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Il reddito è di base, un manifesto spiega perché

di Roberto Ciccarelli

Quasi sei milioni di poveri, di cui più di due in grave deprivazione materiale. Otto milioni e mezzo di persone che non riescono ad arrivare alla fine del mese, almeno tre milioni di lavoratori poveri, molti faticano a pagarsi la casa. Pochissime certezze per il futuro al quale si è stati preparati negli ultimi trent’anni. Non solo si accettano salari da fame, ma quanti di noi hanno detto – o hanno ascoltato – la fatale espressione: “La pensione? Io non ce l’avrò mai”. Domanda: e come pensi di sopravvivere quando avrai settanta, ottant’anni? Non solo ci si è abituati alla miseria nel presente, ma si accetta la deprivazione quando non si sarà in grado di alzare la voce.

Nella disperazione di questo presentismo senza redenzione il “manifesto per un reddito di base incondizionato” presentato ieri alla Camera dei deputati dall’associazione RED (Reddito, Europa, Diritti) potrebbe risultare un umanesimo fuori dal tempo, in un tempo abituato al cinismo, all’opportunismo e all’indifferenza. Scorrendo il testo ci si accorge che, invece, la proposta definita “fortemente progressista” che “rimette al centro la persona” interpreta l’elemento utopico che è stato rimosso non solo dai discorsi “politici” che predicano il realismo capitalista, ma proprio dall’immaginario di un epoca che affoga nelle immagini. Un’utopia reale, concreta, programmatica.

Il reddito di base senza condizioni (cioè senza contropartite) è la misura chiave di una riforma complessiva di uno Stato sociale a pezzi come quello italiano. Solidamente inserito in una prospettiva europea, prospetta una trasformazione complessiva, a livello nazionale e sovranazionale, dei sistemi fiscali, di quello previdenziale, della scuola o della sanità. Sono aspetti sul quale il testo si dilunga, a dimostrazione che l’introduzione di una misura come il reddito di base è una politica sociale fondamentale che non può che essere accompagnata da una trasformazione complessiva del sistema sociale in cui sarebbe inserita.

Così contestualizzato il reddito di base è “un’erogazione mensile di una somma in moneta”, come riconoscimento della partecipazione a una “comunità politica”, indipendentemente dall’appartenenza nazionale e dei gruppi professionali o ruoli di provenienza. Tale erogazione deve essere sostenibile e finanziata dalla fiscalità generale, senza comportare ulteriore debito pubblico, né conseguenze economiche svantaggiose come invece è stato sia la truffa semantica del “reddito di cittadinanza” che l’attuale “assegno di inclusione” che, in realtà, sono forme di Workfare. Un altro modo per finanziare il “reddito di base” potrebbe essere quello di stralciare l’otto per mille da devolvere agli enti religiosi, il cinque per mille delle associazioni e il due per mille destinato alle forze politiche. 

Al contrario il “reddito di base” non è concepito all’interno delle “politiche di inclusione al lavoro”, non è una “misura assistenziale”, ma “distributiva”. In sé, sostengono gli estensori del suo “manifesto”, accumula diverse funzioni oggi separate: il sussidio di uscita dalla povertà e quello per l’accesso alla formazione; il sussidio di disoccupazione che però dovrebbe essere cumulabile con il lavoro precario, cosa oggi accuratamente evitata, anzi scandalosa.

Pertanto andrà inizialmente destinata a una platea più circoscritta, a partire dai più disagiati, con un piano pluriennale che estenda la platea dei destinatari con criteri di progressività, secondo le coperture finanziarie disponibili, fino al ceto medio e in ultimo ai ceti abbienti. Tale misura è da considerarsi meramente distributiva, non assistenziale, dunque non deve avere nulla a che vedere con le politiche di inclusione al lavoro. L’unificazione di diverse misure oggi segmentate per categorie e soggetti porterebbe inoltre a usare il “reddito di base” come sussidio maternità e paternità; sostegno alle donne che hanno subito violenza; compenso remunerativo di attività non riducibili al mercato del lavoro; facilitazione o integrazione alla compensazione per i danni da fattori inquinanti; tutela alla libertà di informazione e di espressione. E ancora come integrazione del potere d’acquisto mangiato dall’inflazione e addirittura come “istituto sostitutivo del sistema pensionistico contributivo”. Sarebbe l’Inps a diventare l’”unico ente erogatore e chiamato a individuare i soggetti da raggiungere con priorità”.

Questo “accredito mensile, vita natural durante”, “cumulabile con il reddito da lavoro e la rendita di piccola entità” andrebbe finanziato non con le imposte sui redditi, che devono rimanere la fonte di finanziamento dei servizi pubblici, ma con la tassazione dei patrimoni finanziari, con la creazione di un sistema organico di tassazione delle multinazionali digitali a livello nazionale e sovranazionale.

Così inteso, proseguono i promotori della campagna, il reddito di base potrebbe essere introdotto in più tappe, a partire dai senza dimora: mille euro al mese per un anno, 500 a seguire. Tutto questo all’interno di un ripensamento dei servizi sociali, del reale accesso al diritto alla casa. Si potrebbe sperimentare una misura esemplare a Roma, in vista del prossimo Giubileo. Si potrebbe proseguire con i giovani dai 12 ai 24 anni appartenenti a famiglie svantaggiate, per combattere sollecitamente la dispersione scolastica: 500 euro al mese.

Successivamente si potrebbe estendere l’accredito alle donne in difficoltà, per sostenere le più vulnerabili e soggette a violenza di ogni tipo (fisica, psicologica o economica) e attuare il diritto alla genitorialità, per poi essere esteso gradualmente, di anno in anno, a fasce di popolazione sempre più ampie, fino a includere, come minimo, tutto il ceto medio, tutti coloro che negli ultimi trent’anni hanno perso potere d’acquisto. l’ambiziosa proposta mira a coprire progressivamente tutta la platea di 5,6 milioni in povertà assoluta e 9 milioni in povertà relativa. Per i ceti medi prima e i più benestanti la misura potrebbe tradursi in uno sgravio fiscale e semplificazione tributaria per mezzo delle trattenute Un altro modo di praticare il taglio del cuneo fiscale, oggi concepito per il lavoro dipendente povero, dal quale sono esclusi proprio i più poveri.

Al termine della lettura di un documento pieno di positività e di proposte intelligenti ci si chiede se sia sufficiente un appello “ai parlamentari” o a un “governo” che a tutto pensa tranne che a smontare la costruzione principale di una società capitalistica per di più feroce come questa. Anche se il lavoro è sempre peggiore, e pagato una miseria, costituisce la norma fondamentale che legittima una vita infernale e senza speranze. Comunque sia, le proposte vanno coltivate, bisogna diffonderle, senza fermarsi davanti a quello sguardo vuoto che accoglie chi coltiva l’immaginazione concreta del futuro.

Interessante l’iniziativa che è stata annunciata ieri: la costituzione di un movimento europeo dei sindaci per il reddito di base sulla scorta di quello già esistente negli Stati Uniti. In quest’ultimo paese sono stati numerosi gli esperimenti, su base municipale, di reddito di base. Dalle testimonianze, e dalle ricerche raccolte dal Basic Income Network – Italia è emersa una realtà completamente diversa da quella propagandata dai sostenitori della schiavitù del lavoro precario senza tutele e garanzie. Il reddito di base non solo non scoraggia dal lavoro, ma permette di rifiutare i ricatti del lavoro povero ad ogni costo. Produce un relativo benessere nella famiglia, integra i poveri redditi dentro una concezione della vita dignitosa.

Anche per queste ragioni il livello del conflitto negli Stati Uniti è aumentato. Lo stato dell’Iowa ha promulgato una legge che vieta ai governi locali di adottare programmi di reddito di base. Sviluppi simili ci sono stati in Arkansas, Idaho e South Dakota. In Texas, dopo che i legislatori non sono riusciti a far adottare una propria legge, il procuratore generale dello stato ha impedito alla contea di Harris di sperimentare il reddito di base che era stato autorizzato.

Negli Stati Uniti una coalizione nazionale dei sindaci partecipa a un movimento più ampio che chiede l’introduzione del reddito di base a livello federale. Il problema è chiaro: l’ostilità che produce il reddito di base è dovuta al fatto che permette di lavorare a una condizione di autonomia dal mercato. Non è l’unico strumento, evidentemente, ma può essere inteso come una leva per respingere le minacce, la deprivazione non solo economica ma sociale e culturale.

Tratto da Il Manifesto edizione 21 settembre 2024

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