L’automazione e gli algoritmi elimineranno quasi tutto il lavoro. Quindi per salvare il capitalismo serviranno risposte radicali. La tesi di Martin Ford, guru della Silicon Valley
La domanda che dobbiamo porci, argomenta l’imprenditore e analista della Silicon Valley, è di conseguenza radicale: la nostra era iperconnessa è compatibile con la prosperità economica? La risposta è complessa. E no, non prevede il “digitale” come panacea istantanea di ogni male. Il mondo dipinto da Ford non è quello, spacciato e da rifiutare, tipico di catastrofisti e neoluddisti: è un mondo, tuttavia, fatto di mansioni intellettuali sempre più in competizione con algoritmi, non persone; e in cui le macchine espandono il loro campo di applicazione dai lavori manuali a quelli che coinvolgono processi decisionali via via più complessi, compresa – in nuce – la creatività.
Merito della “programmazione genetica”, in cui sostanzialmente gli algoritmi si scrivono da soli, imparando dai propri errori, sulla base di un processo di selezione darwiniana. Nel frattempo, le sempre maggiori ricchezze accumulate da sempre meno persone – dal 1993 al 2010 metà del reddito nazionale negli Stati Uniti è finito nelle mani dell’1 per cento, più ricco, addirittura il 95 per cento, dal 2009 al 2012 – non basteranno più a sostenere la domanda di beni di consumo. E mentre i neolaureati vedono i loro stipendi assottigliarsi del 15 per cento, in un decennio, nemmeno la tradizionale soluzione dello “studiare di più” è sufficiente a garantirsi un lavoro dignitoso.
È preoccupante notare le affinità con il mondo preconizzato, mezzo secolo fa, nel rapporto dell’Ad Hoc Committee sulla “Tripla rivoluzione”; sinistro accorgersi che, nonostante gli avvertimenti, l’allora ipotetica economia «in cui sarà possibile ottenere una produzione potenzialmente illimitata con sistemi di macchine che richiederanno scarsa cooperazione da parte degli esseri umani» è, grosso modo, la nostra.
E se nel quadro desolante rientra anche la sparizione della classe media teorizzata dal tecnologo Jaron Lanier, Ford ricorda anche come a tutto questo si debba aggiungere l’impatto nocivo sul tasso di innovazione, e sulla sua capacità di incidere davvero in positivo sulle nostre condizioni di vita.
Che fare? Per l’autore rifiutare l’automazione è antistorico, e irrealizzabile se non a patto di una indebita ingerenza statale nell’economia; ma non basterà nemmeno imparare a collaborare con le macchine, rendersi complementi invece che sostituti, come auspicano Erik Brynjolfsson e Andrew MacAfee nel recentemente tradotto “The Second Machine Age” (“La nuova rivoluzione delle macchine”, Feltrinelli).
Prima di tutto perché non è detto che il tandem uomo-macchina sia in grado di produrre risultati migliori della sola macchina, né tantomeno di macchine che collaborano – anzi, gli studi e i fatti cominciano a dimostrare il contrario; e poi perché quei risultati dovrebbero essere anche più efficienti in termini di costi, e non si vede ragione di ritenerlo possibile.
Per Ford, quindi, la rivoluzione di un mondo del lavoro in cui l’automazione produce non più meri strumenti ma lavoratori autonomi «richiederà una risposta politica ben più radicale», che l’autore identifica nell’approccio pragmatico dell’economista austriaco Friedrich Hayek: «La soluzione più efficace», scrive formulando la proposta centrale del suo libro, «sarà probabilmente qualche forma di garanzia di reddito minimo».
Un’idea non da “socialisti”, precisa, ma per salvare il capitalismo: si tratta infatti di fornire alle vittime dell’automazione un cuscinetto di spesa che consenta di mantenere aperta per tutti la possibilità di partecipare al libero mercato prima che l’avanzamento delle tecnologie porti a favorire una spinta espansiva dello stato sociale, e dunque del debito, in un contesto in cui la legittimità e la fiducia nello Stato sono ai minimi storici. Solo un primo passo, ma indispensabile secondo l’autore a sventare lo spettro di una crisi tecnologica senza vie di uscita.