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Il sociale e l’Italia in crisi. Proposte per capire e ripartire

di intervista a Mario De Aglio

Pubblichiamo una intervista a Mario De Aglio docente di economia ed editorialista de La Stampa curata da Manuela Battista per il sito gruppoabele.org

In tutto il mondo si moltiplicano i movimenti di protesta contro l’attuale sistema economico, politico e finanziario. Mentre la crisi globale non accenna a rientrare, colpendo soprattutto famiglie, giovani e servizi a sostegno delle fasce più deboli della popolazione, abbiamo chiesto a Mario Deaglio, docente di economia ed editorialista de La Stampa, di aiutarci a leggere la particolarità della situazione italiana e a prospettare delle possibili vie alternative all’attuale gestione politica della crisi

In un recente articolo ha parlato di uno specifico “malessere italiano”, che nel nostro paese aggraverebbe gli effetti della crisi internazionale. Malessere dovuto anche alla miopia di una parte importante della classe politica. Quali errori contesta alla classe dirigente italiana?
Sicuramente la mancanza di una prospettiva di lungo termine per il nostro Paese. Indipendentemente dallo schieramento, nessuna forza politica si sta occupando di come sarà l’Italia tra cinque, dieci o venti anni: di quale posto avremo nel mondo, in quali settori dovremo svilupparci, cosa faremo con una popolazione che diventa sempre più anziana… L’orizzonte su cui si lavora è – quando va bene – di sei mesi. A causa di questa miopia – che non è semplicemente un difetto, ma un grave peccato della politica italiana – non esistono progetti sui quali chiamare a raccolta la gente e viene così a mancare uno dei compiti cardine che una classe dirigente dovrebbe avere.

La Rete ha radicalmente cambiato le abitudini, ma anche il sistema produttivo ed economico dei paesi “industrializzati”. Cosa comporta questa “rivoluzione” a livello occupazionale, e come influisce sulla crisi?
Oggi il 70-80% del lavoro non è più legato alla produzione di beni fisici, ma di beni immateriali, cioè servizi. Non c’è più rapporto diretto tra la fatica e il numero dei “pezzi” prodotti. Il lavoro può essere svolto anche molto lontano dal centro dell’impresa: si può lavorare da casa, in viaggio e nemmeno l’orario di lavoro è un indicatore così efficace, perché si lavora per obiettivi o per il completamento di un progetto. Inoltre, sul lungo periodo, la necessità di manodopera tende a diminuire, perché macchine e computer svolgono la maggior parte del lavoro. È successo in passato, quando è aumentata la produttività in agricoltura e i lavoratori della terra si sono spostati in città e hanno fornito manodopera all’industria. Aumentata la produttività nell’industria, i figli e i nipoti di questi lavoratori si sono rivolti al settore dei servizi (negozi, distribuzione…). Oggi la Rete ha modificato anche questo settore e la sua capacità di assorbire manodopera si è ridotta al limite, addirittura molte figure lavorative sono del tutto cancellate: il casellante, il bigliettaio e così via.
La crisi attuale ha creato disoccupazione, con la chiusura di molte aziende, ma indipendentemente da questo, guardando al lungo periodo, le occasioni di lavoro “tradizionale” dipendente e retribuito in maniera fissa sono destinate a scendere ancora. Se troppe  persone rimangono senza lavoro – e senza reddito – il circuito economico non funziona. Perciò credo che la soluzione, almeno in parte, di questo problema, sia quella di dare a tutti comunque un reddito, un “salario di cittadinanza”: chiunque sia cittadino di uno Stato deve avere una vita dignitosa e un reddito minimo assicurato. A fronte di questo, quando vi sono occasioni di lavoro, ricercate personalmente oppure proposte, il cittadino deve accettarle (naturalmente deve essere un lavoro all’altezza del livello di istruzione della persona e compatibile con il suo luogo di residenza). Se il cittadino non accetta il lavoro proposto, si abbasserà la sua “categoria” di lavoratore oppure perderà il diritto al reddito minimo. Il nuovo patto del lavoro dovrebbe prevedere soluzioni di questo tipo. È una formula già applicata nei paesi del nord Europa, in maniera estremamente rigorosa in Svezia e Danimarca, col risultato che anche durante la crisi non vi sono stati effetti gravi sul livello di vita e sull’occupazione. Credo che sarebbe interessante fare qualche esperimento sul reddito minimo garantito in alcune zone del nostro Paese, per vedere come questo potrebbe funzionare in Italia, premesso che la nostra è una società molto più complessa e numerosa di quella svedese.

Globalizzazione, crescita e consumismo sono i perni su cui oggi ruota l’economia dei “paesi ricchi”. Ma negli ultimi anni si sente sempre più parlare di “downshifting” e di “decrescita felice”. Si tratta di un’alternativa reale e percorribile su vasta scala? 
Un fattore discriminante è se la gente voglia o meno la decrescita, ovvero, dal punto di vista economico, se è disposta ad avere un “basso assorbimento” di reddito nel proprio tempo libero. Se le persone si ritengono soddisfatte di trascorrere il tempo extra lavorativo facendo attività che non richiedono un grande dispendio di reddito (fare le parole crociate anziché giocare a golf ad esempio), allora la decrescita “felice” è realizzabile. Ma questa deve essere una trasformazione culturale, non imposta.

E dal punto di vista economico? Un tale abbattimento dei consumi sarebbe sostenibile?
Sì, se alla riduzione dell’intensità dei consumi si accompagnassero investimenti per la cura del “patrimonio collettivo”, ad esempio nel campo dell’energia pulita o per il risanamento delle infrastrutture. Ed è questo il mix indicato dai teorici della decrescita felice. Il solo abbattimento dei consumi creerebbe invece una diminuzione della domanda di prodotti, che a sua volta causerebbe la chiusura di molte attività produttive e la perdita di posti di lavoro. La sola rinuncia ai consumi, senza un investimento in campi alternativi non è sostenibile.

Le “esigenze di bilancio” hanno portato molti governi a tagliare i costi pubblici con importanti conseguenze sui diritti dei cittadini: dall’istruzione ai servizi sociali. Si tratta di misure irrinunciabili per risanare i bilanci dello Stato? 
Il mercato impone necessariamente agli Stati di fare dei tagli, per mantenere il livello di affidabilità internazionale che questo momento di crisi richiede. Non ci si può limitare però solo a questo per far ripartire l’economia del Paese: i tagli riducono i redditi delle famiglie, che spendono di meno e pagano meno imposte, a causa del minor reddito disponibile. Una manovra del genere realizza solo una piccola parte degli obiettivi di risanamento dei bilanci pubblici al prezzo di grandi effetti recessivi. Questo lo ha detto con chiarezza la Corte dei Conti, che una settimana fa, il 12 ottobre, ha bocciato la riforma fiscale del Governo proprio perché non ha copertura finanziaria.

Cosa fare allora? 
Sarebbe necessario lavorare in un’ottica lungimirante, seppure scomoda in termini di consenso elettorale. Si dovrebbero attuare provvedimenti – come la Patrimoniale, ad esempio – in cui chi ha di più, paghi di più. In questo modo – contestualmente ai tagli – ci sarebbero risorse per attuare iniziative a sostegno delle categorie economicamente più deboli, che potrebbero continuare a generare reddito, a pagare le imposte e, così facendo, contribuire a rimettere in moto il circuito economico.

Per il Terzo settore è difficile tradurre in termini “monetari” il lavoro svolto e i risultati ottenuti. Come può far sentire la propria voce un servizio che molto spesso viene considerato come puro costo?
Non è affatto semplice. C’è bisogno da un lato di uno metodo di calcolo che evidenzi quanto vale effettivamente questo settore: quanto spenderebbe il settore pubblico per offrire i servizi prodotti dal settore sociale privato, spesso del tutto  gratuitamente? Di solito la nostra contabilità nazionale, come anche quella di altri Stati, calcola solo le spese vive, mentre sarebbe importante valutare le parallele attività pubbliche e confrontarne i costi. E poi dal lato politico-comunicativo è necessario rendere edotti i cittadini di questi dati. Il tutto è complicato dal fatto che quello del privato sociale è un settore molto frammentato, mentre per comunicare il valore di questi servizi è  necessaria un’azione unitaria.

Tratto da Gruppo Abele.org

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