i più deboli e per chiusure corporative che si frappongono a politiche universalistiche nei diritti di base. Nonostante il suo ” europeismo” di facciata l’Italia è, inoltre, tra i paesi più lenti nel recepire le direttive comunitarie e tra i primi del Consiglio d’Europa (composto notoriamente da 47 stati) quanto a condanne per violazione dei diritti dell’uomo. Inutile ricordare che il nostro sistema giudiziario è prossimo al collasso, difettando persino dei supporti cartacei sui quali stampare le sentenze.
Se insomma con il John Rawls della “Teoria della giustizia” le società si giudicano a partire da coloro che se la passano peggio, allora il trattamento subito dai migranti nei nostri mari o sulle nostre barche e dai poveri e dagli emarginati dovrebbe indurre non solo a riconoscere che l’Italia è un inferno in terra europea, ma anche, su di un piano più politico, a favorire, il più possibile, il ” commissariamento” del bel paese. Caschi blu a Lampedusa a presidio del diritto internazionale e tecnici scandinavi ai servizi sociali. Le elezioni europee apparirebbero, in questa chiave di minimizzazione dei poteri dei governati di casa nostra, come una ghiotta occasione per eleggere rappresentanti che una volta entrati nel Parlamento di Strasburgo potrebbe utilmente inginocchiarsi supplicando i loro colleghi di aiutarli a difendere la dignità sociale e costituzionale di questo paese.
In realtà a sinistra solo i giovani solo i giovani precari sembrano aver capito che quel che è veramente urgente è far tornarel’Italia in Europa con l’azione simbolica di chiedere
asilo politico alla Svezia. Del resto proprio loro sono i veri emarginati del vecchio continente non potendo fruire di nessuna delle chance che assicurano ai loro simili i nostri più evoluti partner. Ma l’appello all’Europa purtroppo è ancora, a sinistra, poco popolare: sono ancora troppe le associazioni, le organizzazioni, i partitini che, in “solidarietà antitetica-polare” (per dirla con G. Lukacs) , con gli attuali governanti remano contro quei cambiamenti che l’Unione ci suggerisce di fare ( v. la Raccomandazione del settembre del 2008 della Commissione europea che prescrive ad ogni paese di adottare forme di garanzia di un reddito minimo parametrato sui livelli medi di vita dei singoli Stati ). Si protesta, si sfila in corteo, qualche sciopero, molte mobilitazioni, numerosi dibattiti, rivolte cartacee di varia natura, ma mai in nome dell’Europa, con il risultato dell’appiattimento sull’esistente . La ragione è non solo il cosidetto “liberismo” delle politiche europee ma, sopratutto, la connessa paura che, una volta accettata l’idea stessa di un cambiamento, si possano scambiare le protezioni “nel mercato” con quelle “nel contratto”, a cominciare dalla “norma simbolo” dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori. C’è indubbiamente qualcosa di vero ( pur se drammatizzato ad arte) in queste paure ed in queste preoccupazioni; basti leggere l’appena sfornato Libro Bianco sulla riforma del welfare del Ministro Sacconi: in cambio di generiche e molto vaghe promesse di irrobustire le protezioni sociali ampliandone la platea ( oggi ristretta ad una percentuale molto ristretta della forza lavoro) si ripropone, almeno in prospettiva, l’idea di una revisione dell’art. 18. Ancora si ricordano le aperture ad una maggiore flessibilità in uscita nel posto di lavoro nel famoso “Green paper sulla modernizzazione del diritto del lavoro” , nonostante il fatto che l’incisivo intervento sul punto del Parlamento europeo e dei sindacato abbiano portato a lasciar perdere questo punto. Ma a che cosa ci si riferisce quando si parla di ” liberismo ” in ambito europeo? Se si vuole chiamare in causa l’idea che tra i paesi membri si sia eretto un mercato comune europeo attraverso la demolizione delle barriere nazionali, questa accusa si rivela fuori sesto. L’Italia, negli anni d’oro, non è stata liberista perché, con l’abolizione delle gabbie salariali, ha riconosciuto l’unicità delle regole nazionali in materia di mercato e concorrenza, anzi questo riconoscimento è stata la premessa di una politica universalistica in materia di diritti sociali che ci ha donato lo Statuto del 1970. Le difficoltà nascono invece dal fatto che i sistemi di solidarietà e di scurezza sociale, nonostante l’edificazione di un mercato comune e per numerosi paesi di una sola moneta, sono stati mantenuti in gran parte sotto controllo nazionale ( ancorché in regime di coordinamento da parte dell’Unione). Questa scelta ha due tipi di conseguenze: da un lato si può alimentare un pericolo di dumping sociale tra Stati favorendo quei paesi a legislazioni sociali ” più leggere”, dall’altro lato viene a mancare una vera forza di contrappeso rispetto alle scelte che l’Unione compie sul terreno economico, essendo quelle nazionali eccentriche ed inadeguate rispetto alle prime. Certamente, nonostante la ingenerosa propaganda euroscettica di alcuni settori di sinistra, dal 1997 ( anno del Trattato di Amsterdam) in poi qualche passo si è compiuto in avanti nella costruzione di un piano sociale propriamente europeo, ad esempio con alcune direttive come quelle sull’orario di lavoro e sui contratti a termine. Ma in genere mentre le politiche sul mercato e sulla concorrenza riescono ad essere tempestive ed efficaci, nel settore sociale gli interventi ( anche per le maggioranze previste per l’approvazione) sono molto più farraginosi, lenti e compromissori. Si è cercato di far progredire l’Europa sociale attraverso due nuove direttrici: con l’open method of coordination si è istituzionalizzato un sistema di coordinamento tra politiche nazionali volto al raggiungimento di obiettivi condivisi ed alla generalizzazione delle best practises nazionali e con l’approvazione della Carta di Nizza si è finalmente codificato un elenco di diritti fondamentali di rango europeo nel quale i diritti sociali ed i cosiddetti nuovi diritti ( basic income, libertà di ricevere e trasmettere informazioni, diritto alla formazione ) godono dello stesso rango delle libertà economiche. Il primo cantiere ha portato al varo nel dicembre del 2007 di alcuni principi comuni in materia di flexicurity che gli Stati dovrebbero tenere in considerazione e rispettare nelle politiche nazionali sull’occupazione. Dal punto di vista delle affermazioni, quindi, un gigantesco passo in avanti, che sconta però la debolezza dell’ assenza di meccanismi per obbligare paesi che si rifiutano, come l’Italia, di bilanciare nelle loro scelte legislative esigenze di flessibilità ( ivi comprese quelle di natura soggettiva, a favore dei lavoratori) e di sicurezza esistenziale. Gli effetti di riequilibrio tra diritti socio.economici e nuovi diritti e libertà mercantili indotti dalla Carta di Nizza non potranno che vedersi sul lungo periodo e dopo che alla Carta verrà assegnata, come prevede il Trattato di Lisbona, un valore formalmente vincolante, del quale è oggi priva. I giudici ad ogni livello stanno già applicando il Bill of rights europeo, ma è evidente che ben diversa sarà la sua forza, una volta ratificato il Lisbon Treaty .Eppure, nonostante queste evidenti difficoltà, non vi sono alternative all’impegno per la costruzione di una effettiva “solidarietà ” pan-europea che implica necessariamente il ridimensionamento dei poteri nazionali e l’apertura dei sistemi locali alle migliori esperienze compiute nel vecchio continente. Dal punto di vista italiano non riesco a comprendere quali siano davvero i rischi nell’accettare sino in fondo questa sfida, posto che- come si è già ricordato- il nostro sistema sociale è tra i più ingiusti, inefficienti, balcanizzati ed irrazionali dell’Unione. Chiedere più Europa non può che farci del bene, a cominciare da quelle misure di tutela della dignità sociale “di base” di ogni cittadino che altrove da tempo si è realizzato.
Ma la crisi internazionale può, in effetti, essere anche il motore di un europeismo sociale rinnovato: per combattere il social dumping e per realizzare la coesione sociale a livello continentale (obiettivi che già rientrano nei Trattati) l’Unione, si sostiene da più parti, potrebbe e dovrebbe ( anche in funzione anticiclica) assumere la responsabilità diretta attraverso risorse proprie di un basic income europeo (con gli unionbonds e/o l’utilizzazione dei fondi che oggi vanno all’immorale e protezionistica politica agricola comune). Un gruppo di organizzazioni ha lanciato un appello in tal senso leggibile e firmabile nel sito www.bin-italia.org. Va ricordato che esiste una base giuridica per questo intervento. Il Fondo europeo per le vittime della globalizzazione economica ( che in sostanza aiuta i disoccupati) ha come premessa l’art. 159 ( TCE) sulla coesione sociale, base giuridica che potrebbe essere utilizzata anche per misure del genere.
Anche se oggi mancano ancora strumenti di governance europea cruciali per questa materia ( un governo dell’economia, un sistema fiscale omogeneo, una responsabilità della BCE anche per gli effetti sociali delle sue scelte etc.) si realizzerebbe oggettivamente un salto verso una situazione più avanzata, un accenno importante verso la comunitarizzazione e federalizzazione del settore ” della solidarietà”. Finalmente il ” progetto europeo” uscrirebbe dai confini di una doverosa archiviazione del principio di sovranità nazionale per guadagnare anche quella sostanza sociale ed emancipativa, lungo quella linea costituzionale radicale che individua nella pari dignità sociale il presupposto degli stessi processi democratici, che sino ad oggi non è ancora riuscito ad interpretare.
Pubblicato su: “Eurovisioni” inserto de Il Manifesto del 3.6.2009