La globalizzazione finanziaria quindi è portatrice di nuove gerarchie internazionali funzionali ad una nuova divisione del lavoro su scala planetaria
La finanziarizzazione del mercato dei capitali e delle valute
L’internazionalizzazione selettiva della produzione è stata accompagnata e assecondata ed in parte consentita e preceduta dalla globalizzazione dei mercati dei capitali e delle valute. In questo caso il termine “globalizzazione” risulta più appropriato, non solo perché tale processo ha interessato, pur in misura diversa, tutto il pianeta, anche le aree escluse dall’internazionalizzazione della produzione, ma anche perché, trattandosi di un mercato immateriale di natura “semiotica”, non ci possono essere barriere materiali alla sua diffusione. Le tecnologie informatiche e di linguaggio hanno agevolato la tendenza allo sviluppo di una finanza mondiale, sia perché hanno permesso l’agibilità dei mercati in tempi reali e senza interruzione (tempo infinito), sia perché hanno consentito una crescente differenziazione delle attività di investimento, tra reali e finanziarie, tramite le numerose innovazioni finanziarie (i prodotti derivati, in primo luogo). Il venir meno della stabilità della domanda di beni, l’impossibilità di far fronte a tempi di ammortamento troppo elevati per il grado di incertezza sviluppatisi dopo la crisi di Bretton Woods e degli stati nazionali, la necessità di presentare utili a breve termine, l’aumento dei livelli di indebitamento nazionale ed internazionale: ecco i principali fattori che hanno favorito l’esplosione dei nuovi strumenti finanziari ed il trionfo della speculazione a breve termine, sempre meno legata all’andamento produttivo ma sempre più dipendente dalla fiducia nelle politiche neo-liberiste e nel sostegno alla capitalizzazione di borsa degli “immaginari” dei risparmiatori. In realtà più che parlare in modo volutamene vago di “risparmiatori” o “pubblico” sarebbe necessario focalizzare l’attenzione sulle società di intermediazione mobiliare (le famose Sim), sulle assicurazioni e sulle società di rating. Sono infatti queste le strutture capitalistiche che gestiscono in modo diretto il crescente accumulo di risparmio sempre più “espropriato” dal reddito da lavoro e che, in modo più o meno coatto, viene canalizzato nei circuiti finanziari con la speranza (ma sempre più, oggi, l’illusione) che le rendite percepite possano compensare gli effetti negativi dello smantellamento del welfare state in materia di previdenza e sanità.
Gli effetti redistributivi sono molteplici e tutti forieri di ineguaglianze sia all’interno dei paesi ricchi che in ambito internazionale. In primo luogo, si assiste ad una polarizzazione dei redditi tra chi ha un reddito sufficiente per garantirsi i servizi primari sul mercato privato dei capitali e chi no. La possibilità di lucrare una rendita elevata dipende dal successo dei processi di internazionalizzazione della produzione e dalla capacità delle grandi borse occidentali (Wall Street in primo luogo) di attirare capitali dall’estero e, pertanto, di promuovere aspettative di rialzo dei corsi azionari. Una componente non secondaria è il controllo geoeconomico di quelle parti del mondo adibite ai processi di subfornitura (Sud e Centroamerica e Sud-Est asiatico). Qualunque elemento di instabilità in questi mercati, in seguito a tensioni sociali e sindacali oppure a vincoli ambientali, può riflettersi sulla redditività degli investimenti finanziari e valutari. Ne consegue che la possibilità per i lavoratori del Nord del mondo di garantirsi delle pensioni dignitose dipende, in ultima analisi, dallo sfruttamento dei lavoratori di parte del Sud del mondo. Esemplificativo al riguardo fu il caso del Messico nel 1994, quando l’insurrezione zapatista del 1 gennaio porto ad un tracollo del pesos messicano del 40% in pochi giorni e conseguente declassamento del Messico nel rating degli investitori internazionali con effetti depressivi sui fondi di investimento americani.
La globalizzazione finanziaria quindi è portatrice di nuove gerarchie internazionali funzionali ad una nuova divisione del lavoro su scala planetaria. Il processo di liberalizzazione dei capitali, riducendo le autonomie economiche-politiche dei singoli stati nazionali, ha imposto un livello di ricattabilità a chi non sottostà alle regole imposte dalle grandi centrali finanziarie dell’occidente e dalle istituzioni sovranazionali che ne costituicono la colonna portante (Fmi e Bm per gli aspetti più squisitamente finanziari e valutari, Wto per gli aspetti commerciali). Si tratta di un ricatto decisamene superiore ad una minaccia di intervento militare: non è un caso, infatti, che quest’ultima sia stata utilizzata nel passato decennio solo nei confronti di paesi che non fanno parte di questi organismi sovranazionali.
La ricattabilità, alias dipendenza politica ed economica, imposta dalla liberalizzazione dei mercati dei capitali e valutari, agisce su due livelli: interno ed esterno. Il livello interno ridefinisce le gerarchie tra le piazze finanziarie e produttive nevralgiche per il sistema capitalistico. La crisi finanziaria del Sud-Est asiatico del 1998 ha avuto come ripercussione il ridimensionamento di una piazza finanziaria sempre più competitiva rispetto ai centri finanziari statunitensi, concludendosi con lo stornare ingenti quantità di capitali dalla piazza di Hong-Kong e di Tokio verso New York e l’economia americana. In secondo luogo, il pesante intervento del Fmi in Corea ha avuto l’effetto di smembrare l’economia di quel paese ed in particolare di disarticolare le conglomerazioni produttive nazionali (chabol) a vantaggio delle grandi mutinazionali dell’occidente, operazione strategica per il ruolo di paese subfornitore ad elevata specializzazione che la Corea ha sempre svolto, anche in funzione di ridimensionamento delle aspirazioni giapponesi.
Il livello esterno, in modo molto più brutale, consente di “comandare” a distanza lo sviluppo economico di alcuni paesi in via di sviluppo, più periferici al cuore dell’impero ma non per questo meno strategici (soprattutto se mono-esportatori di materie prime o di beni primari). Si tratta di interventi che hanno particolarmente interessato le grandi economie del Sudamerica.
La globalizzazione finanziaria, da questo punto di vista, lungi dall’aver rappresentato un progresso nei meccanismi di creazione e distribuzione della ricchezza su scala planetaria, ha invece costituito lo strumento principale per passare dal comando diretto di tipo coloniale sul territorio al comando sociale, indiretto, sulle economie dei singoli paesi.
Non può quindi stupire se negli ultimi vent’anni i divari di reddito tra paesi in via di sviluppo e paesi ricchi siano fortemente aumentati.
La privatizzazione del Welfare State
Uno degli aspetti perversi della finanziarizzazione mondiale è – come abbiamo visto – il venir meno delle politiche economiche nazionali e lo smantellamento del welfare state. In altre parole, la globalizzazione dei mercati finanziari favorisce i processi di privatizzazione non solo delle imprese a partecipazione pubblica, ma anche e soprattutto dei servizi di pubblica utilità e dei servizi sociali, istruzione e sanità in primo luogo.
A livello mondiale, la trasformazione dei diritti sociali in bisogni mercificabili viene portata avanti dal Wto e il prossimo vertice a Cancoon dovrebbe sanzionare l’apoteosi della privatizzazione totale non solo delle merci industriali e dei servizi privati ma anche di tutti i servizi sociali, da quelli di pubblica utilità (elettricita, trasporto, gas, acqua) a quelli cosiddetti primari (istruzione, giustizia-carceri, sanità). A Cancoon, quindi, si saldano le politiche neoliberiste del Fmi e della Bm, promotrice delle gerarchie finanziarie internazionali, made in Usa, con la totale liberalizzazione non solo delle merci ma delle vite e dei diritti individuali (accordo Gats). Tale comunione è tanto più necessaria quanto più i mercati finanziari sono in crisi, così come lo sono oggi a due anni e mezzo (marzo 2001) dell’inizio dello scoppio della bolla speculativa degli anni ’90. Ma è proprio la crisi finanziaria ed economica che serpeggia all’interno delle visceri del moloch neoliberista a scatenare contraddizioni interne che difficilmente potranno essere sanata a Cancun e che potrebbero far fallire il vertice, così come è successo a Seattle nel 1999. E comunque certo che tale speranza di fallimento, soprattutto del Gats, sarà tanto più sicura, quanto più forte sarà la mobilitazione che il movimento dei movimenti sarà in grado di esprimere con tutti i mezzi necessari.
I conflitti principali nel fronte neoliberista non riguardano più i rapporti con i paesi più poveri (come era successo a Seattle) ma piuttosto l’asse Usa – Europa. Da un lato, si collocano gli Stati Uniti, forte dell’esperienza del Nafta (dove gli accordi sul modello Gats sono già operanti), che vorrebbero imporre il modello del libero scambio così come oggi si presenta, ovvero fondato sulle gerarchie di mercato a vantaggio delle multinazionali anglossassoni, senza alcun tipo di regolamentazione, al fine di incrementare il processo di depredamento ed espropriazione delle ricchezze del mondo a sostegno dei profitti e dell’economia statunitense, in fase di stagnazione. Dall’altro lato, si posiziona un Europa, divisa al proprio interno, che invece preferisce un processo di liberalizzazione del commercio più regolato, in grado di accompagnare il processo di privatizzazione dei servizi sociale, che dal 1998 rientra a pieno titolo nelle politiche di deregulation interne alla creazione della moneta unica europea.
Finanziarizzazione e diritto al reddito
La nuova gerarchia economica a livello internazionale e nazionale indotta dai meccanismi di finanziarizzazione si traduce quindi una precisa gerarchia tra rendita finanziaria, profitto produttivo e reddito da lavoro. Oggi il reddito da lavoro è sempre più commisurato con l’espropriazione e lo sfruttamento di tutte le facoltà vitali del genere umano. Sempre più difficile è la separazione tra reddito diretto, reddito differito e reddito indiretto (quest’ultimo in funzione dell’accesso agevolato ai servizi sociali). Negli ultimi anni, in particolare negli ultimi tre, si è assistito ad una perdita secca del potere d’acquista del reddito diretto da lavoro dipendente di quasi il 9%, in misura maggiore per gli operai (-7,5%) e gli impiegati (- 11%), in misura minore per i quadri (- 5%) e i dirigenti (-7%) (cfr. Inchiesta Corsera, 7 novembre 2003). Si tratta di una decurtazione che non ha precedenti nella storia economica del nostro paese, a cui occorre aggiungere la crescente espropriazione dovuta alla riduzione del reddito differito (riduzione delle pensioni e probabile futuro uso obbligatorio della liquidazione a fini di integrazione previdenziale privata) e allo smantellamento del welfare state con il conseguente aumento dei costi per i servizi sociali (sanità, istruzione, trasporti, abitazione). In altre parole, si sta assistendo ad un poderoso spostamento di risorse dal lavoro alla rendita finanziaria e immobiliare. E tutto ciò avviene in un contesto dove tutta la vita entra in produzione e dove l’intensità e l’estensità delle pratiche produttive e lavorative tendono ad uscire da ogni controllo sindacale e contrattuale per assurgere a pratiche vitali ed esistenziali. La dipendenza dal lavoro non è mai stata oggi così forte e pervasiva a discredito di qualsiasi teoria che supponeva la “fine del lavoro”. E nello stesso tempo mai così forte è stata la ricattabilità umana dal bisogno di reddito come strumento necessario per espletare libertà effettive e non solo formali. La precarietà sociale di oggi è la condizione che meglio di tutte descrive questo contesto e tale precarietà e subordinazione di fatto della vita alle esigenze di profitto è tanto più elevata quanto più il processo di finanziarizzazione procede spedito e incontrastato.
Finanziarizzazione da un lato e carenza di reddito, dall’altro, sono dunque facce della stessa medaglia. Anzi la finanziarizzazione coatta, ovvero la dipendenza di parte del nostro reddito differito dall’andamento dei mercati finanziari, diventa uno degli strumenti principali attraverso cui si innesta il principio gerarchico del comando e del controllo sociale in funzione anti-conflittuale.
Numerosi sono gli esempi al riguardo: dalla crisi della compagnia aerea statunitense Twa, con la perdita non solo dei posti di lavoro ma anche delle pensioni accantonate nel fondo pensione aziendale, al caso del fondo Ultc, il cui fallimento ha azzerato le possibili future rendite pensionistiche per quasi tre milioni di lavoratori statunitensi nel 2001.
Ma non basta. Non solo il processo di finanziarizzazione espropria quote crescenti del reddito da lavoro differito e diretto, ma influenza in modo determinanti i processi di privatizzazione dei servizi sociali, quindi il reddito indiretto. In Italia, il processo di privatizzazione è andato ben al di là a degli obiettivi neoliberisti posti a livello europeo. Nella privatizzazione dei beni pubblici, siamo i primi delle classi e ciò a prescindere dal colore politico dei governi in carica. Anzi, è stato durante il governo di centro-sinistra che si è proceduto con maggiore solerzia a favore dei processi di privatizzazione. Lo smantellamento dell’Energia Elettrica (con lo smembramento dell’Enel in quattro società), delle Ferrovie dello Stato, del Gas, dei servizi idrici ha assunto più forza all’interno delle politiche federalistiche che hanno demandato alle regioni e alle municipalità locali la gestione attuativa delle delibere di privatizzazione. Ne è conseguito che le Aziende Municipalizzate si sono quotate in Borsa e anche se in parte il comune detiene la quota di maggioranza, le strategie di gestione dell’energia, dell’acqua, del gas, dei trasporti sono sempre più interdipendenti dalle dinamiche finanziarie dei mercati borsistici. L’obiettivo primario non è più la fornitura di un servizio di servizi di pubblica utilità a tariffe contenute, in grado di soddisfare le esigenze e i bisogni/diritti dell’utenza, bensì massimizzare nel breve periodo i livelli di capitalizzazione di borsa, il valore delle azioni quotati, tramite la maturazione di un profitto positivo a brevissimo termine. Ne consegue una politica di continua ristrutturazione, che vede, da un lato il management sempre più orientato a ottenere utili e, dall’altro, gli assessorati comunali e/o regionali a garantire plusvalenze finanziarie sul mercato dei capitali. La natura sociale del servizio diventa così l’ultima delle preoccupazione. Non è un caso che le tariffe aumentano ben al di là dell’inflazione programmata, che l’organizzazione del lavoro diventi sempre più flessibile, precaria e meno garantita, che la qualità delle prestazioni sociali sia sempre più insoddisfacente.
Ciò che a prima vista sembrava molto distante, ovvero la fornitura di energia elettrica e la finanziarizzazione delle economie, appare oggi sempre più stretto in un abbraccio mortale per i bisogni/diritti dei cittadini e dell’utenza.
Reclamare reddito (sia diretto che indiretto) è perciò esercitare contropotere finanziario.
Tratto da Infoxoa 17 Roma, 2004