Il reddito di base: uno schema ‘origine-destinazioni’*
1.)Non sono pochi i fili che vengono a intrecciarsi in questo nostro incontro. Molto dipende dal fatto che il lavoro del quale discutiamo mette insieme due cose ben diverse – il ‘discorso’ del Reddito di Base, alcuni dei più recenti sviluppi in materia di Intelligenza Artificiale – e che entrambe, manco a dirlo, si prestano a tantissime considerazioni[1]. Ma c’è anche la circostanza, degna d’attenzione, che l’incontro cade proprio nel mezzo della settimana di mobilitazione promossa dalla rete Ci vuole un reddito per contrastare il disegno del governo di ‘sostituire’ il Reddito di cittadinanza, già pesantemente mortificato con la legge di bilancio di quest’anno[2]. Proprio da questa circostanza, anzi, vorrei partire, da un cenno al rapporto con la mobilitazione in corso, per dire poi qualcosa circa i ‘fondamentali’ del Reddito di Base, e infine vedere come sia possibile connetterlo all’argomento, apparentemente così lontano, dell’Intelligenza Artificiale. Il tutto, s’intende, per sommi capi, come una traccia di ragionamento offerta alla discussione.
2.) Dato il tenore delle intenzioni espresse dal governo in carica, la necessità di contrastarle non potrebbe essere più acuta. La campagna lanciata dalla rete Ci vuole un reddito lo fa con la dovuta determinazione, e ha anche il merito di lottare contro la demolizione del Reddito di cittadinanza istituito nel 2019 senza tacere i pesanti limiti che quella misura invero presentava. Così, nel quadro delle iniziative, non manca il senso di una difesa in chiave evolutiva, animata, in particolare, dall’obiettivo di mettere in questione la subordinazione dei trasferimenti alle consuete condizioni comportamentali in materia di partecipazione al lavoro, formazione e simili. Ma tutto ciò, a me pare, per quanto vada nella direzione giusta, non toglie la necessità di superare con più nettezza la miseria del quadro politico vigente, né toglie che la stessa campagna Ci vuole un reddito trarrebbe giovamento dalla presenza di uno ‘sfondo attivo’, chiamiamolo così, di maggior respiro. Anche in considerazione del fatto che la possibilità di condizionare efficacemente l’azione del governo, allo stato degli atti, è penosamente piccola.
In grado di superare più nettamente la miseria del quadro politico vigente è appunto la prospettiva di un Reddito di base disegnato comme il fault – permanente, individuale, non means tested, non condizionato, possibilmente neppure troppo avaro –, della quale, di più, mi azzardo ad affermare la pertinenza all’obiettivo generale di abbozzare i tratti di un’identità politico-ideale nella quale infine potersi riconoscere, e di un ‘programma fondamentale’ che valga a concretarla. Per come lo avverto, questo compito non è meno urgente della necessità di contrastare i propositi espressi dal governo in carica, dalla quale, casomai, bisogna evitare che venga a essere spiazzato, come in effetti accade quando tutto si riduca all’obiettivo di difendere la parte più povera della società – obiettivo degnissimo, si capisce, ma in certo modo esso stesso povero, troppo immediato e parziale per definire un orizzonte ideale di sufficiente ampiezza. Non voglio nascondere, infatti, che nel sollevare la questione di un’identità e di un ‘programma fondamentale’ in cui potersi riconoscere, ho in mente qualcosa di confrontabile, in termini di standing, con le istanze di trasformazione sociale espresse dal movimento dei lavoratori nei momenti in cui maggiore è stata la sua forza, le quali certo non hanno mai mancato di comprendere la fine della povertà, ma come frutto di un disegno destinato a investire l’intero della realtà economica. Molto della loro particolare configurazione e del loro stesso colore culturale mi sembra oggi improponibile – ma questo, detto in modo onesto, toglie poco alla nostalgia della loro altezza, e alla speranza che il loro respiro non sia perduto in via definitiva. Del resto, non per un qualche partito preso, ma per la percezione che nulla di meno è richiesto dalla portata del male presente nella società.
Naturalmente, che la prospettiva di un Reddito di Base sia pertinente a considerazioni del genere è cosa da vedere. Ma vale la pena di controllare, approfittando del fatto che i rapporti di forza vigenti nel presente contano ben poco quado si tratti di motivi ideali e strategie di fondo. In effetti, a partire dal bisogno che la riguarda, la formazione di un’identità nella quale potersi riconoscere non prevede condizioni che non stiano già, tutte, nelle nostre mani – e lavorare a delinearla è forse il meglio che possiamo fare in questo tempo cieco, per prepararne di migliori.
Tale dunque il contributo che vorrei portare alla mobilitazione in corso: fare in modo che tra i banchi delle iniziative a difesa del Reddito di cittadinanza non manchi di aggirarsi la figura del suo fratello maggiore, il Reddito di base, affinché restino vivi obiettivi di cambiamento che il contrasto dei provvedimenti governativi non basta affatto a restituire – e che possono dispiegare effetti reali, di orientamento e raccolta di energie, ben prima di diventare di fatto perseguibili[3].
3.) In sé, la prospettiva di un Reddito di base ha il pregio della semplicità. Non così il quadro delle sue giustificazioni – la cui complessità, però, fa tutt’uno con la sua ricchezza. Allora, affinché quest’ultima prenda corpo in modo ordinato, in tutti i suoi diversi aspetti, conviene innanzi tutto distinguere due piani, più nettamente di quanto in genere si faccia. Uno è quello degli effetti che è lecito attendersi ‘a valle’ dell’istituzione di un Reddito di Base, diciamo i benefici in vista dei quali viene istituito. Dunque un versante di ragioni finali, di risultati attesi; l’altro, invece, è formato da ragioni che stanno alle sue spalle, su cui possiamo dire che riposa, dicibili ancor prima di sapere quali e quanti risultati la sua esistenza consenta di raggiungere. Lo schema che segue riassume appunto questa situazione, anticipando anche il contenuto essenziale di ognuno dei due piani[4].
La distinzione mi è stata suggerita da Simone Furzi diverso tempo fa[5]; più recentemente l’ho trovata esposta con chiarezza in un testo breve, molto consigliabile, nel quale si indica anche il piano al quale perlopiù si fa riferimento.
“Many debates around universal basic income are centered on the question of whether this is the most effective way to reform welfare, reduce poverty or mitigate for technological unemployment[6].”
Qui si tratta appunto degli esiti che l’istituzione di un Reddito di base consente o non consente di determinare, sicché il discorso assume un tipico sapore ‘conseguenzialista’. Niente di male, naturalmente, tanto più che in verità si tratta di esiti plausibili, confortati da notevoli evidenze empiriche. “Yet there is a more fundamental reason to demand it: distributive justice” – tuttavia c’è una ragione più fondamentale per pretenderlo: la giustizia distributiva.
“Even if robots don’t put us out of work, and poverty is no longer a problem, we should still demand a universal, unconditional, guaranteed level of material wellbeing – on the grounds that this is our shared inheritance of collective wealth. This both is the collective wealth of the commons (be it land or natural resources), and the wealth created by past generations, currently captured by just the lucky few who inherit it or get to capitalise on it. We can call this share of collective wealth a national, social, or commons dividend[7].”
Passo felice, direi, nel quale si capisce bene sia il diverso genere della giustificazione che adesso si tratta di inquadrare (siamo appunto sul piano dei principi di giustizia) sia il contenuto sostantivo che viene a concretarla (l’idea di un’eredità condivisa). E così, anche, siamo rinviati alla linea di ragionamento – inizialmente dovuta a Simon, e almeno in parte avallata da Solow – che occupa una posizione affatto centrale in quella specie di summa del nostro argomento che è Il reddito di base di Van Parijs e Vanderborght.
“Noi tutti, in modi diversi, ma principalmente attraverso il reddito da lavoro, beneficiamo in misura estremamente ineguale di ciò che riceviamo gratuitamente dalla natura, dal progresso tecnologico, dall’accumulazione del capitale, dall’organizzazione sociale, dalle norme del vivere civile e così via. Il reddito di base assicura che ciascuno riceva una quota equa di questo patrimonio, che nessuno di noi ha contribuito a creare, dell’ingombrante presente incorporato nei nostri redditi in modo assai disomogeneo[8]”.
Ecco, a me pare che questa giustificazione – larga, generosa, schiettamente positiva – davvero non manchi di rilievo al fine di abbozzare i tratti di una posizione ideale in cui potersi riconoscere. Visto il contesto nel quale discutiamo, non mancherò di dire che si tratta di una giustificazione diversa da quella incentrata sulla partecipazione alla rete come fornitori di dati non pagati, cara al Bin e richiamata anche nel Quaderno oggetto di questo incontro, sulla quale in effetti ho più di una riserva. D’altra parte anche può darsi che le due, a lavorarci un po’, risultino per qualche verso compatibili; e comunque vale la pena di osservare che entrambe si segnalano per il fatto di non essere giustificazioni di tipo ‘esigenziale’, modellate sul codice dei bisogni, che subito diventano diritti. Voglio dire che entrambe fanno leva su un ‘pieno’ che esiste e attende soltanto di essere compreso – l’eredità comune, l’apporto alla rete – piuttosto che sulla richiesta di colmare certi ‘vuoti’, come tipicamente accade quando si sollevano problemi di povertà e marginalità sociale. Anche questo connotato – questa tonalità ideale – mi sembra importante quado si tratti di delineare un atteggiamento intellettuale e morale degno di essere approvato.
4.) Quello appena delineato è un fondamento ‘inconcusso’, per dire perentorio, autonomo, come del resto si addice all’affermazione di un principio di giustizia. Non lo giudicheremo dunque dai suoi frutti, come vorrebbe il Vangelo di Luca – ma per fortuna accade che i frutti, come nel Vangelo di Luca, confermino la qualità dell’albero.
Anche qui conviene distinguere due piani – i livelli (c) e (d) dello schema. Il primo è a mala pena distinguibile dal fatto stesso dell’istituzione di un Reddito di Base, ovvero dal suo stesso concept: la previsione di un trasferimento monetario (i) messo al riparo dalle ingiurie del mercato, siano esse gli alti e bassi dei cicli economici, la disoccupazione tecnologica, le caratteristiche della domanda di lavoro, ecc., e (ii) disponibile quali che siano i progetti di vita che intende perseguire colui/colei che lo riceve. Quindi, strettamente intrecciati, ma non identici: un aumento del livello di sicurezza presente nella società, ovviamente apprezzabile in termini di lotta contro la povertà e, prima ancora, contro il rischio e dunque il timore di diventare poveri; un certo ammontare di “libertà reale”, come la chiama Van Parijs, definita in termini di agency (più o meno lo stesso della “libertà positiva” di Sen e molti altri).
Inutile dire quanto tutto questo sia importante – quanto il clima dell’intera vita sociale ne sarebbe reso più sereno, e quindi anche più partecipe, fattivo, come suggerito da molte delle già citate evidenze empiriche[9]. Ma questo non è tutto – o meglio è tutto, ma in chiave dinamica, nel senso che un clima come quello appena detto è destinato a generare molteplici e più precise ‘conseguenze’. Nelle due direzioni indicate dal livello (d) dello schema.
La prima, come si vede, riguarda la partecipazione al lavoro, ovvero una modificazione (abbastanza profonda, in effetti) delle condizioni che presiedono ai rapporti di domanda e offerta. In letteratura, le fattispecie più citate sono le seguenti: la possibilità di non accedere a posti di lavoro offerti a condizioni indecenti; la possibilità di lasciare un posto di lavoro che non piace o non piace più, anche se non è offerto a condizioni indecenti, per cercarne un altro, più soddisfacente; la possibilità di interrompere il lavoro per studiare, per acquisire competenze nuove (pur sempre spendibili sul mercato del lavoro); la possibilità di negoziare con più forza orari, compensi, assetti organizzativi; altro ancora dello stesso genere. Così, manco a dirlo, siamo di nuovo in presenza di effetti importantissimi, da valorizzare senza risparmio nella giustificazione del claim di un Reddito di Base, sul piano ideale non meno che su quello materiale. ‘Anche’ perché mostrano quanto poco l’istituto sia in contrasto con le ragioni del lavoro, delle quali, anzi, è schiettamente amico.
Gli amici, però, devono essere sinceri. E così accade che il ‘discorso’ del Reddito di Base riconosca senza remore le ragioni del lavoro salvo il fatto di ‘relativizzarle’, salvo dare a Cesare quello che è di Cesare senza pensare che non vi sia altro che merita la stessa considerazione, senza pensare che le obbligazioni nei riguardi di Cesare debbano tenere il centro della scena.
Precisazione probabilmente superflua, ma utile a fini di mente locale: quando dico ‘lavoro’ intendo sempre il lavoro remunerato, professionale, che si scambia contro denaro (o i cui prodotti si scambiano contro denaro), vale a dire quello che produce merci e servizi pubblici[10]. Basta questo per rendersi conto che di esso non si può in alcun modo parlar male, visto che sia le merci che i servizi pubblici sono forme sociali della ricchezza (per usare la pregnante locuzione marxiana) dalle quali non possiamo certo pensare di prescindere. Tanto meno, poi, ne potrebbe parlar male un sostenitore del Reddito di Base, visto che il denaro che vuole trasferire serve appunto ad acquistare merci. Soltanto, neppure deve accadere che la profondità delle ragioni del lavoro (qui soltanto accennate) impedisca di vedere e di mettere a tema tutto quello che si muove (può muoversi) oltre la sua sfera. Anzi, secondo la tesi che di qui in poi voglio sostenere, di mettere a tema il fatto che oltre la sua sfera giacciono modi e contenuti dell’agire dai quali dipende in misura cruciale la qualità dell’intera vita economica e sociale nel tempo che ci attende. Questa, in effetti, è la giustificazione finale che più di tutte mi sta a cuore, non tanto perché conti più delle altre, quanto perché è lontanissima dal ricevere l’attenzione che dovrebbe. Dal momento che allenta le preoccupazioni legate alla necessità di guadagnarsi da vivere vendendo la propria forza-lavoro sul mercato, l’esistenza di un Reddito di Base fa sì che altre forme dell’agire sociale, delle quali massimamente v’è bisogno, possano respirare più liberamente. Per allargami appena un po’, offre condizioni più favorevoli a molteplici “manifestazioni di vita umana” (di nuovo Marx), irriducibili alla logica della divisione professionale del lavoro, che oggi presentano i tratti di questioni ‘emergenti’. Condizioni favorevoli ma non sufficienti, conviene dire subito, ché il Reddito di Base non basta certo a fa sì che le manifestazioni in questione passino dalla potenza all’atto – e però condizioni essenziali, sulle quali, del resto, si riverbera tutta l’importanza di quello che rendono possibile.
Perloppiù, in letteratura, quando si arriva a questo argomento, agli usi del tempo e degli spazi mentali liberati dall’esistenza di un Reddito di Base, si trovano elenchi che comprendono attività di cura (di se stessi e di persone care, forse dell’ambiente), di socializzazione, formative (diverse da quelle che producono risultati spendibili sul mercato del lavoro) o anche espressive, di impegno civile. Devo dire che indicazioni del genere mi lasciano sempre alquanto insoddisfatto – troppo rapide, e anche un po’ stereotipate. Nessuna concettualizzazione, nessuna tematizzazione degna di questo nome, e soprattutto nessuna storicizzazione[11]. Perciò mi sembra che uno dei compiti più importanti da prendere in considerazione sia proprio quello di portare in piena luce la consistenza e la ricchezza delle attività che l’esistenza di un Reddito di Base consente di coltivare grazie alla riduzione dei motivi di ansia legati al reddito e al lavoro – e il fatto, insisto, che si tratta di attività cruciali affinché l’intero corso della vita sociale possa proseguire in modo umano, civile, ragionevole.
5.) Purtroppo, una tesi del genere può essere dimostrata soltanto in chiave ‘ostensiva’, il che, per definizione, richiede molto spazio. Mi limiterò quindi a uno degli argomenti citati in letteratura, proponendone appunto una (pur sempre sommaria) tematizzazione, intesa a suggerire ‘intensivamente’ il tipo di discorsi del quale vi è bisogno.
Negli ultimi decenni, in netto contrasto con il carattere prevalentemente ‘cosale’ della società opulenta, l’espansione dei mercati è giunta ad assediare i recessi della soggettività – a intervenire direttamente all’interno dei processi e dei luoghi che presiedono alla formazione delle nostre intelligenze, sensibilità, capacità relazionali, ecc. Così è in ragione (i) della colonizzazione mercantile dei mondi vitali, (ii) dell’offensiva neoliberista nei confronti (anche dello spirito) dell’istruzione pubblica, (iii) dei molteplici volti del “capitalismo culturale”, (iv) del portato cognitivo e perfino neuronale della perenne immersione in un web dominato dagli interessi commerciali delle grandi piattaforme, (v) di altro ancora[12]. E il risultato, però, è una continua riduzione delle risorse intellettuali e morali disponibili nel seno della società, ormai registrata perfino dalle rilevazioni sulle basilari capacità di attenzione, concentrazione, lettura, ascolto, memorizzazione, ecc., senza le quali, si capisce, tutto è perduto[13]. Né deve sfuggire che la cosa è tanto più deplorevole in quanto la qualità di molte delle questioni emerse negli ultimi decenni – complesse, di per sé controvertibili, segnate da elevati e intrinseci motivi di incertezza – pretenderebbero proprio il contrario: un aumento dell’intelligenza presente nel seno della società, un accrescimento della sensibilità e delle capacità riflessive possedute, diciamo così, dall’‘individuo ‘rappresentativo’.
Nella prospettiva del comunismo, Marx pensava che il disposable time – il tempo libero generato dagli aumenti di produttività del lavoro – sarebbe stato un tempo dedicato alla formazione artistica e scientifica degli individui, e che come tale non avrebbe mancato di diventare, esso stesso, la massima forza produttiva della società. Un tale ottimismo, come dirò più avanti, risulta oggi senz’altro indifendibile. Ma questo, adesso, è meno importante del fatto che lo schema, invece, può essere tenuto. Al cospetto dei fenomeni di impoverimento culturale che segnano l’epoca in cui viviamo, nulla vieta e molto consiglia di immaginare che il tempo e gli spazi mentali resi disponibili dall’esistenza di un Reddito di base siano riempiti da esperienze nelle quali gli individui regalino a se stessi il bene di una “testa ben fatta”[14]; e che i risultati di esperienze del genere retroagiscano sulla società, che le ha rese possibili, come massimi fattori di qualità delle scelte collettive riguardanti l’organizzazione del vivere civile e i suoi sentieri di sviluppo.
Così, naturalmente, si conferma che il Reddito di Base va considerato alla stregua di una condizione necessaria ma non sufficiente. È chiaro, infatti, che le esperienze in questione comportano l’esistenza di offerte formative, delle quali la presenza di un Reddito di Base non basta certo a garantire l’organizzazione – e in vista delle quali, tra l’altro, non si può pensare di prescindere dal ruolo delle istituzioni pubbliche. Tuttavia, siccome la formazione è sempre, al tempo stesso, apprendimento, e nessuno che voglia apprendere qualcosa può delegare a un altro il compito di farlo al posto suo[15], tempo e spazi mentali costituiscono in ogni caso condizioni critiche, senz’altro inaggirabili. E lo stesso vale nel caso in cui, insieme e oltre a quelle di matrice pubblica, si vogliano immaginare offerte formative organizzate in forma autonoma nel seno della società civile, secondo una prospettiva che in se stessa meriterebbe uno sviluppo autonomo.
6.) La scelta di affidare l’oltre del lavoro all’esempio della formazione personale e civile non dipende soltanto dal fatto che quest’ultima racchiude i termini di un’emergenza storica, tanto grave quanto disattesa, ma anche dal contenuto particolare di questo nostro incontro, nel quale il Reddito di Base è messo insieme all’Intelligenza Artificiale.
Ho già accennato alla fattispecie delle questioni ‘difficili’, per dire in sé controvertibili, segnate da elevati e intrinseci motivi di incertezza, ecc. Aggiungo adesso che la loro portata è tale da aver condotto all’elaborazione di una specie di paradigma ad hoc, che va sotto il titolo di “scienza post-normale”, definito dalle seguenti quattro condizioni: (i) i dati sono incompleti (i nessi di causa-effetto sono incerti), (ii) i valori sono in discussione, (iii) la posta in gioco è alta, (iv) le decisioni sono urgenti (il tempo è poco)[16].
Ecco, avessi spazio, cercherei di mostrare che gli sviluppi recenti e attesi dell’Intelligenza Artificiale corrispondono allo schema punto per punto, con precisione davvero impressionante, tanto che di essa si può forse parlare come di una tecnologia post-normale. Le seguenti citazioni contengono comunque l’essenziale.
“In 1945, the US army conducted the Trinity test, the first detonation of a nuclear weapon. Beforehand, the question was raised as to whether the bomb might ignite the Earth’s atmosphere and extinguish life. Nuclear physics was sufficiently developed that Emil J Konopinski and others from the Manhattan Project were able to show that it was almost impossible to set the atmosphere on fire this way. But today’s very large language models are largely in a pre-scientific period. We don’t yet fully understand how they work and cannot demonstrate likely outcomes in advance[17].”
“When writing traditional software, we have an explicit understanding of how and why the inputs relate to outputs. These large AI systems are quite different. We don’t really program them — we grow them. And as they grow, their capabilities jump sharply. You add 10 times more compute or data, and suddenly the system behaves very differently[18].”
Ancora, ho già citato gli effetti cognitivi e neurologici, ormai positivamente accertati, che il web dominato dalle grandi piattaforme produce in lungo e in largo nelle nostre menti. Di quelli che saranno prodotti dalle future ondate di tecnologie IA ancora non sappiamo, anche se una certa preoccupazione, diciamo così, sembra legittima. Ma in ogni caso è proprio questo non sapere che segna in profondità l’intero quadro interpretativo
D’altra parte, a proposito della scienza post-normale, va ha anche detto che un’importante corrente di pensiero non ha tardato a collegarla alla prospettiva nota sotto il titolo di citizen science, ovvero all’istanza di un sapere presente in modo diffuso nel seno della società, chiamato appunto a intervenire nei varchi aperti dalla rottura del rapporto ‘classico’ tra una scienza-tecnica compiutamente padrona del proprio modo di procedere e una rappresentanza politica delegata a scegliere sulla base delle informazioni che esso le fornisce. Il che, in effetti, è largamente in sintonia con il messaggio che (con l’aiuto di Marx) ho cercato di trasmettere nel paragrafo scorso, perché circa la citizen science è appena il caso di osservare che sembra fatta apposta per giovarsi delle esperienze formative che si possono immaginare grazie al tempo e agli spazi mentali resi disponibili dall’esistenza di un Reddito di Base; come gli sviluppi recenti e attesi dell’Intelligenza Artificiale sembrano fatti apposta per esservi messi a tema con tutta la post-normalità che li contraddistingue.
Così, il risultato è anche un modo in più di unire le due cose, il digitale (IA inclusa) e il Reddito di base. Senza dubbio, a monte, le tecnologie digitali fanno parte del capitale sociale del quale il Reddito di Base costituisce un dividendo destinato a tutti, a maggior ragione per via del valore che effettivamente si genera nei loro processi di consumo[19]. Senza dubbio, a valle, il Reddito di Base interviene positivamente sul terreno dell’occupazione e della distribuzione dei redditi, dove il digitale determina molteplici scompensi. Adesso, però, si vede che le maggiori facoltà di agency che esso offre agli individui possono anche avere il digitale come proprio oggetto, in chiave riflessiva: il che, si capisce, può anche accadere nei riguardi di altre cose, ma senza per questo perdere di vista quanto in profondità, e quanto ambiguamente, il digitale intervenga oggi a formare le nostre personalità.
7.) Talvolta, nelle discussioni intorno al Reddito di Base viene citata la nozione di general intellect presente nei Grundrisse. In quanto si tratti di un modo di alludere al patrimonio di risorse collettive che l’istituto contempla come propria fonte, non vi è motivo di obiettare. Ma la nozione, in se stessa, non può essere presa di peso – e i motivi per cui bisogna piuttosto soppesarne le ragioni non sono privi di importanza dal punto di vista della connessione con l’argomento del Reddito di Base.
Tutto sommato, l’aria che si respira nella parte dei Grundrisse che mette capo al concetto di general intellect è del tipo “magnifiche sorti e progressive”. Senza dubbio, vi si contempla la necessità di una rottura rivoluzionaria; ma quest’ultima (tra l’altro sostanzialmente inevitabile) incide ben poco sulla positività – garantita, lineare, univoca – della dinamica che verte sugli incrementi di powerfull effectiveness legati allo sfruttamento produttivo del progresso scientifico. Ora, il problema non è che la dinamica in questione sia stata meno intensa del previsto (casomai è vero il contrario); e neppure che la previsione di una velocità nettamente superiore al ritmo di aumento dei consumi sia stata in buona parte contraddetta dallo svolgimento storico. Il problema, piuttosto, sta nel fatto che gli incrementi di powerfull effectiveness, spettacolari come sono stati e continuano a essere, si sono però rivelati forieri di risultati avvolti da vaste zone di incertezza – o peggio. Facile che la mente, qui, corra alla crisi ecologica; ma i già citati effetti cognitivi e neurologici del web sono un argomento anche più indicativo di quanto la questione sia profonda.
Naturalmente, questo non è altro che un modo per richiamare in servizio la nozione di scienza post-normale, di per sé sufficiente, direi, a modificare il quadro interpretativo che emerge dai Grundrisse. Ma in servizio, allora, va anche richiamata l’idea complementare di un sapere diffuso nella società, leggibile nel costrutto della citizen sience – per dire che le questioni ‘difficili’ che segnano il tempo in cui viviamo richiedono invero un altro tipo di general intellect, cioè l’esercizio di un’intelligenza pur sempre collettiva, anzi tale in modo e misura eminenti, ma di natura profondamente diversa da quella incorporata nella potenza in atto della scienza e della tecnica. E per qualificarla non posso non ripetermi: in più sensi, si tratta di un’intelligenza di tipo riflessivo, in certo modo ‘pensosa’, della cui necessità, pour cause, non v’è traccia nell’opera di Marx.
Il risultato che infine prende forma è dunque il seguente: sì, il corso della scienza-tecnica libera o può liberare molte energie dal compito di produrre determinate quantità di beni e di servizi, ma al tempo stesso consegna a compiti di giudizio, intrinsecamente politici, il cui svolgimento non è affatto ‘libero’, se la parola significa eventuale, esente da sue proprie ragioni di necessità, sottratto al dominio delle responsabilità comuni. E per svolgerli c’è proprio bisogno di teste “fatte bene”, versatili, capaci di ascolto (anche dei sentimenti e delle loro valenze cognitive), avvezze al gioco dei punti di vista, a proprio agio in contesti discorsivi segnati da elevati profili di complessità, possibilmente creative. Nonché, ovviamente, ‘informate dei fatti’. Dunque, proprio una faccenda ‘formativa’ – e per forza di cose a scala ‘popolare’, visto che alla fine si tratta di competenze rilevanti ai fini delle scelte collettive.
L’idea di un Reddito di Base (disegnato come si deve) partecipa fino in fondo di questo giro di problemi. Prevede flussi che in buona parte discendono dalla powerfull effectiveness della scienza-tecnica, ma al tempo stesso determina condizioni nelle quali le energie liberate da quest’ultima possono servire a prendere le misure dei problemi che essa stessa crea. Così, in estrema sintesi, il Reddito di Base può essere concepito come una delle istituzioni-base (appunto) di una società ‘deliberativa’, nella quale individui meno pressati dai problemi del lavoro, come in effetti possono essere, impiegano i gradi di libertà dei quali vengono a godere al fine di governare meglio la vita della polis – visto che quest’ultima, in verità, ne ha moltissimo bisogno.
Per concludere, resta da ricordare quello che ho detto all’inizio del paragrafo 5: la prospettiva di ‘valorizzare’ il Reddito di Base in chiave formativa non esaurisce affatto il quadro delle possibilità. Discorsi almeno altrettanto impegnativi dovrebbero riguardare le prospettive legate alle attività di cura, alle infinite forme di socialità che stanno tra le relazioni di mondo vitale e la sfera pubblica, al campo delle attività poietico-espressive, al codice del dono, ad altro ancora. E allo stesso modo, anche per evitare che il Reddito di Base si veda caricato di attese spropositatamente alte, devo ribadire che il tutto va concepito in termini di possibilità. In effetti, l’istituto fa proprio quello che suggerisce il nome: fornisce una base, qualcosa come una ‘piattaforma’, insomma una condizione di tipo permissivo. I modi in cui essa sarà sfruttata dipenderanno da altre circostanze e altre condizioni. Ma il darsi della base, pure, è indispensabile. Così, mi sembra, si può formulare una valutazione abbastanza equanime. L’istituto può essere riferito a sviluppi intimamente legati alla maturità dei tempi in cui viviamo, degni di essere tenuti nella più alta considerazione – ma soltanto al modo di una premessa (comunque necessaria) del loro avveramento. Oppure al contrario, s’intende: costituisce soltanto una premessa (comunque necessaria), ma di sviluppi degni di essere tenuti nella più alta considerazione.
Note:
[1] BIN – Basic Income Network Italia, Dialoghi sul reddito di base con un’intelligenza artificiale, a cura di G. Allegri, G. Bronzini, A. Fumagalli, G. – S. Gobetti, R. Serino, “Quaderni per il Reddito n°12”, febbraio 2023.
[2] Alla campagna Ci vuole un reddito partecipano circa 130 realtà associative, tra le quali sia il Bin che il CRS. La campagna di mobilitazione si è svolta dal 1 al 6 maggio, con numerose iniziative in ogni parte d’Italia, in vista della manifestazione nazionale convocata a Roma per il 27 maggio prossimo.
[3] A riprova di questo punto si può osservare che soltanto la prospettiva di un Reddito di Base degno di questo nome è (sarebbe) in grado di colmare la frattura Nord/Sud che non ha mancato di manifestarsi anche in occasione della lotta contro i provvedimenti del governo.
[4] Devo però precisare che lo schema non è completo. Mentre ‘a monte’ non mi sembra che vi siano altri argomenti da prendere in considerazione, i risultati ‘a valle’ sono certamente più numerosi di quelli indicati al livello (d), che prenderò in considerazione nel seguito del testo. E proprio questa è la ragione della limitazione: lo schema comprende soltanto i risultati attesi dei quali intendo occuparmi in questo contributo.
[5] Grazie all’osservazione che l’idea di una Reddito di base si presta a essere presa in considerazione tanto in termini eziologici quanto in chiave teleologica.
[6] E. Fouksman, UBI is stuck in a policy trap – here’s how to reframe the debate, 11 Oct 2021, sito UNESCO. [Molti dibattiti intorno al RB sono incentrati sulla questione se esso sia il modo migliore di riformare il welfare, di ridurre la povertà o mitigare la disoccupazione tecnologica.]
[7] [Anche se i robot non ci estromettessero dalla produzione e la povertà non fosse più un problema, dovremmo comunque domandare un livello di benessere materiale universale, garantito, non condizionato – sul fondamento che si tratta dell’eredità condivisa di una ricchezza collettiva, sia questa formata dai commons di tipo naturale o dalla ricchezza creata dalle generazioni passate, attualmente catturata dai pochi fortunati che l’hanno ereditata o sono riusciti a capitalizzarla. Possiamo chiamare questa quota della ricchezza collettiva un dividendo nazionale, sociale, o un dividendo dei commons.] Un’argomentazione pressocché identica si trova in G. Standing, Basic Income: And How We Can Make It Happen, Penguin Books, 2017: “Sfortunatamente, gran parte del dibattito pubblico sul reddito di base ha teso a interpretarlo come una forma di protezione sociale alternativa alle politiche esistenti, e così gran parte della discussione ha riguardato i cosiddetti aspetti ‘conseguenziali’, come i presunti effetti sul lavoro e sull’occupazione. La giustificazione autentica sta altrove, a partire dalla giustizia sociale”.
[8] P. Van Parijs e Y. Vanderborght, Il reddito di base. Una proposta radicale, Bologna, Il Mulino., 2017, p. 173.
[9] Appena più in particolare, gli studi disponibili sono concordi nell’osservare che il quadro delle motivazioni individuali è uscito rafforzato dal ‘margine di manovra’ offerto dai trasferimenti, grazie al quale, a quanto pare, i destinatari hanno acquistato maggiore fiducia nelle proprie possibilità, forse per via di un effetto di ‘riconoscimento’.
[10] Naturalmente il termine ‘lavoro’ può essere usato in altri modi (basti pensare al lavoro domestico prestato sulla base delle relazioni familiari). Nondimeno, la fattispecie del lavoro remunerato, di tipo professionale, è abbastanza importante per essere messa a tema in modo autonomo, così che si possa porre la questione del peso che può/deve avere nel quadro della vita sociale presa nel suo complesso (e nelle vite individuali). È importante che la portata di questa domanda e la formulazione di una risposta chiara e distinta non siano annebbiate da usi generici del termine.
[11] Keynes, fautore di una drammatica riduzione dell’orario di lavoro non meno di Marx, non si nascondeva tuttavia che “non esiste paese o popolo […] che possa guardare senza terrore all’era del tempo libero”. Era anche convinto prima o poi gli uomini e le donne avrebbero appreso a fare un buon uso di quest’ultimo; e anche io lo sono. Ma resta vero che la questione è tutt’altro che banale, e tanto meno può essere risolta con generici appelli alla “creatività”.
[12] Si pensi per esempio alla “corrosione del carattere” che Richard Sennett collega alla trasformazione delle imprese in “fasci di contratti” a breve termine, sempre reversibili, controllati a distanza, ecc.
[13] Per una prima presa di contatto con la letteratura in materia, cfr. M. Tognini, Dalla carta agli schermi. Mappatura di alcuni nodi problematici del dibattito sulla lettura, Umanistica Digitale, n. 14, 2022, DOI: http://doi.org/10.6092/issn.2532-8816/15563.
[14] Come suona il titolo (tratto da Montaigne) di un importante libro di Edgar Morin.
[15] La ragione è la stessa per la quale nessuno che voglia nutrirsi (o riposarsi) può delegare a un altro il compito di mangiare (o dormire) al posto suo. Sulle possibilità di delega, ovvero di reciproca sostituzione, che in casi del genere incontrano limiti invalicabili, riposa l’intero sistema della divisione professionale del lavoro.
[16] S. Funtowicz, J. Ravetz, Post-Normal Science: How Does It Resonate With the World of Today?
http://dx.doi.org/10.1016/b978-0-12-822596-7.00002-4.
[17] Ian Hogarth, We must slow down the race to God-like AI, Financial Times Magazine Artificial intelligence, 13 aprile 2023. [Nel 1945, le forze armate statunitensi realizzarono il Trinity test, la prima detonazione di un’arma nucleare. In precedenza, era stata sollevata la question se la bomba avrebbe potuto incendiare l’atmosfera terrestre ed estinguere la vita. La fisica nucleare era già sufficientemente sviluppata affinché Emil J Konopiski e altri del Progetto Manhattan fossero in grado di mostrare che era di fatto impossibile che l’atmosfera prendesse fuoco nel modo in questione. Ma i larghissimi modelli di linguaggio dei nostri giorni sono largamente in una fase pre-scientifica. Non comprendiamo pienamente come lavorano e non possiamo dimostra in anticipo i risultati più probabili.] Chi scrive è un investitore in start up del settore e uno dei due autori dell’autorevole rapporto annuale State of IA.
[18] Ibidem. [Quando scriviamo un software tradizionale, comprendiamo in modo espliciti come e perché gli input si collegano agli output. Questi grandi sistemi di Intelligenza Artificiale sono diversi. In effetti non li programmiamo – li facciamo crescere. E nella misura in cui crescono, le loro capacità compiono salti bruschi. Aggiungi 10 volte più dati o capacità di calcolo, e improvvisamente il sistema si comporta in modo assai diverso.]
[19] Qui non mi riferisco alla già citata questione della fornitura di dati non pagati, bensì al fatto stesso che il fatto stesso del consumo aumenta il valore patrimoniale di molte delle risorse digitali (come in genere accade nel caso degli standard).
*Questo testo è stato realizzato da Alessandro Montebugnoli per la sua relazione in occasione della presentazione del 12° numero dei Quaderni per il reddito dal titolo: “Dialoghi sul reddito di base con un’intelligenza artificiale” (A cura del BIN Italia), che si è tenuto a Roma mercoledì 3 maggio 2023 , presso la Fondazione Basso, organizzata da BIN Italia, CRS e Fondazione Basso. Qui la news dell’incontro.