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Il reddito garantito tra lavoro e non lavoro

di Riccardo Faranda

Risultava intollerabile, per i teorici della “civiltà del lavoro”, l’idea di reddito sganciata da quella di salario, l’idea cioè che il reddito appartenesse non alla sfera del lavoro produttivo, ma a quella dei diritti dell’individuo in quanto tale, indipendentemente dalla condizione di lavoratore attivo, occupato o disoccupato, o comunque dalla sua disponibilità al lavoro. Tale giudizio in larga parte etico è frutto di una impostazione culturale, centrata sul rapporto inscindibile salario/reddito, ancora (largamente) presente nella società, e ben radicata in ampi settori delle forze politiche di destra ma anche del centro-sinistra, che però oggi deve fare i conti con le trasformazioni profonde che il tessuto produttivo ed il mercato del lavoro hanno subito negli ultimi quindici anni, trasformazioni portate drammaticamente alla luce dalla crisi in atto.

 

La profonda crisi che il nostro paese sta attraversando, nel momento in cui vede aggravarsi pesantemente le condizioni di lavoro e di vita di gran parte della popolazione, mette a nudo le contraddizioni reali del tessuto sociale e dell’organizzazione produttiva, e sgombra (finalmente!) il campo dalle sterili e false contrapposizioni che in questi anni si sono di volta in volta costruite, spesso ad arte: tra padri e figli, lavoratori anziani e giovani in cerca di primo lavoro, tra stabili e precari, lavoratori garantiti e non garantiti (il libro bianco del novembre 2001 dell’allora ministro del lavoro Maroni, da cui la legge 30/2003 e il successivo dlgs 276/2003 sulla riforma del mercato del lavoro), tra cittadini e immigrati ecc., con l’effetto perverso di determinare solo conflitti “orizzontali”, spesso tra i segmenti più emarginati della società.

Una di queste contrapposizioni, quella tra i lavoratori produttivi e coloro (per lo più giovani) che rifiutavano il lavoro, metteva al  centro della discussione la tematica del reddito garantito, o reddito di cittadinanza o di esistenza. Da una parte la figura di lavoratore tradizionale, a tempo pieno e indeterminato, dall’altra il “surfista di Malibù”, che trascorreva le sue giornate sulla spiaggia della California, aspettando che la comunità gli passasse quanto gli era necessario per vivere.

Risultava intollerabile, per i teorici della “civiltà del lavoro”, l’idea di reddito sganciata da quella di salario, l’idea cioè che il reddito appartenesse non alla sfera del lavoro produttivo, ma a quella dei diritti dell’individuo in quanto tale, indipendentemente dalla condizione di lavoratore attivo, occupato o disoccupato, o comunque dalla sua disponibilità al lavoro.

Tale giudizio in larga parte etico è frutto di una impostazione culturale, centrata sul rapporto inscindibile salario/reddito, ancora (largamente) presente nella società, e ben radicata in ampi settori delle forze politiche di destra ma anche del centro-sinistra, che però oggi deve fare i conti con le trasformazioni profonde che il tessuto produttivo ed il mercato del lavoro hanno subito negli ultimi quindici anni, trasformazioni portate drammaticamente alla luce dalla crisi in atto.

Per un verso il processo di finanziarizzazione dell’economia, spinto all’esasperazione negli ultimi anni, fino a diventare uno dei fattori scatenanti della crisi, ha fortemente messo in discussione lo schema classico di estrazione del profitto e di accumulazione capitalistica incentrato sulla produzione di tipo tradizionale.

Per altro verso proprio sul fronte dell’organizzazione della produzione è aumentato in maniera esponenziale il peso del lavoro c.d. “immateriale”, fino a far dire ad alcuni che il post-fordismo assumerebbe i caratteri del “capitalismo cognitivo”: indipendentemente dalle aggettivazioni, ciò che è sicuro è che lo sgretolamento, più o meno lento ma comunque inesorabile, del sistema produttivo fordista ha  investito in primo luogo le nuove generazioni, ponendo tra le altre cose come centrale l’aspetto della formazione continua come elemento decisivo per la valorizzazione del lavoro.

Il mercato del lavoro si è adattato ai nuovi modelli produttivi, richiedendo profonde innovazioni legislative in tutti i paesi di capitalismo avanzato, e ancora di più in quelli, come l’Italia, in cui il sistema di garanzie del lavoro a partire dal posto di lavoro era ed è particolarmente forte, determinando un sistema di welfare modellato per massima parte sulla centralità del lavoro stabile, per chi ce l’ha e per chi lo perde.

Tuttora nel nostro paese, mentre il mercato del lavoro ha subito profonde trasformazioni, con l’introduzione di forti elementi di flessibilità in entrata e in uscita, il sistema degli ammortizzatori sociali, conservativi e non, è ancora in larga prevalenza improntato sul mantenimento o sulla perdita del posto di lavoro, e per di più solo di alcune realtà produttive, le maggiori. Ed anche gli ammortizzatori in deroga allargano la platea ma non invertono la filosofia di partenza: e del resto nemmeno potrebbero.

Eppure oggi la realtà lavorativa di fette sempre crescenti di lavoratrici e lavoratori è lontana anni luce dal “posto fisso”, sia con riferimento ai nuovi lavori che ai lavori tradizionali svolti però con regole del tutto nuove, cioè con l’utilizzo di tipologie contrattuali flessibili.

Oggi, e non da oggi ma da diversi anni, tutti gli studi statistici ci dicono che se ancora in Italia lo “zoccolo duro” è rappresentato dal lavoro “standard” (a tempo pieno e indeterminato) – 18 milioni a fronte di 5 milioni e mezzo di part-time ed atipici – il lavoro atipico rappresenta di gran lunga la principale modalità di ingresso dei giovani nel mercato del lavoro. “Ciononostante, quasi la metà dei lavoratori atipici possiede una esperienza lavorativa almeno decennale” (rapporto ISTAT sul 2008). E cresce sempre più il numero degli adulti utilizzati con tipologie di lavoro atipico, mentre si dilatano i tempi di superamento di questa situazione di precarietà lavorativa.

Ne consegue che, saltato il paradigma secondo il quale il lavoro sarebbe il regolatore delle relazioni sociali in una società rigidamente compartimentata, nelle categorie dei soggetti e nei tempi di vita, non può non comprendersi come lavoro e non lavoro rappresentino oggi entrambi aspetti indistinti e indistinguibili della condizione di vita di ogni soggetto, così come la formazione diventa elemento decisivo per la messa a valore del fattore lavoro, condizione essenziale della “occupabilità”, concetto che ormai sembra aver soppiantato quello di occupazione.

E’ chiaro peraltro che la crisi, come era inevitabile, ha colpito in primo luogo e massicciamente proprio i lavoratori precari, privi di garanzie sul posto di lavoro, e paradossalmente privi anche di garanzie di reddito una volta che il lavoro l’hanno perso, per precario che fosse.

Solo nel Lazio, tra il terzo trimestre 2008 e il terzo 2009, si sono persi 21.000 posti di lavoro a tempo determinato e a progetto (ISTAT).

La crisi insomma non solo mette a nudo i limiti dell’utopia della piena occupazione, ma accende i riflettori sulla qualità dell’occupazione, sul significato del lavoro nel terzo millennio e, perché no?, utopia contro utopia, della sua liberazione.

Tutto ciò pone con urgenza non più procrastinabile all’ordine del giorno il tema della ridefinizione di un sistema di welfare non più basato sull’equazione salario/reddito, ma sul riconoscimento di ciò che ormai da più parti è stato affermato (dalla Dichiarazione di Monterrey alla Carta di Nizza): il diritto al reddito deve essere considerato come diritto proprio di ogni cittadino, individuale e per questo universale e incondizionato.

Un effetto di tale riconoscimento, di portata non indifferente anche sul piano della gestione del rapporto di lavoro, effetto che risulterebbe positivo anche ai più tradizionalisti sostenitori della “centralità della contraddizione capitale-lavoro”, sarebbe quello di sottrarre il lavoratore precario al ricatto del “lavoro purchè sia”, accrescendo, attraverso la garanzia del reddito, il suo potere contrattuale nei confronti del datore di lavoro. E gli darebbe così la possibilità di sottrarsi alla condizione di precarietà reddituale aprendolo sotto l’aspetto lavorativo a percorsi di flessibilità agita e non subita.

Un nuovo welfare che affianchi, e non sostituisca, un sistema di politiche sociali inclusive, al sistema dato di regole e di garanzie del lavoratore all’interno del rapporto, nella più giusta interpretazione delle politiche di flexicurity di cui la maggior parte dei paesi europei si sta dotando ormai da anni.

Che affianchi e non sostituisca, poichè il rischio da evitare è quello di concepire la flexicurity unicamente come  rafforzamento del sistema di garanzie fuori dal rapporto, e di riforma degli ammortizzatori sociali, a fronte dell’abbandono di qualsiasi pretesa di regolamentare con norme cogenti il rapporto e il mercato del lavoro, il che consentirebbe inevitabilmente il definitivo sfondamento sul fronte della precarizzazione, e renderebbe impraticabile qualsiasi ipotesi di flessibilità agita.

Ma questo è un altro capitolo…

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