La Commissione Europea ha deciso di autorizzare il nuovo ECI-UBI 2020, l’Iniziativa dei Cittadini Europei (ICE) per l’introduzione di un reddito di base incondizionato negli Stati membri dell’Europa. Il titolo dell’iniziativa dei cittadini europei è: “Start Unconditional Basic Incomes throughout the EU” (Avviare redditi di base incondizionati in tutta l’ UE). L’ICE prevede la raccolta di almeno 1 milione di firme (online) da parte di altrettanti cittadini europei che risiedono nei diversi Stati membri. La raccolta delle firme è iniziata il 25 settembre 2020e si concluderàil 24 settembre 2021
È partita l’iniziativa che punta alla raccolta di un milione di firme entro settembre 2021 per chiedere alla Commissione UE di istituire redditi di base incondizionati nei paesi europei. Obiettivo di grande rilevanza, sul quale tuttavia credo giusto spendere qualche parola, visto i molteplici fraintendimenti ai quali si può andare incontro.
Diciamo subito che il reddito di base incondizionato, che noi chiameremo semplicemente “reddito universale” per motivi che di seguito appariranno chiari non ha nulla a che fare con il salario minimo, che riguarda esclusivamente i lavoratori occupati, né ha nulla a che fare con il reddito minimo o reddito di cittadinanza che viene erogato alle frange più povere della popolazione.
Ora è bene intendersi: tutte le forme che garantiscono il reddito dei lavoratori o che costituiscono misure contro la povertà, anche di tipo assistenziale, o come risposte a situazioni emergenziali come quella attuale determinata dalla pandemia, sono assolutamente sacrosante. Possono anche spingere verso la consapevolezza della necessità dell’erogazione di un reddito universale, ma quest’ultimo è semplicemente una cosa diversa e con un valore decisamente più strategico.
Ricordiamo che per reddito di base o universale si intende un’erogazione monetaria a scadenze fisse di cui beneficiano tutti i cittadini e i residenti, senza richiesta di alcuna condizione e senza alcun tipo di discriminazione, per tutto il corso della vita, dalla nascita alla morte. Per la natura stessa di queste sue caratteristiche, ciò che lo differenzia, diremmo “per definizione”, da qualunque altra forma, pur giusta e legittima, di sostegno al reddito, è che esso non è una semplice rivendicazione parziale o contingente sulla quale è possibile mettere in atto negoziazioni o forme di mediazione atte al compromesso, ma di tutte queste stesse rivendicazioni rappresenta in qualche modo il punto d’arrivo, l’obiettivo strategico che ad ogni lotta particolare dà senso, attraverso l’affermazione di quello che consideriamo essere un vero e proprio diritto.
Un diritto può certo produrre effetti particolari più o meno positivi legati al momento e alla situazione contingente, ma nella sua dimensione ultima rappresenta un valore indisponibile e non negoziabile. Qualcosa che va semplicemente “riconosciuto” e “garantito” (giusto per usare i termini della nostra Costituzione) nella sua integrità e totalità.
Il reddito universale come diritto è un concetto fondamentale per chiarire i tanti fraintendimenti di cui si diceva, a partire da alcune sue errate letture che addirittura sfociano in ipotesi neo-liberiste.
C’è infatti chi ha addirittura ipotizzato la distribuzione di un reddito generalizzato come sostituzione delle prestazioni dello Stato Sociale. Una mercificazione del Welfare, scuola e sanità innanzitutto, che invece di essere affermazione del diritto universale di accesso alla ricchezza diverrebbe di fatto negazione degli stessi diritti sociali. Questi ultimi infatti hanno uno statuto particolare che li rende profondamente diversi rispetto ai diritti di libertà. Questi si basano sul presupposto di un’uguaglianza “naturale” e “primitiva”, del tutto indifferente alle diseguaglianze di fatto e che per ciò stesso sono spesso tacciati di essere puramente formali. I diritti sociali partono invece dal presupposto che gli uomini vivono in condizioni naturali e sociali che li rendono individui con bisogni diversi e che una qualche uguaglianza non può che essere il risultato di interventi mirati e differenziati. L’uguaglianza nei diritti sociali in sostanza viene (o dovrebbe venire) “dopo”, a differenza delle libertà (almeno quelle classiche) nelle quali invece viene “prima”.
Giusto per fare un esempio: è del tutto ovvio che il “bisogno di salute” di un anziano con gravi patologie è del tutto differente rispetto a quello di un giovane in buona salute e presuppone dunque interventi sostanziosi e individualizzati. L’indifferenza del reddito universale sarebbe catastrofica se si sostituisse come alternativa al bisogno di intervenire sulle “differenze” che è invece compito dello Stato Sociale.
Queste ultime considerazioni ci portano anche a sottolineare come nella logica di una battaglia per l’uguaglianza sociale sia essenziale una stretta connessione tra efficienza del Welfare ed erogazione di un reddito universale e incondizionato.
Un’ulteriore proposta fuorviante di stampo neo-liberista, simile alla precedente, e forse anche più subdola, è quella di sostituire con un reddito universale “rinforzato” il sistema pensionistico, in una sorta di egualitarismo degli anziani, che tuttavia non ci sarebbe mai, poiché la proposta avrebbe solo l’effetto di alimentare la previdenza privata.
Come si vede la politica dei redditi nell’ottica neo-liberista è sempre quella di perpetuare le diseguaglianze sociali come elemento essenziale al funzionamento del sistema, anche quando sembra ricorrere a formule che hanno apparenze universalistiche, non per alimentare diritti ma al massimo per sostenere la domanda in funzione del mercato.
Sono state fatte poi varie altre ipotesi, anche meno fuorvianti, come quella di un salario di base da erogare a partire dalla maggiore età, che se realizzato sarebbe indubbiamente un risultato straordinario, ma a patto che sia ben chiaro che si tratterebbe comunque di un discostarsi dal modello originario, che in quanto riferimento ideale dell’agire politico dei movimenti e delle moltitudini deve essere preservato nella sua assolutezza e integrità di diritto strategicamente irrinunciabile.
Vi è infine un’ultima tentazione che va invece respinta con fermezza ed è quella di immaginare il salario di base come diritto riservato ai cittadini e non anche ai residenti stabili. In questo caso verrebbe compromesso il suo essenziale carattere di universalità, acuendo per altro la profonda ferita che riguarda già oggi la condizione di minorità in cui è in vario modo relegata la figura del migrante.
Abbiamo voluto definire il salario di base come salario universale proprio per sottolineare che, nella sua dimensione generale, esso è (lo ribadiamo) da concepire e affermare come un diritto. Come tale appartiene alla generalità degli uomini in quanto uomini, senza alcuna distinzione, neppure quella costituita dalle frontiere che dividono gli Stati e i popoli, anche se sul piano fattuale la sua concreta realizzazione resta ancora lontanissima e molto difficile.
Un’ultima considerazione: dare valore ideale e strategico alla battaglia per l’affermazione di un salario universale, al di là del determinarsi delle concrete situazioni di fatto, ha per noi il senso di considerarlo aspetto imprescindibile di uno scontro di lungo periodo volto al superamento “rivoluzionario” degli attuali assetti sociali dominati dalla logica di comando della finanza globale. In questo senso i contenuti e i valori messi in campo nella lotta devono diventare patrimonio comune di un’alleanza strategica delle moltitudini, insieme ad altri caratteri che sempre più si determinano nel farsi dello scontro sociale, come per esempio nelle fondamentali lotte di liberazione (dei popoli, delle donne, dei neri ecc.) e in tutte le battaglie per un futuro sostenibile, in senso sia ambientale che sociale.
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