“La persona è diventata non solo necessaria ma inevitabile nelle organizzazioni e nelle aziende che cercano di dare un senso al proprio fare”.Se nel capitalismo cognitivo l’obiettivo è dunque quello di impadronirsi non del lavoratore ma della persona, appare piuttosto consequenziale che si guardi alle donne come a un bacino strategico. In questi ultimi decenni, il capitale ha puntato ad appropriarsi della polivalenza, della multiattività e della qualità del lavoro femminile, sfruttando, con ciò, un portato esperienziale delle donne che deriva dalle loro attività realizzate nella sfera del lavoro riproduttivo, del lavoro domestico.
Di che cosa parliamo quando parliamo di lavoro, oggi? Parliamo di soggetti, di nuovi soggetti sociali, a partire dalle inchieste e dai racconti. Parliamo di ricostruire un nuovo protagonismo sociale, a partire dalle difficoltà implicite nella precarietà. Ma parliamo anche di come le forme del controllo vengano veicolate quotidianamente attraverso l’informazione, la cultura divulgativa, la stampa popolare – che arriva quotidianamente, martellante, dentro le nostre case, attraverso i giornali e la televisione. Parliamo di come la pubblicistica manageriale contemporanea – vale a dire di come il capitale cognitivo contemporaneo – consideri necessario applicarsi a “ricercare l’anima” dentro le imprese.
Ho trovato con qualche difficoltà in edicola (le edicole sono veramente zeppe di cose strane) Per me, un mensile di psicologia femminile a cui era allegato un libro, un manuale pensato per il grande pubblico, Esci prima dall’ufficio: come fare di più in meno tempo di Laura Stack. Stack è una consulente americana che fa formazione per le grandi multinazionali Usa, dove insegna “tecniche di gestione ottimale del tempo”.
Secondo Stack, “l’azienda identifica all’interno del proprio organico i dipendenti che offrono prestazioni di livello superiore alla media”. Produttività e fedeltà agli obiettivi comuni “dovrebbero stare alla base di un contratto di interscambio tra dipendente e datore di lavoro”: il dipendente impara a essere più produttivo, conseguendo i migliori risultati in minor tempo e allora tiene per sé e per la propria vita il tempo risparmiato mentre, dall’altro lato, il datore di lavoro vede “crescere tra i dipendenti morale, motivazioni e attaccamento al lavoro”. La stessa autrice ricorda che nel 2002, negli Usa, la produttività è cresciuta del 4,7 e che nel 2003 si è impennata del 7,4%, nel solo settore commerciale. “Lavorare sodo significa usare il cervello per creare nuove idee, studiare nuove strategie. Lavorare è qualcosa che richiede impegno serio, non semplicemente presentarsi in ufficio, timbrare il cartellino e andarsene!”. In un clima del genere, appare ovvio che il lavoratore debba prestare attenzione alla propria salute, al proprio benessere, anche e soprattutto perché esso diventa il benessere dell’azienda stessa: “Siete sani, siete in forma, quanta energia sentite di avere? Studi recenti hanno dimostrato che potremmo migliorare drasticamente il nostro rendimento se prestassimo maggior attenzione alla nostra salute. Se eccediamo nel mangiare e nel bere, non c’è da stupirsi che la nostra produttività non sia ottimale. Quando si sta bene si è in grado di fare molto di più”.
Altro testo che si può citare ad esempio, tra molti, è il più complesso Leadership riflessiva: la ricerca di anima nelle organizzazioni di Andrea Vitullo. “La sfida più avvincente per il management di nuova generazione sarà quella di “maneggiare” in modo efficace ed efficiente “the human asset”. Non sarà più con sfide di tipo organizzativo che verrà chiamato a misurarsi, ma con sfide di tipo psicologico”, ci dice Vitullo.
Siamo ai fondamenti di una specie di teologia della nuova impresa nel nuovo mondo. Essa dovrebbe essere in grado di studiare, comprendere, analizzare e accogliere, i profili dei singoli, utilizzando il meglio e il massimo da ognuno, a seconda delle capacità, “senza indurlo forzosamente a eccellere” ma piuttosto a riprendersi cura “dell’istinto di lavorare”. “La persona è diventata non solo necessaria ma inevitabile nelle organizzazioni e nelle aziende che cercano di dare un senso al proprio fare”.
Da queste righe risulta in tutta l’evidenza ciò che noi, oggi, identifichiamo come un progressivo coincidere, sovrapporsi, saldarsi della vita con/sul lavoro. Sia dal punto di vista del tempo e dal punto di vista delle qualità che veniamo indotti a implicare dentro di esso. Con l’aggiunta che la precarietà, questo stato di instabilità, labilità, fragilità, termine, rischio, bilico, che scuote l’aspetto sentimentale della persona – e che non viene sperimentato solo dai precari in senso stretto, ma è diffuso, generalizzato – questa “inflessibile flessibilità” – preme in tutti i modi proprio perché si vada ad attingere alle nostre personalissime caratteristiche, per metterle a disposizione del produrre.
Credo possa apparire chiaro come il trasformarsi in una risorsa umana, in un’anima in azienda, consenta un perfetto stato di sfruttamento intensivo non del lavoratore ma della persona e addirittura oltre, se possibile, all’interno di un lavoro che oggi è stato completamente ri-soggettivato ed è diventato qualitativo, oltre che quantitativo.
Il lavoro vivo, si direbbe, in questa situazione non riesce a vincere sul lavoro morto. Sembrerebbe di trovarsi di fronte a un incrementarsi senza limite del lavoro morto, perfino nell’economia informazionale, perfino nella produzione immateriale, attraverso il computer, nuovo autocrate dell’era contemporanea, che è in grado di governare, aumentare, massificare, standardizzare, quantificare la produttività del lavoro cognitivo. Il tutto coadiuvato da un meccanismo di ininterrotta produzione di informazioni e di simboli che provvede a controllare e a incanalare ogni pulsione e pensiero e desiderio umano verso il lavoro.
Si attua così il processo di mortificazione di quello che appare, ab origine, un lavoro vivo.
L’importanza di essere infedeli
Non vorrei che dal quadro tratteggiato si traesse l’idea che non c’è via di scampo. Probabilmente, così non è. Si segnalano, sparpagliate in giro, forme interessanti di microresistenza individuale. Si sta verificando una progressiva trasformazione della percezione collettiva del concetto stesso di lavoro, che appare, ormai irreversibilmente, cosa diversa dal luogo della dignità che ha portato alla luce la classe operaia a partire dalla fine dell’Ottocento. Si sta instaurando una ancora embrionale, imprecisata e singolare, infedeltà al sistema. Se nel passato fordista, per reggere la propria alienazione e la propria fatica, i lavoratori delle fabbriche sperimentavano forme di sottrazione, di assenteismo, oggi, in tempi di postfordismo e di nomadismo, è l’infedeltà il tema con cui, necessariamente, il capitale dovrà confrontarsi nel prossimo futuro.
Dal nostro punto di vista, essere infedeli vuole dire ritrovare, finalmente, quel tratto irriducibile del desiderio umano e dell’esperienza che non è mai del tutto censurabile, controllabile, governabile, alienabile, reificabile, trasmissibile. Quella che chiamiamo anche un’eccedenza. Si innesta qui, in questo preciso punto, l’altro campo semantico, diametralmente opposto al primo, del termine precarietà, quello che accenna alla mutazione, alla rimessa in discussione, alla possibilità, al divenire, al futuro. Perfino – date certe condizioni, ovvio – a una prospettiva di liberazione, almeno parziale, dal lavoro. L’infedeltà può, in potenza, aprirci nuove prospettive.
Dal punto di vista del capitalismo, invece, l’infedeltà si traduce in una difficoltà a trasformare interamente la cooperazione sociale in cooperazione produttiva. Noi siamo la crisi del lavoro astratto. Noi siamo il potere del fare creativo che si oppone radicalmente alla propria astrazione, come ha scritto John Holloway.
Certo, il sistema mette in atto forme di compensazione, impegnandosi più che mai in quella ipertrofica produzione di modelli e valori e simboli (dal successo alla ricchezza al consumo) che ci propongono anche Stack e Vitullo, nei loro manuali. E soprattutto cerca, attraverso lo scardinamento del senso e del ruolo dell’informazione, dei media, della formazione, della cultura, di innescare una progressiva spoliazione collettiva della possibilità di agire pensiero critico. E’ utile, forse, ricordare Adorno e Habermas, ovvero come attraverso i media passi l’ideologia più vitale per il neocapitalismo: l’idea della “bontà” del sistema e della “felicità” degli individui eterodiretti che lo costituiscono.
Abbiamo spesso avvertito il profilarsi di un’identità precaria, trasversale a ruoli, mansioni, contenuti del lavoro contemporaneo. Ma le parole vengono assunte con significato diverso a seconda del significato che le singole esperienze, i singoli vissuti, finiscono per riverberarci, influenzando potentemente la loro interpretazione. E’ così che l’identità precaria viene “letta” in modo diverso, proprio a partire dalle differenze. Ed è così che oggi accade che un lavoratore dipendente possa sentirsi più precario di una persona priva di qualsiasi tipo di contratto. E’ possibile che ci sia chi sente di dover soggiacere al lato oscuro della forza, di accettare il ricatto, la chiamata. Ma che ci sia anche chi, a livello soggettivo, avverte le conseguenze della perdita di centralità del lavoro, lo spavento del trasformarsi in risorsa umana da “maneggiare”, la caduta di un patto tra knowledge workers e le altre parti sociali. Così preferisce – anche soltanto, per ora, come pura forma di sopravvivenza nel presente, di galleggiamento, di difesa singolare – sperimentare l’infedeltà.
Avanti le donne
Se nel capitalismo cognitivo l’obiettivo è dunque quello di impadronirsi non del lavoratore ma della persona, appare piuttosto consequenziale che si guardi alle donne come a un bacino strategico. In questi ultimi decenni, il capitale ha puntato ad appropriarsi della polivalenza, della multiattività e della qualità del lavoro femminile, sfruttando, con ciò, un portato esperienziale delle donne che deriva dalle loro attività realizzate nella sfera del lavoro riproduttivo, del lavoro domestico.
Gli uomini hanno più difficoltà ad adattarsi alle nuove dimensioni polivalenti e qualitative richieste dalla nuova impresa nel nuovo mondo. Così, il capitale ha imparato a sfruttare questi attributi culturali, ereditati dalle donne. L’espansione positiva della donna nel mondo del lavoro contemporaneo di fronte all’oppressione maschile, finisce dunque per essere un momento estremamente limitato. Il capitale, infatti, tende a trasformarlo in elemento su cui fondare i nuovi processi di valorizzazione, accumulazione e divisione del lavoro. E’ in questo modo, insomma, che la donna diventa un paradigma nella precarietà come nella sussunzione complessiva di corpi e di esperienze, di idee ed emozioni, in forza della forma assunta dalla società del lavoro contemporaneo, che ha portato a un processo lavorativo diffuso, senza protezione, decentrato, totalizzante, imperiale. E, soprattutto, biopolitico.
Reclaim the money
Il problema reale, nel presente, è allora quello di portare in piena luce e di far pesare politicamente l’intreccio fra lavoro pagato e lavoro non pagato. Di chiedere conto di ciò che eccede, di quell’anima che il capitalismo cognitivo ci domanda, quasi ci trovassimo, improvvisamente, all’interno di una fittizia economia del dono nella quale non è prevista alcuna reciprocità. Sono tutte le attività “non pagate più comuni e quotidiane che si confondono con l’attività produttiva vivente”, secondo la definizione di Gorz, quelle che mancano all’appello, nei conteggi.
Il divenire donna del lavoro illumina in modo preciso la natura biopolitica dei rapporti di lavoro attuali. Quel “lavoro che diventa donna” finisce per diventare un paradigma per tutti, prescindendo, finalmente, dal/dai generi, dalle differenze. Ci confrontiamo con l’applicazione della logica delle merci, dell’ingresso forzato dentro un’economia di mercato basata sul valore di scambio di tutta una sfera di aree, fino a ieri, intoccate da tali processi. Le capacita complessive, intime, individuali, differenti, dell’essere umano, perfino – sempre più profondamente – le relazioni affettive e sessuali entrano a far parte di un quadro di commerci e di relazioni economiche.
E allora è imprescindibile sforzarci di cambiare prospettiva, introducendo nuovi concetti di interrelazione, inventando e imponendo nuovi indicatori di valore, nuovi meccanismi di valutazione della ricchezza. Se i nuovi processi di accumulazione del capitale sussumono tutta l’immaterialità/materialità di conoscenze, corpi, esperienze, risorse della vita, non solo è necessario ma è impossibile non porre una seria questione di redistribuzione, di riattualizzazione del sistema di welfare, che abbia al centro, senz’altro, lo strumento del reddito di esistenza, forma minima di riequilibrio economico di tutto ciò che ci viene chiesto di spendere, quotidianamente, sul mercato del lavoro attuale.
Il paradigma di genere può offrire un istruttivo punto di osservazione e di conoscenza di tali tentativi di reificazione complessiva dell’umano. L’aspetto della riproduzione sociale non pagata mantiene infatti, oggi più che mai, un ruolo di primo piano nel processo di accumulazione contemporaneo, che pretende di inglobare l’intero vivente, addirittura.
Tratto da Queer – 2006