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Harry Potter e il reddito universale

di Mattia Gallo

Esisterebbe Hogwarts, senza il sistema di sussidi del Regno Unito?

Quando alcune ragazze straniere venute nella mia città, a loro volta da altre città per un programma europeo di volontariato, mi dissero che apprezzavano la letteratura e che tra i libri che preferivano c’era quelli della saga di Harry Potter, ebbi la conferma del clamoroso successo della saga del maghetto di Howgarts. Si, perché anche nella mia città ci sono tantissimi lettori e fan dei libri della Rowling. Parliamo di una serie che nella storia dell’editoria ha venduto circa 500 milioni di copie, seconda in quanto vendite solo a Maigret di Simenon nella storia della letteratura; mentre il primo dei libri di HP, Harry Potter e la pietra filosofale compare nelle varie classifiche, stilate da vari siti italiani e non, che si possono leggere in rete tra i libri più venduti di sempre, o sul podio o al massimo al sesto posto. Ed anche io ho letto qualcosa, cioè il terzo capitolo della serie, Il prigioniero di Azkaban, a cui comunque darei un voto più che sufficiente.

Un aspetto che mi ha incuriosito molto di questo libro, è la sua genesi, così come può essere letta sulla pagina Wikipedia della sua autrice, la britannica Joanne Kathleen Rowling (le cui posizioni transfobiche sono del tutto esecrabili e condannabili). Dopo aver insegnato lingua inglese in Portogallo, l’autrice inglese visse una situazione finanziaria molto difficile, essendo senza lavoro e dovendo pagare l’affitto del suo appartamento con gli assegni di disoccupazione; e per questo viveva insieme alla figlia completamente di sussidi statali.

«Joanne – si legge su wikipedia – approfittando delle camminate per far addormentare la piccola Jessica nel passeggino, andava spesso al pub del cognato, dentro al quale si impegnava con passione a portare avanti il suo romanzo, che riteneva essere la cura a quella profonda crisi che stava attraversando. […] Nel 1995 terminò il manoscritto di Harry Potter e la Pietra Filosofale».

Okay, se pensiamo che per sussidio di disoccupazione intendiamo uno strumento di welfare che consenta a chi è senza lavoro di poter vivere, pagano affitto della casa, mantenendo un figlio, e trascorrendo la propria vita nei modi più opportuni rispetto alle circostanze, magari cercando ispirazione per la propria vita, uno strumento di welfare che in Italia non esiste (camminate per far addormentare la piccola Jessica?!? Andare a scrivere libri al pub del cognato?!?! Invece di andare a lavorare!), potremmo assimilare questo ad un reddito universale di cui molti movimenti sociali, cittadini e realtà di vario tipo parlano da anni nel nostro paese, come forma di rivendicazione di una misura contro la disuguaglianza per sconfiggere disoccupazione e precarietà.

Ma che ruolo ha avuto il sussidio, il dole – sostegno come lo chiamano in Gran Bretagna ed in Irlanda, nel mondo dell’arte in generale? Una risposta ce la dà il giornalista irlandese Patrick Freyne, che nel 2012 scrive per “The Irish Time” un articolo: Role of the dole: How benefits benefit artists (Ruolo del sostegno: come gli strumenti di assistenza sostengono l’arte). Come scrive Freyne, che analizza anche le condizioni degli artisti in Irlanda ai tempi del suo articolo, «Prima dello stato sociale, le opzioni per gli artisti erano: avere parenti ricchi, trovare un ricco mecenate o morire di fame in una soffitta. Dopo lo stato sociale, coloro che non avrebbero mai avuto la possibilità di creare lo hanno fatto con il sussidio. Ci sono esempi di alto profilo. JK Rowling ha scritto la prima puntata della sequenza di Harry Potter mentre viveva di sostegni statali. Molte delle band punk, post-punk e pop degli anni ’70 e ’80 si sono formate sulla scia del sussidio». Nel pezzo si legge anche l’intervento di Peter Murphy, lo scrittore dell’acclamato romanzo John the Revelator e un tempo anche musicista che percepiva il sussidio, il quale afferma: «Senza il sussidio non avresti avuto i The Specials. Non avresti avuto UB40. Non avresti avuto i Clash».

Un altro articolo molto interessante su questo argomento è stato pubblicato sul “The Guardian” nel 2015, dal titolo: Gissa Jobs! Writers on the dole (Dateci un lavoro! Artisti a proposito del sostegno). Si leggono le brevi storie e considerazioni di affermati artisti britannici ben noti anche all’estero, sul ruolo che il welfare inglese ha avuto sulle loro storie personali e professionali. In molti scrivono di quanto il periodo del dole, sia stato un periodo di studio, ricerca, svago, acculturazione personale molto proficuo per loro come persone e poi come artisti, tanto da influenzare i propri destini. Tra le dieci testimonianze riportate, vale la pena di riportare alcune considerazioni in particolare di due artisti.

Secondo lo scrittore Alan Warner, (per cui il dole ha dato «un’istruzione letteraria casuale e mi ha fatto apprezzare l’incredibile valore del tempo libero» – dandogli l’opportunità di leggere tantissimi libri, andare al cinema e via dicendo): «L’atavico odio morale spesso diretto verso i disoccupati e gli “scrocconi” avrebbe dovuto subire un duro colpo a causa dello scandalo delle spese parlamentari del 2009 e del crollo del 2008 dei nostri sistemi bancari sistematicamente corrotti. Non sono stati i minatori in sciopero, i sindacalisti, “totalitari marxisti” o abusatori del sistema di sicurezza sociale che hanno svuotato le casse dello Stato; a farlo erano i sommi sacerdoti del cosiddetto mercato libero ei loro alleati politici a Westminster».

Alcune considerazioni molto interessanti sono anche riportate nella testimonianza del bassista del gruppo Belle and Sebastian (autori del bellissimo pezzo Sleep the clock around), oltre che scrittore di due romanzi. David parla della sua vita, dice di essere cresciuto in Alexandria, una città nell’ovest della Scozia, dove le scuole avevano il solo compito di preparti come manovale nelle industrie. Nonostante le pressioni della famiglia, dei colleghi e degli insegnanti, David decide di sottrarsi al percorso di formazione scolastica che lo avrebbe mandato dritto nella fabbrica. Acquista autonomia finanziaria e si da alla formazione intellettuale. Come ha scritto: «Nel mio caso sono passati più di 10 anni prima di guadagnare un centesimo dalla musica o dalla scrittura. Mia sorella, che è stata nominata per il premio Turner nel 2011, ha impiegato altrettanto tempo per arrivarci, aiutata allo stesso modo dal sistema dei benefits statali. Per i bambini provenienti da ambienti come il nostro, dove non ci sono connessioni sociali al di fuori del mondo del lavoro umile e dove non ci sono soldi in famiglia per consentire la sperimentazione e l’esplorazione di modi di vita alternativi, un sistema di benefici equi è essenziale».

«C’è un mito che dice che puoi lavorare con lavori umili e imparare comunque a essere un artista nel tuo tempo libero. Questo è propagato da persone che non sono cresciute nel mondo in cui l’unica opzione è il lavoro a bassa retribuzione e lo sfruttamento» spiega molto bene Stuart.

Okay, la prima obiezione per chi starà leggendo questo pezzo e non è il linea con i suoi contenuti è questa: «Ma mica tutti quelli che prenderebbero un reddito universale diventerebbero grandi artisti? Anzi, sarebbe una rara casualità». Per onestà intellettuale dovreste dire allora che non dovreste ascoltare né London Calling dei Clash e né A message to you Rudy dei The Specials. E non dovreste neanche leggere un rigo di Harry Potter, perché avreste voluto che gli autori di queste opere invece che dedicare il proprio tempo alla formazione personale ed artistica attraverso un sostegno proveniente da un sistema di welfare, avrebbero dovuto lavorare per un call center o essere sfruttati in un bar, e tornare a casa stanchi senza nessuna voglia di scrivere niente e non aver contribuito affatto né alla propria crescita personale né a quella collettiva (certo i bar servono, ma lo sfruttamento di chi ci lavora, assolutamente no. Per quanto riguarda i call center invece, non servono proprio a nulla…)

Secondo, forse semplicemente sarebbe meglio appunto vivere in una condizione di welfare avanzato invece che nella disuguaglianza e nell’ingiustizia sociale fatta di precarietà e disoccupazione come stanno le cose adesso, e sul piano culturale, in uno stato di continua auto-pressione ed isolamento proprio di chi si sente come un uomo – impresa in una costante performance. Magari passando il proprio tempo avendo cura della città in cui si vive, all’ecologia, alla sanità, magari diventando scrittori, perché no.

In generale, uno dei manifesti più celebri sull’importanza del reddito universale per tutti (per tanto tempo chiamato “Reddito di cittadinanza”), può essere letta nel manifesto Dieci tesi sul reddito di cittadinanza.

Per quanto riguarda i buoni motivi per cui pretendere un reddito universale nel mondo dell’arte (e valido comunque, per tutti) vale la pena riportare di seguito i primi tre punti di Art for Ubi, manifesto per un reddito di base universale ed incondizionato relativo al settore artistico e culturale

1/ Il reddito di base universale ed incondizionato (UBI) è la migliore misura per il settore artistico e culturale. Al tempo stesso, i lavoratori e le lavoratrici dell’arte chiedono il reddito di base non solo per sé stess*, ma per tutt*.

2/ Tutte quelle misure che non raggiungono un salario di sussistenza, non sono definibili come UBI. Questo deve superare la soglia di povertà. Per eliminare la miseria, l’UBI deve corrispondere, almeno, al salario minimo di uno Stato o di una regione.

3/ L’UBI libera tempo e ci libera dal ricatto del lavoro precario e dalle condizioni di sfruttamento sul lavoro.

Insomma, se non avessimo avuto un sostegno – reddito, non avremmo avuto sicuramente Harry Potter, la saga di Hogwarts e tutta la magia che ha emozionato tantissimi suoi lettori. È ora che Harry faccia una magia contro i ricchi – Voldemort, gli faccia pagare un po’ di tasse e redistribuire le risorse per tutti.

 

Tratto da Sherwood.it

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