La creazione di un reddito di base è una buona risposta di fronte alle mutazioni del capitalismo contemporaneo?
Carlo Vercellone: La crisi sistemica, ad un tempo economica, finanziaria, sociale e ecologica che attraversa il capitalismo contemporaneo ci impone di pensare non soltanto delle alternative sul piano delle politiche di breve periodo, ma anche delle riforme strutturali suscettibili di porre le basi per un modello alternativo di società. Per rispondere all’esaurimento della società salariale, fondata su quello che Gorz chiamava il lavoro-impiego (per distinguerlo chiaramente dal lavoro nel senso antropologico del termine), la proposta di un reddito o di un salario sociale garantito, incondizionato e indipendente dall’impiego, potrebbe avere un ruolo importante – a condizione di precisare con cura i suoi fondamenti e il progetto di società nel quale si inscrive.
Il “reddito minimo”, che il reddito sociale garantito (RSG) potrebbe rappresentare, favorirebbe il passaggio da un modello di precarietà subito ad un modello di mobilità scelta, oltre che la liberazione delle forze vive di un’economia fondata sulla conoscenza.
Il RSG corrisponderebbe ad una forma di riduzione flessibile del tempo di lavoro estesa su tutta la vita. Presenta, rispetto alla riduzione del tempo di lavoro classica, un vantaggio supplementare: quello di rinforzare i poteri di negoziazione della forza lavoro. In effetti, il RSG modificherebbe il rapporto di forze all’interno delle imprese. I datori di lavoro ridurrebbero il ricorso al lavoro precario per trattenere dei salariati che dispongono in ogni caso di un’alternativa. In particolare, si produrrebbe una penuria di mano d’opera nell’economia dei servizi industrializzati (alla Mc Donald’s) che consumano oggi una grande quantità di lavoro precario. Ne risulterebbe, anche in questi settori, una dinamica che favorisce l’uscita dal taylorismo.
Il RSG favorirebbe ugualmente il potere di negoziazione per altre categorie d’impiego non salariate che si vanno sempre più sviluppando. Così, ad esempio, gliautoentrepreneurs, o quelli che in Italia vengono chiamati “lavoratori autonomi di seconda generazione”2, per i quali l’uscita dalla forma-salario sovente non è che formale, potrebbero beneficiare di margini di manovra più ampi nel rapporto di subappalto e nelle relazioni contrattuali. In effetti un RSG permetterebbe loro di ridurre il tempo di lavoro senza subire un taglio del reddito.
Inoltre, l’associazione tra la garanzia permanente del reddito e la riduzione del tempo di lavoro, permessa dal RSG, favorirebbe un trasferimento di mano d’opera dai settori orientati alla logica di redditività mercantile, verso i settori non mercantili dell’economia sociale e solidale, e dei commons nella conoscenza.
Il RSG avrebbe infine due effetti estremamente favorevoli per lo sviluppo di un’economia fondata sul sapere. Da una parte permetterebbe d’attenuare una delle debolezze principali che ha impedito lo sviluppo e l’autonomia del movimento del software libero: e cioè la mancanza di risorse, finanziarie e di tempo, sufficienti per permettere un coinvolgimento più completo dei commoners nel loro sviluppo.
D’altra parte, probabilmente, il RSG favorirebbe un incremento importante del numero di studenti e della formazione continua della forza lavoro. Consentirebbe inoltre ai singoli di scegliere più liberamente il loro corso di studi, evitando l’ingiunzione a scegliere dei percorsi di formazione spesso iper-specializzati in funzione dei bisogni a breve termine del mercato del lavoro. Ciò che, in ultima istanza, indebolisce la possibilità d’impiego degli individui: nella misura in cui dei saperi troppo specializzati rischiano di diventare rapidamente obsoleti e bloccano la possibilità di passare da un campo di sapere ad un altro. Insomma il RSG, per riprendere un’espressione di Gorz, favorirebbe lo sviluppo di una società dell’intelligenza.
Ovviamente il RSG non è il solo strumento che permette una tale transizione: deve essere articolato a un insieme di riforme strutturali che vanno dallo sviluppo dei servizi collettivi del welfare a una riforma radicale del sistema dei diritti della proprietà intellettuale.
Infine, assicurando una più ampia messa in sicurezza del passaggio tra diverse forme di lavoro e di attività, che caratterizzano sempre di più le traiettorie individuali, il RSG permetterebbe di sostituire senza nostalgia il modello fordista del lavoro stabile, a tempo pieno per tutta la vita, con un modello che si potrebbe definire di piena attività e di emancipazione dal lavoro salariato.
Jean-Marie Harribey: bisogna sottolineare che esistono diversi modi di proporre un reddito di base incondizionato, che si riflettono nell’estrema varietà delle definizioni: reddito sociale garantito, reddito di esistenza, allocazione universale, salario a vita, o, dall’altro lato della scacchiera politica, l’imposta negativa proposta da Milton Friedman. Una volta accettato il punto di vista normativo, che non permette alcuna discussione, secondo il quale nessuno deve essere escluso dalla società e tutti devono avere mezzi decenti per vivere, restano due grandi questioni poste, a mio avviso, dall’insieme delle ipotesi sul reddito garantito. La prima riguarda lo statuto del lavoro nella società. La seconda concerne la convalida sociale delle attività.
La prima questione, quella dello statuto del lavoro, può essere considerata da due punti di vista. Dal punto di vista filosofico, è una vecchia questione che divide i filosofi tra di loro: dobbiamo pensare che il lavoro sia l’essenza dell’uomo, un fattore di integrazione, di riconoscimento sociale e di realizzazione dell’essere umano, oppure che sia semplicemente alienante? Tra Hegel e Hannah Arendt, il dilemma sembra insormontabile. Numerosi teorici del reddito d’esistenza propendono per la seconda ipotesi e negano al lavoro il suo valore di integrazione sociale. Da qui deriva l’adesione alle tesi della fine del lavoro e il loro rifiuto di considerare il pieno-impiego come un obiettivo. Da qui, anche, durante un lungo periodo, è provenuta la loro opposizione alla riduzione del tempo di lavoro.
D’altro canto, il ruolo del lavoro è stato sconvolto dalle trasformazioni del capitalismo. Presso alcuni, tali trasformazioni hanno generato l’illusione secondo la quale esisterebbe una fonte miracolosa della ricchezza, al di fuori del lavoro. Molti sono stati vittima di ciò che chiamerei il miraggio della finanziarizzazione. L’intensificazione della circolazione dei capitali ha potuto far credere che i mercati finanziari erano diventati il luogo in cui si crea la ricchezza. O ancora, alcuni hanno ipotizzato che il reddito d’esistenza possa essere come una rendita prelevata sulla massa di ricchezza accumulata dall’umanità. Nel disprezzo del principio economico di base che vuole che ogni reddito perenne non possa provenire da un prelievo su uno stock, ma debba essere prodotto dall’attività corrente.
Secondo altri, teorici del capitalismo cognitivo, il lavoro ha smesso di essere produttivo, il valore si creerebbe al di fuori della sfera del lavoro. Ma questi ultimi confondono la categoria di lavoro e il quadro sociale, istituzionale e tecnico nel quale il lavoro si esercita. Credo che in questa tesi ci siano due incoerenze. La prima concerne l’aumento della produttività del lavoro grazie alle conoscenze e alle tecniche, che conferma e non smentisce, la legge del valore che deriva dalla critica dell’economia politica: più aumenta la produttività del lavoro, più il valore individuale delle merci tende a diminuire. L’introduzione generalizzata del sapere nel processo di produzione, predetta da Marx nei Grundrisse, non smentisce lalegge del valore, ma sancisce la diminuzione del valore, in modo conforme a tale legge. La seconda incoerenza concerne la sussunzione dell’insieme della vita sotto il capitale, che non restringe affatto la sfera del lavoro e della produttività, ma l’allarga. Detto ciò, Carlo Vercellone è il solo teorico del capitalismo cognitivo che condivide una parte del mio stesso cammino.
Prima di lasciare Jean-Marie Harribey sviluppare la sua seconda obiezione,potreste precisare la vostra ipotesi sulla questione del lavoro, e più in generale, la specificità del vostro approccio rispetto ad altre correnti favorevoli a un reddito di base incondizionato?
CV: innanzitutto vorrei precisare un punto importante. A mio avviso, noi oggi non siamo di fronte a una società della fine del lavoro, anche se non si deve sottovalutare l’importanza del processo di distruzione dell’occupazione, indotto dalla robotizzazione e da altre forme di automatizzazione algoritmica che sostituiscono sempre di più anche mansioni considerate come intellettuali.
Il capitalsmo cognitivo non è semplicemente un’economia intensiva di sapere, ma anche un’economia intensiva di lavoro, anche se quest’ultimo si dispiega sempre più frequentemente attraverso delle forme che sfuggono alla norma classica del lavoro-impiego o lavoro salariato. Le attività non mercantili possiedono enormi giacimenti di lavoro, in particolare dal lato della produzione dell’uomo per l’uomo (sanità, educazione…); o ancora nello sviluppo del comune, come nei movimenti per il software libero o dei makers3. Ciò nonostante il pieno sviluppo di queste attività intensive in conoscenza presuppone una politica che favorisca lo sviluppo di una società fondata sulla preminenza del non mercantile.
È la ragione per la quale la giustificazione principale del RSG non può fondarsi sulla semplice necessità di limitare gli effetti perversi della disoccupazione di massa e della precarietà, ma deve basarsi sul riesame e sull’estensione della nozione di lavoro produttivo all’epoca del capitalismo cognitivo.
Allo stesso modo, la giustificazione del reddito garantito non può fondarsi sul semplice principio etico. Noi4 ci smarchiamo anche dagli approcci, come quello di Philippe Van Parijs, che mettono l’accento sull’individuo isolato senza articolare la riflessione con un’analisi delle trasformazioni dei rapporti sociali e dei rapporti di lavoro. Questi approcci hanno peraltro per effetto di considerare il reddito di base come un reddito secondario (di redistribuzione) e non come un reddito primario.
Sono d’accordo nel dire che il lavoro è davvero l’essenza dell’uomo. E non sottoscrivo un ideale rappresentato dalla società greca antica dove gli schiavi sarebbero sostituiti da macchine. Penso che questa doppia dimensione del lavoro che voi avete indicato, quella della creatività e quella dell’alienazione, implica due elementi che si possono separare. Per far ciò, bisogna distinguere – e Marx infatti distingueva – da una parte il processo di lavoro e dall’altra il processo di valorizzazione (del capitale). Ilprocesso di lavoro designa una condizione eterna dell’attività umana, attraverso la quale gli uomini cooperano come soggetti per produrre dei valori d’uso, e così facendo, poiché trasformano la natura, è la natura stessa dell’uomo che ne risulta modificata. Da questo punto di vista, il lavoro non permette semplicemente di soddisfare dei bisogni. Si tratta anche di un’attività che permette agli uomini di esprimere la propria creatività e di esteriorizzare la propria soggettività in oggetti, in relazioni sociali, insomma di realizzare la propria umanità. Il processo di valorizzazione invece sottomette alla propria logica il processo di lavoro e dà luogo al lavoro alienato. Il lavoro salariato subordinato ormai è un semplice modo per ottenere un reddito.
Il lavoro non è un’invenzione del capitalismo industriale. L’uomo artigianale, emancipato dalle servitù feudali ai tempi della rivoluzione comunale e del Rinascimento, è una figura del lavoro emancipata, che ricolloca il lavoro al centro della società e della cittadinanza. In seguito si è sviluppato il capitalismo, prima nella sfera mercantile e finanziaria – l’epoca del capitalismo mercantilista – poi, poco a poco, ha spossessato gli artigiani del loro sapere, ha preso il controllo del lavoro, sottomettendolo alla norma del lavoro astratto.
Perché parlare di crisi della legge del valore? Bisogna precisare due cose: la crisi della legge del valore-tempo di lavoro è l’espressione endogena della dinamica attraverso la quale il capitalismo diminuisce al minimo il tempo di lavoro, in modo tale che il valore delle merci cade e con esso cadono i profitti che vi sono associati; da qui viene il rafforzarsi della logica della rendita nel capitalismo cognitivo che, attraverso i diritti di proprietà intellettuale, tenta di far sopravvivere il primato del valore di scambio in modo artificiale. Questa tendenza non toglie nulla al fatto che il lavoro, in particolare nella sua dimensione cognitiva, resti la fonte del valore e del plusvalore, anche se non può più essere misurato in unità di lavoro semplice, di lavoro astratto non qualificato.
È in questa prospettiva – quella di un capitalismo fondato sulla conoscenza e il lavoro cognitivo – che concepiamo il RSG come reddito primario. Basandoci su due constatazioni principali.
La prima rinvia al fatto stilizzato, spesso evocato anche dagli economistimainstream, secondo il quale la parte di capitale intangibile (educazione, formazione, sanità, RD) sarebbe ormai il principale fattore di crescita e avrebbe superato la parte del capitale materiale.
Ciò ha almeno due implicazioni. Una è che le condizioni di riproduzione della forza-lavoro sono ormai divenute produttive. La fonte della ricchezza delle nazioni si sviluppa sempre più a monte dei sistemi di produzione delle imprese. L’altra implicazione, è che il vero settore trainante dell’economia della conoscenza non si trova più unicamente nei laboratori di Ricerca & Sviluppo delle fabbriche ma nelle istituzioni di welfare state che garantiscono la riproduzione dell’intellettualità diffusa.
La seconda constatazione riguarda il lavoro stesso e la sua organizzazione. Il lavoro cognitivo è un’attività di riflessione e di scambio di saperi, che si sviluppa tanto al di fuori quanto durante l’orario ufficiale di lavoro. Ne risulta, sotto la pressione della precarietà e di un management che usa lo stress come strumento di gestione, un forte aumento delle ore di lavoro non pagate, che danno luogo a una forte crescita del plusvalore assoluto. Questa tendenza è rafforzata dal ruolo crescente del “lavoro del consumatore” favorito dallo sviluppo delle tecnologie dell’informazione, della comunicazione e di internet. Così il modello di profitto dei grandi oligopoli di Internet si basa in gran parte sull’appropriazione privata del lavoro gratuito, effettuato da una moltitudine di individui sul web.
Altra caratteristica del lavoro cognitivo: è capace di auto-organizzare la produzione, sia all’interno dell’impresa che attraverso forme multiple di cooperazione autonoma, al di là dei modelli del mercato e della gerarchia, di cui il software libero è un caso emblematico. Delle due funzioni che Marx distingueva per il capitalista, quella del direttore d’orchestra e quella dispotica di estrazione del plusvalore, spesso non resta che la seconda. Le forme di organizzazione autonome si rivelano in molti casi superiori, in termini di efficacia, alle imprese capitalistiche.
È su questa constatazione che si basa il principio di un RSG come reddito primario. Questo principio si fonda su un’estensione della nozione di lavoro produttivo, giustificata da un doppio punto di vista.
Il primo ha a che vedere con il concetto di lavoro produttivo, pensato secondo la tradizione dominante nella teoria economica, come lavoro che produce merci e genera profitti. Si tratta in questo caso di constatare che assistiamo ad una importante estensione dei tempi effettivi di lavoro i quali, senza essere presi in conto dalla loro misura ufficiale, partecipano alla creazione di valore aggiunto captato dalle imprese. A tal proposito potremmo dire che il RSG sia una sorta di salario socializzato, basato sulla rivendicazione della remunerazione collettiva di questa dimensione del lavoro creatore di valore.
Ma c’è anche una seconda giustificazione, che rinvia stavolta al lavoro che produce valori d’uso: delle ricchezze che sfuggono alla logica mercantile e a quella del lavoro salariato subordinato. Nell’insieme si tratta di rompere, sul piano del pensiero e dell’immaginario collettivo, con l’identificazione storica abusiva che il capitalismo ha stabilito tra lavoro e lavoro salariato e, con essa, tra lavoro salariato e reddito. Si tratta di affermare che il lavoro può essere improduttivo di merci e di capitale, ma produttivo di ricchezze non mercantili e dunque dar luogo a una contropartita in termini di reddito.
JMH: sono d’accordo con molti punti di ciò che è stato detto. Sostengo da molto tempo che il lavoro effettuato nella sfera non mercantile, come l’istruzione pubblica ad esempio, sia produttivo di valore per la società, nel senso economico del termine, ovvero di valore (come frazione del lavoro collettivo NDT), e non soltanto di valore d’uso. Tuttavia quando Carlo afferma che il RSG è un reddito primario, pone a mio parere una questione delicata: possiamo considerare che se io scelgo liberamente la mia attività essa rimandi alla stessa logica?
Tutto questo mi porta all’altra mia obiezione principale, che concerne la convalida sociale delle attività.
L’ipotesi d’incondizionalità presuppone che un individuo possa autoconvalidare le attività alle quali sceglie liberamente di dedicarsi. Alexandre le bienlheureux5 può auto-validare il fatto che guarda passare gli uccelli in cielo…? A mio avviso, la risposta è no. Per delle ragioni che non sono semplicemente morali, ma che rinviano fondamentalmente all’istituzione sociale che costituisce la moneta.
Un reddito distribuito in moneta esige una convalida collettiva, sia essa fatta dal mercato – è il salto pericoloso della merce del quale parlava Marx – o sia essa fatta dalla collettività, attraverso una decisione politica (finanziare attraverso le tasse l’istruzione pubblica, ad esempio). Non c’è altra maniera di convalidare il versamento di un reddito monetario. E questo versamento non può intervenire prima che la convalida abbia avuto luogo. L’autoconvalida è un ossimoro. La convalida della mia attività libera non può essere fatta da me stesso. Non può che provenire dal resto della società, che sia al livello dello Stato, di una collettività locale o di un tessuto associativo.
Dimenticare questa esigenza, mi sembra il punto debole di tutte le proposte di reddito garantito.
CV: L’elemento chiave della nostra proposta è che capovolge la critica morale secondo la quale si può versare un reddito solo come contropartita di un lavoro: la contropartita in lavoro esiste già, è la contropartita in reddito che manca. Il RSG viene a colmare questa sfasatura.
Rispetto alla moneta, il RSG ci riporta all’essenza di un’economia monetaria di produzione. Faccio riferimento al fatto che esiste un’asimmetria fondamentale nelle condizioni di accesso alla moneta, tra la classe dei capitalisti e la classe di coloro che non possono accedere alla moneta, se non attraverso un impiego salariato e perciò dipendono dalle anticipazioni dei capitalisti rispetto al volume della produzione considerato da questi come redditizio. Il RSG permetterebbe di attenuare questa asimmetria monetaria fondamentale. Attenuerebbe la costrizione monetaria che sta alla base del rapporto salariale.
L’istituzione di un RSG instaurerebbe quella che chiamo una moneta del comune, permettendo di rendere sostenibile un insieme di attività che potrebbero così essere remunerate socialmente. Tutto ciò presuppone una fondamentale riforma monetaria, ma anche una profonda riforma fiscale. In effetti non v’è contraddizione, ai nostri occhi, tra il finanziamento monetario e il finanziamento fiscale del RSG. Bisognerebbe attivare entrambi. In un primo tempo, un finanziamento attraverso la creazione di moneta potrebbe facilitare enormemente la transizione. Ma in seguito la fase di consolidamento necessiterebbe di profonde riforme fiscali per assicurarne la perennità. Nel 2002, insieme a Jean-Marie Monnier, abbiamo eseguito uno studio per mostrare la sostenibilità di un RSG corrispondente alla metà del salario mediano, e cioè 800 euro circa al giorno d’oggi, senza toccare il sistema di protezione sociale. Tutto ciò implica una vera rivoluzione fiscale i cui grandi assi sarebbero i seguenti: rafforzamento della progressività dei prelievi, tassa sulle transazioni finanziarie, una fiscalità dei brevetti e in particolare dei brevetti dormenti, e la tassazione dei grandi oligopoli di Internet che sfruttano il lavoro gratuito dei consumatori, sulla scia di quanto proposto dal rapporto Collin e Colin. Ma questo lavoro dovrà essere approfondito e attualizzato.
JMH: Visto che il pagamento passa per le tasse, non si tratta di un reddito primario se non è stato preceduto dalla convalida sociale di tale o talaltra attività. Altrimenti ricaschiamo nella contraddizione prima evocata: l’impossibile auto-validazione.
CV: Hai portato un contributo essenziale mostrando che il lavoro dei servizi pubblici dovrebbe essere considerato come creatore di valore monetario. Il reddito di un insegnante è d’ordine primario. Non si può dire che non sia produttivo perché è pagato dalla fiscalità. Non riesco a comprendere la tua difficoltà nell’estendere questo riconoscimento alle attività che sfuggono alla norma del pubblico e del privato. La logica del comune può essere un terzo elemento che si inscrive tra la logica del privato e la logica amministrativa del pubblico, che può ricevere una convalida politica in quanto reddito primario.
JMH: Le molteplici attività che i cittadini esercitano al di fuori della sfera del lavoro, come ad esempio animare una squadra di calcio, cantare in un coro, non possono essere considerate allo stesso modo che le attività che si esercitano nella sfera di mercato, nelle amministrazioni o anche presso le associazioni che forniscono un servizio monetarizzato. Si tratta di due registri totalmente differenti.
Certo, queste sfere non sono del tutto separate: la riproduzione della forza lavoro deve molto al lavoro gratuito effettuato dalle donne nella sfera domestica. Ma possiamo trarne la conseguenza che è necessario monetizzare questo tempo? Molte femministe, al giorno d’oggi, insorgono contro la reintroduzione dell’idea di un “salario per la maternità”, da ottenere sotto forma di reddito di base, perché una misura di questo tipo comporterebbe il fatto di tornare su ciò che si può considerare una sorta di diritto acquisito: ovvero la libertà, per le donne, di esercitare un lavoro, sia esso salariato o alienato…
Più in generale, c’è un limite all’estensione della definizione di lavoro produttivo, ed esistono delle attività che non hanno vocazione ad essere monetizzate. L’estensione del lavoro produttivo di valore non può essere ricalcata sulla nozione di valore d’uso. Ci si darebbe la zappa sui piedi se oltrepassassimo questa frontiera, che mi pare sia tracciata da questa nozione di convalida collettiva. Una tale convalida determina ciò che riguarda la moneta e ciò che non la riguarda.
Andrei più lontano: la rivendicazione di un reddito incondizionato è portatrice di una dinamica secondo la quale non ci sono più arbitrati privati, non c’è più società. Margaret Thatcher diceva: la società non esiste, non ci sono che individui. Ho paura che la proposta di un reddito garantito ci faccia correre il rischio di dar credito a una logica individualistica. D’altronde i liberali intelligenti l’hanno capito bene, e hanno preso la palla al balzo.
Si tratta di un impensato maggiore che è anche un problema etico. Ho bisogno dello sguardo degli altri, del riconoscimento degli altri per convalidare la mia attività. Perché esistano rapporti sociali è necessario un riconoscimento reciproco.
CV: Incondizionalità non significa rifiuto della convalida sociale, né che tutto possa essere ridotto ad un affare di arbitrato privato. L’incondizionalità ha tre giustificazioni principali.
Innanzitutto solo l’incondizionalità può permettere il libero sviluppo di attività e di forme di cooperazione eminentemente produttive, come nel caso del software libero, dei makers o di tutte le reti associative che producono ricchezza e non valori mercantili. La questione della convalida politica di queste attività è essenziale per impedire che esse ritornino a dipendere dalla logica mercantile. È quello che è successo a Linux: i commoners non avevano tempo libero né risorse finanziarie, IBM e altri hanno catturato Linux all’interno del loro modello d’affari e oggi l’80% del programma di Linux è scritto da salariati che lavorano per Google, IBM e altri. Cosa che inevitabilmente ha degli effetti sugli obiettivi stessi della programmazione.
Poi l’incondizionalità è una forma di egualitarismo che rifiuta la pretesa sempre più arbitraria di stabilire un rapporto tra diritto al reddito e sforzo individuale in una società nella quale i guadagni di produttività, la creazione di saperi e di ricchezze sono opera collettiva.
Infine, l’incondizionalità impedisce l’ineluttabile stigmatizzazione associata alla condizionalità e alla richiesta di contropartite e di prove di buona volontà dei beneficiari, come mostra tutta la storia dei tentativi di distinguere tra poveri buoni e poveri cattivi, della quale conosciamo bene le conseguenze. Soltanto l’incondizionalità permette di rompere con la logica che rende il lavoro salariato la norma alla quale tutti si devono conformare.
JMH: Questo problema della stigmatizzazione merita attenzione. Quale sarebbe la differenza in termini di dignità umana tra un individuo che percepisce una prestazione sociale tradizionale, visto che è senza un impiego, e un individuo che percepisce una allocazione universale, ma che percepisce solo quella, perché non ha accesso a tutte le sfere della società? Su questo punto io sono d’accordo con Gorz quando considerava necessario che gli individui potessero inserirsi in tutte le sfere della vita sociale – tra le quali quella del lavoro, che è un fattore essenziale di integrazione sociale.
Il pericolo di una priorità assoluta data al reddito sociale garantito sarebbe di rinunciare all’obiettivo del pieno impiego e all’inserimento di tutti gli individui in tutti i settori della vita sociale. Piuttosto che condannare gli uni a restare in panchina mentre gli altri lavorano sempre più a lungo, bisogna ridurre il tempo di lavoro per riassorbire la disoccupazione. Io penso alla riduzione del tempo di lavoro come ad un progetto collettivo, ovvero come un progetto di perequazione degli incrementi di produttività sull’insieme della collettività. Infatti – su questo siamo d’accordo – non si possono attribuire con precisione gli incrementi di produttività a tale o talaltro individuo visto che tali incrementi sono il risultato dell’insieme delle infrastrutture della società.
Il reddito di base, pretendendo di superare il lavoro salariato, rischia di indebolirlo e di indebolire anche tutte le protezioni e i diritti sociali che accompagnano il salariato. Robert Castel definiva il salariato non solo in termini di rapporto di subordinazione del lavoratore al suo datore di lavoro, ma anche come insieme delle protezioni sociali che tendono a diventare universali. Bisogna tendere all’universalizzazione della condizione salariale, piuttosto che al taglio del salariato.
Anche se i partigiani al RSG accettano l’idea di una riduzione del tempo di lavoro, mi sembrano vittime dell’illusione secondo la quale la si può precisamente rendere compatibile con il RSG. Io, al contrario, penso che bisogna innanzitutto fare in modo che la disoccupazione diminuisca, attraverso una forte riduzione del tempo di lavoro. La RTL è un progetto collettivo, il RSG invece rinvia ciascuno alla sfera individuale.
Una volta che il reddito di base incondizionato fosse versato a tutti, ciascuno farebbe “la sua libera scelta” di offrire o meno la sua forza-lavoro. Visto che la società avrebbe già fatto il suo dovere, i problemi sociali non sarebbero più sociali perché sarebbero rinviati alla sfera privata. Inoltre, non si può non vedere che un tale reddito universale rappresenterebbe per i datori di lavoro una benedizione, perché li dispenserebbe dal remunerare decentemente la forza-lavoro. Dietro l’idea di reddito di base c’è il pericolo di una flessibilità accentuata del lavoro, e non di un rafforzamento del potere di negoziazione dei salariati.
Infine, la proposta a volte fatta di finanziare questo reddito primario attraverso la soppressione di tutte le indennità sociali attuali (RSA6, pensione, sussidio di disoccupazione, allocazione alle famiglie e perché no? indennità di malattia…) distruggerebbe tutta la redistribuzione garantita da queste prestazioni, che sono esattamente quelle più redistributive. Il reddito di esistenza sarebbe quindi finanziato dai più poveri?
CV: Bisogna sottolineare l’opposizione tra la nostra proposta e quelle d’ispirazione liberale, alla Friedman, nelle quali l’organizzazione di un RSG avrebbe come contropartita la demolizione del sistema di protezione sociale. La nostra proposta preserva i diritti acquisiti di Welfare state e mira a perseguire la logica della socializzazione dell’economia, cominciata con lo sviluppo del sistema di protezione sociale.
Il versamento di un RSG indipendente dall’attività salariata non potrà che rafforzare il rapporto di forza dei lavoratori rispetto al capitale. Pensiamo ad esempio all’effetto che avrebbe il RSG sui servizi industrializzati tipo Mac-Do che si basano sulla possibilità di beneficiare di una massa enorme di lavoratori precari privi della possibilità di negoziare le proprie condizioni di lavoro. Con un RSG io posso oppormi a delle condizioni di lavoro inaccettabili.
D’altra parte le rivendicazioni del RSG e della RTL non sono per nulla antagoniste, ma complementari. Si rafforzano l’un l’altra. Proprio perché il RSG permette di sviluppare delle attività autonome, al di fuori della sfera del lavoro salariato, ma allo stesso tempo garantisce un rafforzamento dei rapporti di forza nel settore mercantile…
Più fondamentalmente ancora, si tratta di sapere verso quale modello di società si vuole andare. L’approccio di JMH resta legato a un’idea di pieno impiego salariato, vicina all’età dell’oro del modello fordista keynesiano. Una tale idea è sottesa al vecchio principio socialista “a ciascuno secondo il suo lavoro”. Io preferisco il principio comunista del Marx della Critica del programma di Gotha7: “da ciascuno secondo le sue possibilità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”, restando inteso che il lavoro è esso stesso un bisogno essenziale per la realizzazione della creatività e dell’essere sociale dell’uomo.
JMH: “da ciascuno secondo le proprie possibilità, a ciascuno secondo i propri bisogni” è un principio al quale aderisco anch’io, ma deve essere applicato nella sfera del lavoro socialmente convalidato e non può essere altrimenti. Salvo fare a meno delle norme di impiego decenti e dell’integrazione di tutti in una vita sociale soddisfacente. Il dibattito sul reddito d’esistenza ha il merito di porre alcune questioni fondamentali: che cos’è il valore fondato sul lavoro? Che senso ha il valore del lavoro stesso, ovvero qual è il suo posto nella società? A cosa serve e da dove viene la moneta? E infine, cosa fa sì che ci sia una società? Ma in effetti la risposta a queste questioni può essere trovata solo se tutti gli individui vengono messi nella condizione di inserirsi in tutte le sfere della società.
Bibliografia
Baronian L. et Vercellone C., 2015, “Monnaie du commun et revenu social garanti”, Terrains/Théories n° 1, disponible sur http://teth.revues.org/377
Harribey J.-M., 2014, Les feuilles mortes du capitalisme. Chroniques de fin de cycle, Le Bord de l’eau.
Harribey J.-M., 2013, La richesse, la valeur et l’inestimable. Fondements d’une critique socio- écologique de l’économie capitaliste, Les Liens qui libèrent.
Monnier J.-M. et Vercellone C., 2014, “The Foundations and Funding of Basic Social Income as Primary Income. A Methodological Approach”, Basic Income Studies, vol. 9, n° 2, décembre.
Vercellone C., 2013, “Capitalisme cognitif et revenu social garanti comme revenu primaire”, in Caillé A. et Fourel C. (dir.), Penser la sortie du capitalisme. Le scénario Gorz, Le Bord de l’eau, pp. 137-148.
Sul reddito di base, si vedano anche: http://harribey.u-bordeaux4.fr/travaux/travail/index-travail.html et http://harribey.u-bordeaux4.fr/travaux/valeur/index-valeur.html
Traduzione di Marco Assennato.
* Articolo pubblicato in L’Economie politique, n°067, luglio 2015, pp. 62-75: