Per fine gennaio il Jobs act di Matteo Renzi avrebbe dovuto essere un vero e proprio testo tecnico-normativo. Siamo a febbraio e ancora nulla di fatto. Si preferisce mediare per un sistema elettorale che garantisca la sacra “governabilità”. Rinviando le proposte intorno al nodo dei lavori e del nuovo welfare alla campagna per le elezioni del Parlamento europeo. Perciò siamo rimasti solo alle buone intenzioni contenute nei titoli del famigerato Jobs act. Sempre dispersi in uno spazio temporale piuttosto vago. Otto mesi per adottare un Codice del lavoro che semplifichi le norme esistenti. Il miraggio di un contratto unico a tempo indeterminato. Una indefinita tempistica di piani industriali che creerebbero posti di lavoro in alcuni settori strategici: cultura, turismo, Ict, green economy.
Così Renzi smentisce anche la sua iniziale intenzione di intervenire in campo sociale, per arginare l’impoverimento e la ricattabilità di quel quarto di popolazione precipitato nella povertà assoluta. Con quel che resta del ceto medio oramai messo alle corde da una sperequazione economica che sei anni di Grande Recessione globale, e italiana, rende insopportabile.
Proprio su questo terreno la sfida dovrebbe riguardare l’ipotesi, concretamente riformista, di adottare politiche pubbliche per redistribuire la ricchezza esistente, sempre più concentrata in quell’1 per cento di speculatori. E al contempo garantire un quadro di diritti sociali di base che permettano alle persone di non sottostare ai ricatti: della povertà e di lavori, quando ci sono, svolti in condizioni miserabili, spesso pagati un’inezia e con mesi di ritardo. Dovrebbe essere favorevole il quadro europeo della campagna elettorale di primavera. Perché è proprio l’Unione europea che dal 1992 chiede all’Italia di adottare una misura di reddito minimo garantito. Nel Parlamento italiano giacciono tre proposte di legge: M5s, Sel e un gruppo di parlamentari Pd. Lo scorso 15 gennaio è stata approvata una mozione, presentata da Sel, che impegna il governo «ad assumere ulteriori iniziative per introdurre il reddito minimo garantito». La maggioranza parlamentare c’è. Qualora Renzi volesse davvero spiazzare tutti dovrebbe procedere speditamente in questo senso. Sarebbe il segnale di un’inversione di rotta. Ripensare la spesa pubblica per sostenere le persone, riavvicinando le istituzioni alle domande di giustizia provenienti dalla società. Soprattutto sarebbe il primo tassello di quella necessaria riforma del welfare in senso universalistico che il Paese aspetta da un trentennio.
E qui veniamo al secondo, decisivo punto. Meglio rinunciare all’idea di un unico contenitore per tutti i “lavori” e accettare il pluralismo delle “attività produttive”. Così da definire quello zoccolo duro di tutele sociali e welfare, che proteggano concretamente “il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni” (art. 35 della Costituzione). Garantire i diritti delle persone contro la precarietà può andare di pari passo con un sistema fiscale e previdenziale più equo per le forme del lavoro indipendente e autonomo. Un sussidio di disoccupazione universale, piuttosto che i 4 miliardi annui statali di cassa in deroga. Tutele universali per malattia e maternità, invece che dimissioni in bianco. Per valorizzare e rilanciare le mille forme di attività lavorativa, insieme con un progetto di vita e società. Non lasciando indietro nessuno. Una piccola, grande rivoluzione culturale e politica. Da fare qui e ora. Se solo Renzi avesse un po’ di coraggio. E fosse di sinistra.
Articolo pubblicato su Left.it il 1 febbraio 2014