Il punto di vista di due economisti del Basic Income Earth Network: dove ci sono sussidi c’è una forte tendenza alla ricerca di occupazione
Una società è intelligente se permette agli individui di svilupparsi in modo libero, generando al tempo stesso il proprio sviluppo. Per farlo, però, si deve garantire a tutti lo stesso livello di partenza. È questa l’idea che nel 1986 ha portato diversi economisti, scienziati sociali e filosofi politici a fondare ilBien- Basic Income Earth Network, organizzazione che promuove l’adozione a livello mondiale di un reddito minimo. Per Louise Haagh, co-presidente di Bien – e Andrea Fumagalli, economista e membro dell’organizzazione, l’Europa ha affrontato e continua ad affrontare la crisi con l’approccio sbagliato.
Louise Haagh: «I Paesi ideali dove introdurre un reddito minimo universale sono quelli dove i livelli di povertà sono i più elevati»
«I Paesi ideali dove introdurre un reddito minimo universale sarebbero proprio quelli dove i livelli di povertà sono i più elevati – spiega Louise Haagh -.Relativamente all’Europa, ad esempio, penso agli Stati del Sud e a quelli dell’Est. Tuttavia la nostra esperienza insegna che sono proprio queste le società dove è più difficile far accettare il nostro discorso. I Paesi nordici, che hanno già moltissimi esempi e strumenti di solidarietà sociale in vigore da anni, sono quelli da sempre più sensibili».
Se la Scandinavia discute in queste settimane la possibilità di procedere all’introduzione di un reddito di cittadinanza, per tutti quindi, in Italia la situazione è ben diversa. «L’Italia, insieme alla Grecia – spiega Andrea Fumagalli – è anche il Paese dove non esiste nessuna legge sul salario minimo. Le ragioni sono soprattutto due. La prima ha a che fare con la permanenza di una paradossale “etica del lavoro” che è patrimonio del mondo sindacale e della sinistra sia di centro che radicale, che si è sviluppata nel ‘900 ma è che è ancora ben presente. Paradossale, perché l’Italia, pur essendo il secondo Paese per numero medio di ore lavorate nella manifattura – più di 1.800, circa 350 in più della Germania, dati Ocse -, è spesso attraversata da accuse trasversali, da una categoria all’altra o da una generazione all’altra, di “fannullaggine”.
La seconda, continua Fumagalli, «fa riferimento alla matrice all’etica del “sacrificio” di cattolica memoria. Le due etiche convergono nel sostenere l’impossibilità di introdurre qualunque forma più universale di reddito minimo e l’introduzione di un salario minimo. Le recenti dichiarazioni della Segretaria della Cgil Susanna Camusso lo confermano. Tuttavia, qualcosa sta cambiando, anche per la pressione posta dall’Europa che potrebbe multare l’Italia per inadempienza al riguardo».
Fumagalli: «la proposta governativa è una misura contro la povertà assoluta che somiglia più a una elemosina, con potere di controllo e stigmate sociale»
Il problema, semmai, è che le proposte governative sul tappeto sono minimali: «Si parla infatti di introdurre il reddito di inserimento – spiega Fumagalli -, che ha come target solo coloro che si collocano al di sotto della linea della povertà assoluta, per un ammontare di poco meno di 400 euro al mese, con erogazione a scalare,obbligo di accettazione di qualunque proposta di lavoro, con un finanziamento che ricade ancora sotto l’ombrello della contribuzione sociale. Si tratta di una misura contro la povertà assoluta che somiglia più a una elemosina, con potere di controllo e stigmate sociale, che a un vero reddito in grado di favorire processi di autodeterminazione».
Diverse sono invece le proposte di legge presentate dal Movimento 5 Stelle e dalla petizione popolare organizzata da Sinistra Ecologia e Libertà, Tilt, Libera e Bin-Italia insieme a più di settanta associazioni della società civile, all’interno della campagna in corso: “100 giorni per un reddito di dignità”, con annessa nuova raccolta di firme: «Pur con mille differenze tra una proposta e l’altra – argomenta Fumagalli – in queste proposte si parla di un reddito in linea con la soglia della povertà relativa, dato individualmente (e non alle famiglie), ai residenti (da più di un certo periodo) e non solo ai cittadini italiani, con diversi gradi di condizionalità e finanziato dalla fiscalità generale e non dai contributi sociali. Queste proposte presuppongono poi l’introduzione di un salario minimo e il riordino in senso universalistico degli ammortizzatori sociali oggi esistenti, tra i più iniqui e distorsivi a livello europeo».
Come ammette Louise Haagh la principale diffidenza nell’attuazione di un reddito di base universalmente riconosciuto dipende anche nei Paesi scandinavi da come viene presentato ai cittadini: «I governi dei Paesi più evoluti in materia di welfare state hanno spesso presentato il reddito minimo di base come un’alternativa all’insieme delle politiche sociali già esistenti o anche a quelle relative al lavoro. Penso quindi al salario minimo o allo strumento della disoccupazione. In realtà, la nostra proposta va in una direzione opposta. Il reddito minimo – garantito o di cittadinanza – dovrebbe convivere con le politiche di welfare già adottate. Ad oggi il Paese più all’avanguardia in questo senso è la Finlandia, dove la discussione sul reddito base ha preso una giusta piega».
Fumagalli: «Lo strumento del reddito minimo di base potrebbe essere molto utile per uscire dalla crisi economica attuale»
Altro è chiedersi quanto sia possibile – in Italia così come in molti Paesi europei – parlare di redditi minimi e sussidi universali in un continente in cui i conti pubblici ballano sul filo del rasoio: «In effetti, la situazione attuale non è ideale per attuare una transizione verso il reddito minimo di base, soprattutto da un punto di vista fiscale – ammette Louise Haagh -, ma esistono modi attraverso i quali sarebbe possibile. Ad esempio, si potrebbe lavorare alla trasformazione di quelle che oggi sono le esenzioni fiscali in piccoli redditi di base e poi passare a tassare in modo progressivo le entrate. Partire con un livello di tassazioni basse credo sia il modo migliore di procedere in questo momento storico» In questo modo, spiega, «si incentiverebbero anche quelle persone oggi inattive, che per poter continuare a ottenere i sussidi preferiscono non lavorare. Insomma, si creerebbe occupazione, ma anche un maggiore spazio per le imprese e nuovo gettito fiscale grazie alle tasse versate».
Andrea Fumagalli, invece, non è d’accordo con la Haagh: «Parlare di reddito universale oggi in Europa è molto plausibile, perché lo strumento del reddito minimo di base potrebbe essere molto utile per uscire dalla crisi economica attuale, a patto che venga sconfitta la visione idiota delle politiche di austerità a cui, però, quasi tutti i governi sottostanno, quello italiano compreso, al di là di ipocrite dichiarazioni di facciata». Il motivo? Secondo Fumagalli, «l’introduzione o il rafforzamento dell’istituto del reddito minimo, il più incondizionato possibile, porterebbe a un miglioramento della distribuzione del reddito e una riduzione della povertà. Potrebbe fare da stimolo all’economia, in altre parole, a sostegno dei consumi e, tramite il miglioramento delle aspettative sulle vendite, anche degli investimenti».
Fumagalli: «Un reddito minimo consentirebbe di ridurre l’incertezza e lo stress della precarietà e consentirebbe al lavoratore di lavorare al meglio, con beneficio per tutti»
Aspetto secondario e mai ricordato, è che il reddito minimo potrebbe avere effetti positivi anche dal lato dell’offerta: «In Italia, nonostante ciò che dice il pensiero dominante, si lavora troppo, male e mal pagati – continua Fumagalli – La precarietà riduce la produttività e l’efficienza del sistema economico. Oggi, chi di precarietà ferisce, di precarietà perisce. Un reddito minimo consentirebbe di ridurre l’incertezza e lo stress della precarietà e consentirebbe al lavoratore di lavorare al meglio, con beneficio per tutti». Purtroppo, aggiunge, «il Jobs Act va nella direzione diametralmente opposta».
La grande obiezione di chi si oppone a qualunque idea di reddito minimo di base – sia esso garantito o di cittadinanza – è che costituisce un incentivo a non lavorare. «Questa obiezione mi ricorda il dibattito relativo alla richiesta di riduzione dell’orario di lavoro all’inizio del secolo scorso quando gli oppositori sostenevano che tale riduzione avrebbe portato a una minore produzione e a un aumento dei vizi, mentre la storia ha dimostrato che è accaduto esattamente il contrario».
«Tutti i sistemi hanno degli effetti indesiderati – spiega Louise Haagh -. Ma non si elimina il servizio sanitario nazionale perché ci sono troppe persone che decidono di arrampicarsi in montagna con il rischio di rompersi una gamba, o anche soltanto perché ce ne sono troppe nate con disfunzioni genetiche, con il risultato quindi di dover assicurare troppe cure per troppe persone. O ancora, non si smantella il sistema fiscale perché qualcuno potrebbe evadere le tasse. Credo che sulla questione del reddito minimo garantito e il suo rapporto con la pigrizia a essere sbagliata è soprattutto la premessa. Nei Paesi dove è alta la presenza dei sussidi alla popolazione, infatti, si registra alla fine una forte tendenza alla ricerca dell’occupazione. E chi ha beneficiato di aiuti molto spesso finisce per entrare nella categoria della popolazione attiva».
Al contrario, dice la Haagh, «è errato il modo in cui sono stati pensati i sussidi e le misure di welfare oggi esistenti. Alcuni di coloro che ne beneficiano, infatti, evitano di cercare lavoro perché temono di perderli a favore di occupazioni precarie. Non credo, a differenza di molti, che il mondo sia avviato verso l’automazione. Nelle nostre società resta una sfida fondamentale procedere verso una riorganizzazione della sfera umana, economica e istituzionale. Se ancora esiste un rischio di veder trionfare la pigrizia, è perché abbiamo smesso di pensare che le responsabilità di organizzare e finanziare lo sviluppo di una società le appartengano sia da un punto di vista pubblico che privato».