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Il Parlamento europeo e il reddito minimo.

di Giuseppe Bronzini

Il 21 ottobre 2010 il Parlamento europeo ha varato, con una  maggioranza di tipo «bulgaro» ( 540  voti a favore, 30 contro) una nuova risoluzione sul  «reddito minimo nella lotta contro la povertà e la promozione di una società inclusiva in Europa». Rinviando ad una lettura del complesso Testo nella sua interezza  (reperibile sul sito www.bin-italia.org) ci sembra a caldo di poter sviluppare due considerazioni di ordine generale, la prima in senso positivo, l’altra in senso critico sulle decisioni del Parlamento di Strasburgo.

Il Parlamento europeo e il reddito minimo

Il 21 ottobre scorso il Parlamento europeo ha varato, con una  maggioranza di tipo «bulgaro» ( 540  voti a favore, 30 contro) una nuova risoluzione sul  «reddito minimo nella lotta contro la povertà e la promozione di una società inclusiva in Europa». Rinviando ad una lettura del complesso Testo nella sua interezza  (reperibile sul sito www.bin-italia.org) ci sembra a caldo di poter sviluppare due considerazioni di ordine generale, la prima in senso positivo, l’altra in senso critico sulle decisioni del Parlamento di Strasburgo.

Questa risoluzione, in modo ancor più netto rispetto ad una precedente sullo stesso tema del 2008, sancisce in modo pieno il riconoscimento di un diritto del cittadino europeo (ma anche del residente stabile nel territorio dell’Ue) ad un reddito che ne salvaguardi la dignità sociale. In accordo con quanto stabilito nella Carta di Nizza  il reddito minimo viene qui definito come un diritto sociale fondamentale, destinato a fungere quale strumento di protezione della dignità del soggetto (si ricorda nella risoluzione che «la dignità è un principio fondante dell’Unione europea»), e della sua «possibilità di partecipare pienamente alla vita sociale, culturale e politica» (sono evidenti i richiami alla sentenza della Corte costituzionale tedesca del 9.2.2010 in materia di reddito minimo). Pertanto le misure concesse dagli Stati devono essere «adeguate» e giustificate secondo indicatori «affidabili e pertinenti» (anche qui è visibile l’influsso della sentenza tedesca); le politiche in corso di aggiustamento dei conti pubblici non possono pregiudicare il diritto in questione. Infine specificamente si invitano la Commissione e gli Stati membri «ad esaminare in che modo i diversi modelli non condizionali e preclusivi della povertà per tutti, possano contribuire all’inclusione sociale, culturale e politica, tenuto conto in particolare del loro carattere non stigmatizzante». Insomma la risoluzione non si limita a pronunciarsi genericamente a favore di un redddtio di ultima istanza, dall’insieme del provvedimento emerge anche una chiara opposizione ai modelli eccessivamente condizionati di reddito minimo che rischiano di compromettere le stesse finalità dell’istituto, individuando i soggetti beneficiari non come legittimi portatori di un diritto soggettivo di natura costituzionale, ma come appartenenti alle nuove «classi pericolose», da sostenere solo ai fini disciplinari e di controllo sociale.

Certamente  la risoluzione individua ulteriori  misure a favore del soggetto in difficoltà se questi è disoccupato: in primis la fruizione di corsi di formazione permanente e continua e l’accesso ai servizi efficienti e gratuiti di collocamento che del  resto costituiscono altrettanti fundamental rights protetti  dalla Carta di Nizza, nonché efficienti ammortizzatori sociali che sostengano il livello del reddito delle famiglie durante le transizioni lavorative. Si precisa ancora che il disagio sociale va combattuto non solo con contributi monetari ma anche con una  più vasta rete di interventi che coprano bisogni primari come l’abitazione e le spese di carattere eccezionale, ma non vi è alcun passaggio in cui si accetti l’idea che sia possibile proteggere la dignità della persona  solo se questo serve ad incrementare il tasso di occupazione e per indurre i soggetti ad accettare offerte di lavoro, anche dequalificanti o ritenute non coerenti con le proprie aspirazioni e il proprio bagaglio professionale.

Indubbiamente il Testo licenziato dal Parlamento europeo si presenta come un tentativo di correzione di rotta rispetto alle iniziative di alcuni paesi ( soprattutto la Francia con il passaggio dal Rmi al «Reddito attivo di solidarietà») che hanno accentuato, in quest’ultimo periodo, il carattere condizionato delle prestazioni offerte ai soggetti disoccupati o in stato di difficoltà, con gravi sanzioni per gli inadempienti.

Il lato negativo della risoluzione riguarda invece gli strumenti per attuare il diritto. Infatti

disgraziatamente la proposta sostenuta anche dal  PSE e dai Verdi di lanciare una «direttiva quadro» in materia non è passata, per l’opposizione del PPE e di altri gruppi di centro.

La Risoluzione continua a puntare sull’open method of coordination, mentre sarebbe invece necessaria una maggiore stigmatizzazione dei paesi ribelli alle indicazioni sopranazionali, invitando la Commissione ad adottare una iniziativa su larga scala sul tema. Tuttavia anche la proposta di una direttiva quadro  in questa fase è piuttosto ambivalente. Visto che tutti i paesi sono intenti nelle politiche di risanamento dei loro bilanci e spesso persino quegli Stati che hanno sistemi di garanzia dello ius existentiae (tipo Spagna e Portogallo) si mostrano sempre più in affanno a garantirlo in misura adeguata, l’Unione dovrebbe davvero compiere un salto di qualità, da molti autorevoli commentatori da tempo suggerito, nel requisire in capo a sé il compito di tutela delle regole minime di solidarietà paneuropea e  di coesione sociale approntando risorse proprie per tutelare la «dignità» del cittadino europeo. Il varo degli euro bonds, come richiesto anche da Barroso nel primo discorso sullo «stato dell’Unione» potrebbe risolvere il problema del finanziamento nel quadro dell’avvio di una politica fiscale e sociale comune gestita secondo un metodo comunitario e non intergovernativo. In ogni caso l’orientamento di gruppi consistenti del Parlamento europeo verso l’ipotesi di una «direttiva quadro» è certamente un fatto positivo perché manifesta l’intenzione della sinistra di giocare una carta «europea» per una gestione più equa ed equilibrata delle risposte alla crisi e di voler quindi abbandonare le logiche di mera difesa nazionalistica dei sistemi di sicurezza sociale interni, troppo spesso agite in questi anni.

Per rilanciare la sfida e vincere le resistenze in campo, forse sarà necessario che si pronunci direttamente la sfera pubblica europea attraverso, non appena sarà possibile, una raccolta di firme

(come prevede il Trattato di Lisbona)  per promuovere una legge Ue in questa materia, che sappia valorizzare a pieno le sacrosante affermazioni in linea di principio che ci offre una risoluzione coraggiosa sul piano ideale, ma ancora timida sul piano politico-istituzionale.

Pubblicato su: Pane e acqua, 2010

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