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Il reddito di cittadinanza per una nuova politica delle arti

di Gianmarco Mecozzi, Luca Santini

Occorre oggi mettere a nudo non tanto, come avveniva in densi dibattiti del passato, il ruolo sociale dell’artista e del produttore di cultura, quanto piuttosto il suo essere sociale puro e semplice, nella sua materialità di lavoratore intermittente, diviso tra la necessità di dare espressione all’energia creativa e il contatto deprimente con un mondo del lavoro che allontana da sé anche soltanto la speranza di un futuro dignitoso. In una società nella quale gli eventi spettacolari, mirati alla creazione di consenso sociale su vasta scala, e gli interventi artistici, prioritariamente dedicati alla ricerca dei linguaggi, si susseguono senza soluzione di continuità, avere la forza e la possibilità di immettere, in questo campo di battaglia così essenziale, i germi fecondi del discorso sul reddito di cittadinanza è una grande opportunità.

Il ruolo dell’artista nella società contemporanea è stato oggetto di dibattiti accaniti e numerose interpretazioni. Dal vate di dannunziana memoria, al grido dada “la poesia è di tutti” fino all’artista organico, le mille sfaccettature di un mestiere misterioso, lungo tutto il corso del secolo passato, hanno avuto modo di essere concepite e inventate, analizzate e vagliate, abbattute con ferocia o sposate con passione.

Oggi, un po’ in polemica con vecchi schemi e con concetti ormai inutilizzabili, un po’ in risposta alle sfide di una crisi sociale di ampie proporzioni, sembra diffondersi sempre più la consapevolezza della collocazione sociale dell’artista, come produttore ormai compiutamente precarizzato, al pari di larga parte della forza lavoro contemporanea. Le prime avvisaglie di questa nuova presa di coscienza si possono forse intravedere già nel capolavoro di Luciano Bianciardi, La vita agra, Bompiani 2001 [1962], romanzo che ha per protagonista un giornalista in erba, traduttore spiantato, collaboratore editoriale a progetto, perso nel labirinto dei contratti a termine, delle spese a fine mese, della “vita messa al lavoro”. Più vicino a noi si ricorda Cordiali saluti di Andrea Bajani (Einaudi 2005), in cui l’Io narrante è uno scrittore sui generis, impiegato da un’azienda imprecisata, che ne sfrutta le doti letterarie per fargli scrivere lettere di licenziamento che sappiano abilmente nascondere la brutalità a volte un po’ violenta del congedo, che sappiano colpire al cuore i malcapitati dipendenti. Oppure ancora si può citare di Francesco Dezio Nicola Rubino è entrato in fabbrica (Feltrinelli 2004), racconto autobiografico, dai tratti visionari e quasi alla Paolo Volponi, di un’esperienza di formazione-lavoro in una grande fabbrica di motori per automobili.

Questa letteratura contemporanea di successo e di valore ha il pregio di mettere a nudo, talvolta in modo impietoso, non tanto, come avveniva in densi dibattiti del passato, il ruolo sociale dell’artista e del produttore di cultura, quanto piuttosto il suo essere sociale puro e semplice, nella sua materialità di lavoratore intermittente, diviso tra la necessità di dare espressione all’energia creativa e il contatto deprimente con un mondo del lavoro che non lascia quasi più a nessuno neppure la speranza di un futuro dignitoso.

Anche se la precarietà è senza dubbio un dato strutturale e probabilmente non più eliminabile nelle nostre economie, e anche se essa riguarda da vicino gran parte del mondo produttivo postfordista, si possono comunque osservare delle specificità per quanto riguarda il lavoro precario svolto del settore delle arti e, in particolare, in quello dello spettacolo. I lavoratori dello spettacolo, infatti, rispetto a tutto il resto della popolazione lavoratrice, presentano degli elementi caratteristici. Il principale consiste della dissociazione tra prestazione lavorativa in senso formale e in senso sostanziale: la prestazione intesa in senso formale (oggetto di remunerazione) si attiva soltanto quando un committente chiede la realizzazione di un prodotto specifico (esecuzione di uno spettacolo, di una collaborazione, di uno scritto), mentre in realtà l’attività in senso sostanziale intesa come ricerca, impegno, approfondimento, studio viene esercitata continuamente, ben oltre i limiti contrattuali della prestazione lavorativa formale. Per questa fondamentale ragione il lavoro nelle arti e nello spettacolo sfugge agli schemi del rapporto salariale, e in particolare al suo elemento primo e fondativo, quello della retribuzione commisurata all’orario di lavoro. Infatti, la formale attivazione della prestazione lavorativa -quando, ad esempio, viene preparato materialmente uno spettacolo- costituisce una voce infinitesima del tempo effettivamente impiegato nel concepimento e nella realizzazione dell’opera artistica. Le ore di studio, aggiornamento, ideazione, benché formalmente estranee alla prestazione lavorativa remunerata, sono in realtà componente vitale e indispensabile per il raggiungimento del risultato finale. Può ben dirsi, quindi, ininfluente per il lavoratore dello spettacolo la distinzione tradizionale tra sfera lavorativa retribuita e sfera extralavorativa o del tempo libero. L’intero tempo di vita è indistintamente coinvolto nella produzione artistica, anche se poi gli schemi angusti della società salariata operano artatamente una distinzione tra un tempo di formale attivazione della prestazione lavorativa, che viene remunerato, e un tempo invece di formale inattività e di “attesa”, durante il quale non si viene retribuiti.

Questa situazione, che potremmo definire di autonomizzazione dei produttori dalla società salariale, che forse non è una vera novità per il ruolo d’artista, poiché gli è almeno in parte intrinseca, tende oggi a farsi egemone e a riguardare strati crescenti del precariato contemporaneo. Invero la precarizzazione dei rapporti sociali coinvolge ormai tutti gli strati sociali più dinamici; inoltre l’immissione nella sfera produttiva di competenze extralavorative, di qualità e saperi acquisiti nella vita quotidiana o comunque appresi nei circuiti formativi non certificati, sono frontiere ben più che esplorate dall’accumulazione capitalistica contemporanea. Il contenuto della prestazione lavorativa (non soltanto per gli artisti) tende ad arricchirsi, a farsi complesso, talvolta indeterminato, fino a sconfinare in una generica disposizione a risolvere creativamente problemi e a fronteggiare situazioni impreviste. Il prodotto del lavoro, in modo non dissimile dalla creazione d’arte, risulta talvolta dall’interazione non prevedibile in anticipo tra il soggetto e l’ambiente circostante (per una lettura suggestiva dell’economia postfordista e dei suoi portati sulla soggettività dei lavoratori si veda Andrea Tiddi, Precari, Deriveapprodi 2002, ora interamente scaribile sul sito www.bin-italia.org). L’eccezionalità dell’artista, insomma, non trova più fondamenti sociologici. Ed è proprio per questo forse che la nuova letteratura post-industriale, cui sopra si è fatto cenno, scopre con tanta lucidità la non separatezza dell’intellettuale e dell’artista dal resto del corpo sociale.

Questa nuova situazione delle arti e dei suoi produttori potrebbe trovare un momento di sintesi a partire dal concetto di reddito universale di cittadinanza.

Il reddito di cittadinanza (detto anche reddito di base o basic income) rappresenta un tentativo di abolire (o di allentare) il legame che esiste tra il reddito e il lavoro salariato. Il reddito di cittadinanza, per essere compiutamente tale, e dunque per distinguersi dalle varie forme di sussidi e dalle misure di tipo assistenzialistico oggi esistenti, deve essere universale e incondizionato. L’universalità si traduce nel fatto che l’erogazione viene destinata a tutti i soggetti che compongono la comunità politica, senza distinzioni di sesso, di status giudico, di condizioni personali; unica eccezione alla regola dell’universalità può essere prevista in ragione dell’età del beneficiario, per cui potrebbe legittimamente prevedersi che l’accesso all’erogazione venga limitato ai soli maggiorenni. Il requisito dell’incondizionatezza impone invece che non siano previste cause di decadenza dal beneficio. Nessun obbligo può quindi essere posto in capo al beneficiario, sotto la condizione della revoca del basic income.

Nella forma ideale il reddito di cittadinanza dovrà consistere in una somma bastante per condurre una vita dignitosa, versata regolarmente dallo stato o da un diverso ente pubblico al singolo individuo, indipendente dal possesso o meno di altri redditi da lavoro, da capitale o da pensione, il reddito di cittadinanza verrebbe erogato a tutti i residenti, come una sorta di dotazione inalienabile, un quantum di ricchezza che spetta agli individui in quanto tali. Scopo fondamentale ed effetto auspicato di una simile misura sarebbe la difesa a oltranza della dignità umana, dato che i singoli individui sarebbero maggiormente liberi di accettare o meno di volta in volta le proposte di impiego, e sarebbero in generale maggiormente capaci di determinare autonomamente i propri percorsi esistenziali.

Molti dei maggiori studiosi contemporanei della società e del lavoro, da Alain Supiot a Ulrich Beck, da André Gorz a Ralf Dahrendorf, si sono confrontati con questo tema e hanno auspicato a vario titolo l’introduzione di una qualche forma universalistica di sostegno dell’individuo. Gruppi di precari, collettivi studenteschi, forze politiche progressiste hanno sposato e fatto propria questa proposta, facendola oggetto di battaglie, rivendicazioni, momenti di discussione pubblica. I fautori del reddito di cittadinanza suppongono che dall’introduzione di una simile misura deriverebbero consistenti benefici a livello sociale, dallo sviluppo di attività di volontariato e di servizio pubblico, a una maggiore partecipazione democratica, fino a un sostanziale riequilibrio nei rapporti tra i sessi.

Per quanto riguarda il mondo delle arti una misura di compiuta garanzia del reddito potrebbe avere un significato particolare. Nonostante, infatti, l’intermittenza sia insita nel mondo nello spettacolo, contraddistinto in prevalenza da rapporti di impiego a tempo determinato, i lavoratori dello spettacolo, nel periodo di inattività tra un contratto e un altro, non godono normalmente di benefici specifici rispetto ai lavoratori di altri settori. Il sussidio di disoccupazione, ad esempio, assai di rado può essere goduto dai lavoratori delle arti, poiché presuppone per definizione la stipula di un contratto di lavoro subordinato, il solo per il quale è previsto l’obbligo da parte del  datore di lavoro di versare una quota per l’assicurazione contro la disoccupazione. Come è noto, però, il lavoratore dello spettacolo e soprattutto l’artista, pur svolgendo di fatto un lavoro caratterizzato da effettiva subordinazione, viene di regola impiegato come libero professionista o come collaboratore a progetto. Inoltre secondo la normativa vigente (art. 40, punto 5, R.D.L. 4.10.1935, n. 1827) i lavoratori dello spettacolo, anche se dipendenti, sono esclusi dall’obbligo assicurativo contro la disoccupazione, tranne che nei rari casi in cui non gli sia richiesta una specifica preparazione tecnica, culturale ed artistica.

Pertanto le tutele previste per gli operatori nei settori dello spettacolo sono ancora più inefficienti e inique di quelle previste per tutti gli altri protagonisti del vasto mondo della precarietà, e ciò in contrasto con quanto avviene in molti contesti nazionali europei, che prevedono semmai delle forme di garanzia rafforzate proprio in favore di soggetti intrinsecamente esposti al rischio dell’assenza temporanea o prolungata di reddito. In Olanda, ad esempio, esiste un programma welfaristico  denominato Wik, in virtù degli quale  vengono erogati 500 euro agli artisti per “permettere loro di avere tempo di fare arte”. La Francia accorda invece una tutela particolare ai tecnici e agli artisti dello spettacolo dal vivo (teatro, danza, circo, arti di strada) e dell’audiovisivo (cinema, radio, televisione), grazie al quale circa il 70% dei tecnici e degli artisti iscritti a questo speciale regime di previdenza riesce a vivere lavorando soltanto 4 mesi all’anno. Nulla di tutto questo esiste, invece, in Italia.

Questa situazione carente sul piano delle tutele sociali si riflette in una condizione di sudditanza tutta ai danni dei lavoratori dello spettacolo e degli artisti. Ogni artista dipende infatti direttamente da un padrone. L’artista visivo si dibatte, con molta fatica e altrettanto lucro, tra compratori e collezionisti di varia estrazione (banche, collezionisti eccetera). Il teatrante (e la questione Fus l’ha colpito in pieno) senza i finanziamenti dello stato, della regione, della provincia, del comune, non può muovere un dito. E quando lo stato, la regione, la provincia, il comune, non elargiscono fondi: il teatrante non può lavorare. La dipendenza della produzione cinematografica dai grandi capitali, o, se parliamo di produzioni indipendenti, la dipendenza da una rete di distribuzione degna di questo nome, è nota ed evidente a tutti. Taciamo delle tristi sorti del poeta. Il lavoro delle arti è sprofondato nell’assistenzialismo.

Il reddito di cittadinanza può mutare questa situazione. Assumendo ipoteticamente come dato l’affidamento di un reddito di cittadinanza universale slegato da ogni prestazione lavorativa viene gioco facile immaginarsi, per i lavori delle arti, un futuro ricco di imprevedibili possibilità. Il lavoro dell’artista ne sarebbe drasticamente trasformato e probabilmente le attività artistiche avrebbero un’azione molto più estesa. Il ruolo dell’artista, le sue possibilità di espressione e la forma stessa del suo lavoro, potrebbero subire trasformazioni significative e strutturali.

Oggi che il tempo del capitale ha oltrepassato i confini della fabbrica e ha invaso ogni interstizio sociale, ora che il tempo precario e flessibile è diventato il tempo dominante, possiamo forse comprendere meglio la situazione apparentemente misteriosa dell’artista. Oggi che il lavoro immateriale è diventato maggioritario e che il lavoro di relazione e di creazione è al centro della produzione, la condizione lavorativa del teatrante, e con essa le trasformazioni del mondo dello spettacolo, appaiono meno eccezionali e marginali rispetto al resto del mondo del lavoro.

In una società nella quale gli eventi spettacolari, mirati alla creazione di consenso sociale su vasta scala, e gli interventi artistici, prioritariamente dedicati alla ricerca dei linguaggi, si susseguono senza soluzione di continuità, avere la forza e la possibilità di immettere, in questo campo di battaglia così essenziale, i germi fecondi del discorso sul reddito di cittadinanza è una grande opportunità. É una opportunità certamente per chi fa del basic income il suo obiettivo primario. Ma è una grande opportunità anche per chi, artisti e lavoratori del mondo dello spettacolo, opera oggi in Italia in un mercato lavorativo nell’occhio del ciclone e che sarebbe interessante e importante che entrasse più strettamente in relazione con il resto del mondo del lavoro.

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