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Jobs Act : misure e riforme in tempo di crisi

di Tiziana Orru

Crisi globale ed involuzione del diritto del lavoro e della protezione sociale.

E’ ormai noto a tutti che la crisi finanziaria iniziata negli Stati Uniti nel 2007 con lo scoppio della bolla immobiliare e che ha coinvolto successivamente i mercati di molti paesi  industrializzati dell’eurozona tra i quali  anche l’Italia, ha determinato una forte recessione economica in termini di crisi del debito pubblico e di calo dell’occupazione.

Da allora sono passati molti anni, ma ancora oggi gli economisti di tutto il mondo si confrontano sulle misure più idonee per arginarne le conseguenze perché, per la prima volta dopo la crisi del “29, è tornato il grande spettro della deflazione capace di ingenerare forti inquietudini e di diminuire le attese di miglioramento, almeno  nel breve periodo, della situazione economica e con essa delle condizioni di vita in generale e dei diritti sociali in particolare.

Ma  più chiaramente la crisi ha rivelato in maniera tangibile un mercato del lavoro sensibile alle congiunture economiche.

Anche i non esperti di economia (come chi scrive) hanno avuto chiaro il risalto del condizionamento che la crisi globale ha avuto e continua ad avere sull’evoluzione (rectius sull’involuzione) del diritto del lavoro e della protezione sociale fortemente innovati dal sistema di governance economica europea

Ma andiamo con ordine.

A partire almeno dal 2010, a livello europeo, le soluzioni alla crisi sono state  costruite su tre pilastri: un programma economico sottomesso ad una sorveglianza più stretta degli squilibri di finanza pubblica, una stabilità della zona euro con il patto per l’euro più, un sostegno al settore finanziario e alla sua regolazione. Per garantire effettività alle determinazioni delle autorità europee sono stati affidati ampi poteri ai responsabili degli affari economici e finanziari della Commissione europea, compresa la possibilità di obbligare i paesi ad eliminare gli squilibri di budget e/o macroeconomici, sotto minaccia di sanzioni.

Seguendo le ricette somministrate dalla Commissione europea, dalla BCE e talvolta dal FMI, sempre in nome della flessibilità e senza alcun ripensamento nei confronti della nozione di lavoro di qualità, in Italia sono stati congelati gli stipendi dei dipendenti pubblici,  nel 2010 si è attuata con il Governo Monti una riforma delle pensioni unitamente alla modifica della disciplina dei licenziamenti ed in particolare dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, per evidenziare la degradazione delle prerogative lavorative nel settore pubblico e privato.

Parallelamente, sempre sul fronte dei diritti sociali, la crisi ha messo in luce un forte indebolimento delle regole relative alla rappresentatività sindacale attraverso la modifica dei criteri di elaborazione del diritto sociale. Si pensi solo alla decentralizzazione della negoziazione collettiva attuata con la previsione contenuta nell’art. 8 L.148/2011 che rovesciando il rapporto tra contratto nazionale e contratto di secondo livello ha conferito efficacia erga omnes ai contratti collettivi aziendali applicati a tutti i lavoratori dell’azienda.

E’ innegabile la forte perdita di autonomia,  di libertà  e di potere negoziale dei sindacati  evidenziata dalla pressoché totale assenza di  concertazione, sul Jobs Act e di qualsiasi dialogo sociale in materia di contratto di lavoro a termine, lavoro interinale, apprendistato.

Anche l’attuale Governo Renzi è intervenuto con il Jobs Act a regolamentare massivamente il diritto del lavoro.

In primo luogo con il decreto Legge 20 marzo 2014, n. 34, convertito nella legge  16 maggio 2014, n. 78, è stato  definitivamente generalizzato il contratto di lavoro a termine senza causale, ora utilizzabile per soddisfare esigenze stabili di lavoro con l’unico limite del rispetto della percentuale massima del 20% della forza lavoro e della durata massima di 36 mesi in ogni caso derogabile dalla contrattazione collettiva anche aziendale, ai sensi dell’art. 8  della l. 148/2011.

Sarà ora compito della Commissione europea, già chiamata a pronunciarsi con numerose procedure di infrazione, a valutare il conflitto esistente tra i principi   contenuti nella Direttiva 1999/70/CE emanata allo scopo di evitare l’abuso della successione dei contratti a termine  e la possibilità di stipulare rapporti di lavoro a termine acausali con i limiti indicati dalla L. 148/2014, limiti che la CGCE 4 luglio 2005, causa C-212/04, Adelener, ha peraltro, già giudicato in contrasto con la clausola 5 della Direttiva in una analoga fattispecie della legislazione greca.

Il percorso di strumentalizzazione del diritto del lavoro al servizio delle politiche d’impiego iniziato con la legge 148/2014  è proseguito con il secondo atto con il quale è stata emanata la delega sul mercato del lavoro Legge 10.12.2014 n° 183 al fine di “promuovere, in coerenza con le indicazioni europee il contratto a tempo indeterminato come forma comune di contratto di lavoro, rendendolo più conveniente rispetto agli altri tipi di contratto in termini di oneri diretti e indiretti” non prima di avere individuato e  analizzato “tutte le forme contrattuali esistenti, ai fini di poterne valutare l’effettiva coerenza con il tessuto occupazionale e con il contesto produttivo nazionale ed internazionale, in funzione di interventi di semplificazione, modifica o superamento delle medesime tipologie contrattuali”.

Senza pretesa di condurre una ricognizione della legge, con l’entrata in vigore il 7 marzo 2015 dei primi due decreti di attuazione è possibile evidenziare alcuni profili idonei a realizzare un consistente depotenziamento dei diritti dei lavoratori, sia nella fase di gestione che di conclusione del rapporto di lavoro, mentre appare arduo capire quali benefici potranno derivare complessivamente al mercato dell’occupazione dalla nuova disciplina degli ammortizzatori sociali.

Il Decreto Legislativo 4 marzo 2015, n. 23 ha introdotto  nel nostro ordinamento il contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti.

Non si tratta di una nuova tipologica contrattuale, ma di un comune contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato caratterizzato da una particolare disciplina del recesso  nel quale le tutele non crescono affatto.

Al contrario la riduzione di tutele è evidente nel ritocco del catalogo delle sanzioni  in caso di licenziamento illegittimo, che ha relegato la reintegra nel posto di lavoro ad un’ipotesi meramente residuale e, l’ha totalmente esclusa in caso di licenziamento collettivo.

Ogni nuovo rapporto di lavoro può essere ora illegittimamente estinto pagando, a seconda della dimensione aziendale, da un minimo di 2 ad un massimo di 24 mensilità di retribuzione, riducibili con un‘offerta di conciliazione anche a 1 o 2 mensilità (importo che non costituisce reddito imponibile  e non é assoggettato a contribuzione previdenziale).

Oltre a ciò la ratio dichiarata della riforma di rafforzare il percorso di maggiore certezza del diritto e prevedibilità delle sanzioni già avviato con la  Legge Fornero (L. n. 92/2012), così come lo scopo di accelerazione dei tempi del processo,  risultano tuttavia frustrati dalla complessità del quadro normativo e dall’incertezza della sua applicazione (sempre insita in ogni modifica legislativa).

In tal senso l’esclusione dell’applicabilità delle disposizioni della legge n. 92 del 2012, sia ai licenziamenti intimati ai lavoratori neo assunti, sia ai lavoratori  a cui sia convertito il contratto a tempo determinato o di apprendistato in contratto a tempo indeterminato sia ai lavoratori già in servizio nel caso in cui il datore di lavoro, in conseguenza di assunzioni a tempo indeterminato avvenute successivamente all’entrata in vigore del  decreto, superi i 15 dipendenti,  di fatto legittima la coesistenza di tre differenti regimi normativi sostanziali e di due regimi processuali in dipendenza del periodo di assunzione e/o di licenziamento dei lavoratori che richiederà agli operatori del diritto e ai datori di lavoro un forte impegno nella verifica della disciplina applicabile alle singole fattispecie.

Situazione ancora più complessa in caso di licenziamento collettivo, ove gli eventuali vizi della medesima procedura potranno giustificare l’applicazione del regime reintegratorio o risarcitorio a seconda del periodo di assunzione dei lavoratori.

Analogamente il supposto obiettivo di sostenere l’occupazione attraverso l’abbattimento dei livelli di tutela del lavoratore si  scontra  con un palese quanto enfatizzato aumento delle assunzioni avvenuto però in epoca antecedente all’entrata in vigore dei decreti attuativi e perciò solo in stretta correlazione con l’abbattimento dei costi fiscali.

Di contro, le future ricadute sul sistema giuslavoristico sono tali da modificare sostanzialmente (soprattutto per le imprese di maggiori dimensioni) gli equilibri di potere sociale a favore dei datori di lavoro, senza garanzia di una reale stabilità dei lavoratori anche se assunti a tempo indeterminato.

Non solo per i licenziamenti economici, ma anche per i licenziamenti disciplinari  il datore di lavoro può preventivare il costo del licenziamento sulla base dell’anzianità di servizio del dipendente, senza che nel  relativo calcolo possa avere rilievo la gravità del fatto contestato, gli effetti pregiudizievoli prodotti, la mancanza di colpevolezza.

Esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento  in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, il giudice del lavoro potrà disporre la reintegra.

Le nuove tutele accordate al lavoro subordinato avranno come prevedibile conseguenza un forte abbattimento del potere contrattuale del lavoratore  rispetto  a tutte le prerogative del rapporto, peraltro già compromesse dalla modifica dell’art. 4 St. Lav. in tema di controlli a distanza dei lavoratori, e dell’art. 2103 c.c.   in tema di jus variandi  – in caso di processi di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale”  (art. 1, co. 7, lett. e L 183/2014).

Anche l’attuale struttura salariale sarà inevitabilmente coinvolta dalle nuove regole di flessibilità in uscita. Con l’abolizione della reintegra nel posto di lavoro per i neo assunti e la previsione di un indennizzo predeterminabile in ragione dell’anzianità di servizio quale sanzione in caso di licenziamento, i lavoratori più anziani saranno più facilmente sostituibili con lavoratori giovani. Di conseguenza è facile ipotizzare un arresto della crescita dei salari in rapporto con l’età del lavoratore e con la produttività. Un lavoratore anziano pagato molto più della sua produttività rischierà sicuramente di essere licenziato. Non l’anziano di oggi, che è ancora protetto dal vecchio regime, ma quello di domani, che entra nel mercato del lavoro con le nuove regole.

La sensazione è quella di una forte marginalizzazione del diritto del lavoro nato come disciplina autonoma con una specifica funzione riequilibratrice del diverso potere delle parti,  in favore del diritto dell’impresa.

Nell’equilibrio del nuovo assetto contrattuale a tutele crescenti  si fa fatica a rintracciare la funzione, costituzionalmente protetta,  di protezione del soggetto debole del rapporto. L’implicazione della persona del lavoratore resta, infatti,  confinata alle ipotesi marginali di tutela in caso di licenziamento discriminatorio, nullo o privo di sussistenza del fatto materiale contestato.

In tutte le altre ipotesi il datore di lavoro avrà una obiettiva convenienza economica ad assumere un lavoratore subordinato a tempo indeterminato che potrà immediatamente licenziare, senza che sul costo del licenziamento illegittimo possa avere alcun peso la dignità, la professionalità, la personalità del lavoratore.

Ma con il Jobs Act cambia radicalmente anche l’impianto delle politiche del lavoro, volte non più alla tutela del posto di lavoro, ma orientate verso la tutela dell’occupazione in generale e del reddito in caso di disoccupazione con conseguente  necessità di un approccio moderno alle politiche pubbliche, fatto di progettualità, monitoraggio e formazione ed in maniera complementare è indispensabile stanziare risorse adeguate per finanziare politiche attive e passive. Ma è credibile promettere un sistema di flexicurity a spesa praticamente invariata? La flexicurity  va attivata nel suo insieme. Non ha senso, infatti, pensare di attuare la flexibility prima e la security poi.

La legge delega sul piano della sicurezza sociale si articola  in due direzioni:  “strumenti di tutela in costanza di rapporto di lavoro” e “strumenti di sostegno in caso di disoccupazione involontaria” e prevede l’armonizzazione dei sussidi di disoccupazione, la riorganizzazione delle politiche attive e la possibilità di un salario minimo legale. La sforzo del legislatore, sicuramente apprezzabile sul piano del linguaggio – gli ammortizzatori sociali  diventano categoria di sostegno del reddito- e sotto il profilo della semplificazione burocratica, non pare tuttavia raggiungere il desiderabile traguardo della effettiva universalizzazione dei trattamenti.

Non ostante l’esplicito intento espresso con la “universalizzazione del campo di applicazione dell’ASpI” é un legislatore timido quello che estende l’AspI ai lavoratori con contratto di collaborazione coordinata e continuativa, fino al suo superamento e prevede come solo “eventuale” l’“introduzione, dopo la fruizione dell’ASpI, di una prestazione eventualmente priva di copertura figurativa, limitata ai lavoratori, in disoccupazione involontaria, che presentino valori ridotti dell’indicatore della situazione economica equivalente” (art. 1, co. 2, lett. b, 5).

La legge delega e così il suo decreto  attuativo 4 marzo 2015, n. 22, hanno previsto una indennità mensile di disoccupazione, sostituiva delle precedenti ASpI e mini-ASpI denominata: «Nuova prestazione di Assicurazione Sociale per l’Impiego (NASpI)», avente la funzione di fornire una tutela di sostegno al reddito ai lavoratori con rapporto di lavoro subordinato che abbiano perduto involontariamente la propria occupazione,  una  Indennità  di disoccupazione per i lavoratori con rapporto di collaborazione coordinata e continuativa – DIS-COLL e un Assegno di disoccupazione – ASDI.

Si tratta tuttavia di misure condizionate ed a tempo determinato che non garantiscono alcuna tutela nel lungo periodo e soprattutto non soddisfano in alcun modo i requisiti di sicurezza correlati alla ormai attuata massima flessibilità in uscita.

In sostanziale continuità con la legge Fornero anche il Jobs Act tenta invano di contemperare la maggiore flessibilità in uscita con la modifica del sistema di sicurezza sociale nel tentativo di equilibrare l’obiettivo di flexsecurity che ha condizionato la legislazione degli stati comunitari degli ultimi anni.

Europa 2020 a che punto siamo?

Nel complesso impianto normativo manca però totalmente la previsione di uno degli elementi cruciali di equilibrio del sistema: l’istituzione del reddito minimo garantito, previsto dalle linee guida della Strategia europea 2020 ed ormai da tutti i modelli di welfare europei.

Solo la “prevista eliminazione dello stato di disoccupazione come requisito per l’accesso a servizi di carattere assistenziale” (art. 1, co. 2, lett. b, 6) si colloca in una prospettiva concretamente solidaristica utile a realizzare gli obiettivi che l’Europa si è posta entro il 2020 con la Strategia Europa 2020 varata nel 2010.

Nella sua comunicazione dal titolo “Europa 2020 – Una strategia per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva”, la Commissione propone di assegnare all’UE cinque grandi obiettivi, tra cui quello di ridurre di 20 milioni il numero di persone minacciate di povertà; ritiene che la povertà e l’esclusione sociale debbano essere debellate attraverso misure credibili, concrete e vincolanti; ritiene che tale obiettivo dovrà essere raggiunto mediante misure idonee e concrete, in particolare con l’introduzione di regimi di reddito minimo in tutti gli Stati membri.

Siamo a metà del percorso e l’Italia, secondo i dati  Istat di ottobre 2014 , è ancora ben lontana dal raggiungimento degli obiettivi. Il traguardo assegnato del tasso di occupazione (67-69%) è lontano: al momento ci fermiamo al 60,2%; gli investimenti in ricerca e sviluppo  presentano un notevole  divario con l’obiettivo prefissato (1,25% attuale contro 1,53%/Pil) e con riferimento alla lotta alla povertà e all’emarginazione  la crisi ha  notevolmente aggravato la situazione: a fronte di un obiettivo che prevede la riduzione di 2,2 milioni di individui a rischio povertà o esclusione sociale, il dato percentuale è peggiorato sensibilmente passando dal 23,8% del 2010 al 28,4% del 2013, il 12,6% delle famiglie è in povertà relativa e il 7,9% è in povertà assoluta.

Gli interventi normativi contenuti nella legge delega e nei primi due decreti attuativi, purtroppo, non sembrano sufficienti ad invertire la tendenza, soprattutto non sembrano adeguati a migliorare le condizioni di vita dei cittadini garantendo un’esistenza libera e dignitosa così come affermato nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, nelle disposizioni che regolano i diritti sociali della Carta dei diritti fondamentali dell’UE (Carta di Nizza)nelle raccomandazioni del Consiglio Europeo (raccomandazione 92/441/CEE, che riconosce “il diritto fondamentale della persona a risorse e a prestazioni sufficienti per vivere conformemente alla dignità umana”.

Un utile contributo, anche se non decisivo, può forse derivare dalla annunciata previsione del salario orario minimo. Una misura senz’altro idonea a migliorare le sorti dei cc.dd. working poors, ma che ancora una volta esclude i soggetti  incolpevolmente estranei al mercato del lavoro, che restano privi di ogni minima tutela.

L’affermazione dei principi cardini di uguaglianza sostanziale e di solidarietà (artt. 2 e 3 Cost.) consentono di impostare almeno per linee generali la questione della risposta alla crisi economica in maniera diversa: cominciando con il dare valore ai diritti fondamentali della persona. Adottare politiche che tentino di migliorare il contesto economico, dimenticando, se non acuendo la crisi sociale, non può che contribuire ad aumentare le disuguaglianze  garantendo solo ad  alcune categorie di privilegiati  il diritto all’inclusione sociale.

Economicamente è provato che i regimi di reddito minimo sono uno strumento importante per sostenere l’accesso al mercato del lavoro e svolgono un  importante ruolo di carattere anticiclico, soprattutto in tempi di crisi, fornendo risorse aggiuntive per rafforzare la domanda ed i consumi. Si parla spesso di numeri, di stime, di conti, ma l’esperienza europea ha dimostrato che il rafforzamento dei regimi di reddito minimo costituisce un elemento centrale nella lotta alla crisi in quanto gli investimenti di contrasto alla povertà apportano un contributo importante alla riduzione dei costi di lungo periodo per la società. Mentre  è riconosciuto che l’esclusione permanente di vaste parti della società indebolisce la competitività dell’economia.

Se non possiamo più difendere il posto di lavoro è fondamentale difendere la persona con un sussidio universale, aiutandola a riqualificarsi e rendendo anche  possibile che cambi  lavoro durante la vita.

Appare oggi sempre più necessario lottare contro un esempio di persona ridotta a homo economicus, in favore di un modello sociale fondato sulla solidarietà e sull’equilibrio tra valore della persona e PIL.

Una parte della moderna economia ha messo in evidenza la limitatezza e l’aridità di una definizione del  livello di sviluppo della società basata esclusivamente sulla consistenza del PIL. “Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell’ammassare senza fine beni terreni. Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow-Jones, né i successi del paese sulla base del prodotto interno lordo (PIL). Il PIL comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana.”(Robert Kennedy -18 marzo del 1968-discorso all’Università del Kansas)

L’obiettivo è di non considerare il PIL come l’unico metro di misura per valutare la ricchezza di un paese e della sua popolazione. Da sola, infatti, questa misura è incompleta: dice quanta ricchezza monetaria c’è all’interno di un territorio, ma non quanto benessere c’è fra i suoi abitanti. L’idea che il Pil non sia più l’unico strumento per misurare la vera ricchezza del paese impegna ormai da anni economisti governi e istituzioni internazionali nel tentativo di sperimentare e nuovi criteri capaci di dire quanto si viva bene in un territorio.

Recentemente anche l’Ocse si è dotata di nuovi strumenti per calcolare il livello di benessere dei Paesi Ue  e  ha elaborato un proprio indicatore di benessere, il Bli, acronimo di Better Life Index. L’indice Ocse è  basato su parametri diversi da consumi, investimenti ed esportazioni, e classifica i suoi trentaquattro paesi membri in base ad 11 criteri: abitazione, reddito, lavoro, partecipazione civile, istruzione, ambiente, amministrazione, salute, soddisfazione personale, sicurezza ed equilibrio tra lavoro e privato.

 In Italia  l’Istat  ha creato d’intesa con il Cnel un gruppo di indirizzo sulla misura del progresso della società italiana, composto da rappresentanze delle parti sociali e della società civile. L’obiettivo dichiarato è di costruire un approccio multidimensionale del benessere equo e sostenibile (Bes), che possa integrare il dato della ricchezza nazionale con altri parametri, fra cui le diseguaglianze (non solo di reddito) e la sostenibilità, non esclusivamente ambientale.

Stiamo vivendo una “decrescita infelice” in un continuo ripiegamento su noi stessi che oltrepassa i dati economici fino a raggiungere la paralisi della fiducia nel futuro. Forse è venuto veramente il momento di cambiare modello economico e di entrare finalmente nel XXI secolo.

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