Prima delle leggi regionali: dalla Commissione Onofri al reddito di ultima istanza.
La storia recente del reddito minimo (mancato) nel nostro paese prende avvio nel 1997, quando la «Commissione Onofri» (dal nome di colui che ne assunse la presidenza, anche se il nome esatto era «Commissione per l’analisi delle compatibilità macroeconomiche della spesa sociale») propose nella sua relazione finale di porre rimedio alla «grande anomalia della situazione italiana» in rapporto a quella esistente in tutti i paesi europei sviluppati, cioè all’assenza «di uno schema di reddito minimo per chi è totalmente sprovvisto di mezzi».
La Commissione proponeva di superare le varie misure assistenziali esistenti, aleatorie e discrezionali, in favore di un vero e proprio diritto soggettivo, certo nel suo ammontare e nella sua erogazione al verificarsi dei presupposti di legge. Per la sua istituzione si prevedeva il graduale assorbimento delle misure welfaristiche esistenti quali gli assegni sociali o le pensioni al minimo e di invalidità, che sarebbero state riversate nel finanziamento di un unico istituto universalistico e «di base».Il legislatore raccolse tali indicazioni, procedendo con l’approvazione del d.lgs. 237/1998 «all’introduzione, in talune aree, dell’istituto del reddito minimo di inserimento (Rmi)». Prese così avvio, per un periodo di quattro anni, la sperimentazione del Rmi, prevalentemente nelle aree del Mezzogiorno, in contesti per lo più abbastanza difficili e talvolta al limite del collasso (si pensi che in taluni comuni destinatari della sperimentazione addirittura il 90% della popolazione figurava tra i beneficiari del sussidio). La misura consisteva in una parte monetaria e in una parte tesa a ottenere l’attivazione dei beneficiari, con progetti personalizzati di inserimento sociale (offerte occupazionali, formative, riabilitative, eccetera).
Secondo il giudizio pressoché unanime degli osservatori quest’ultima parte del programma, tesa a ottenere l’attivazione dei soggetti, è quella che ha rivelato le maggiori criticità, a causa dell’incapacità degli enti pubblici di predisporre strumenti adeguati e credibili di reinserimento sociale dei beneficiari. Si ritiene comunemente che la causa di tale inadeguatezza sia da ascrivere alla dimensione troppo ristretta (quella comunale) prescelta dal legislatore per la gestione del programma, oltre che ovviamente alla difficilissima e talvolta estrema situazione sociale dei contesti in cui ha avuto luogo la sperimentazione1.In ogni caso la strada del Rmi sarà completamente abbandonata all’inizio della XIV Legislatura con l’insediamento di un nuovo governo non di centro-sinistra. La contrarietà del fronte politico moderato a qualsiasi ipotesi di reddito garantito non tarderà a manifestarsi. Il 5 luglio 2002 il Ministero del lavoro e del welfare firmerà assieme alle parti sociali (tra cui la Cisl e la Uil ma non la Cgil) il cosiddetto «Patto per l’Italia», con il quale, assieme al disegno di nuove figure contrattuali, che saranno poi oggetto di intervento legislativo con la legge delega 30/2003, si dichiarerà come ormai verificata «l’impraticabilità» di uno strumento normativo statale per l’individuazione della fasce di popolazione aventi diritto a entrare nella rete di assistenza sociale2. Si delinea in sostituzione al Rmi un nuovo strumento di «ultima istanza», da realizzare in cofinanziamento con risorse statali e con programmi regionali «finalizzati a garantire un reddito essenziale ai cittadini non assistiti da altre misure di integrazione del reddito».
L’amministrazione centrale si riserva in sostanza il ruolo di coordinamento tra i vari programmi e di monitoraggio dei risultati raggiunti.Tali intendimenti trovano poi conferma nel documento del Ministero del welfare del febbraio 2003 intitolato «Libro bianco sul welfare. Proposte per una società dinamica e solidale», oltre che nella legge finanziaria per l’anno 2004 (l. 350/2003) che all’art. 3,comma 101 prevede che «lo Stato concorre al finanziamento delle Regioni che istituiscono il reddito di ultima istanza quale strumento di accompagnamento economico ai programmi di reinserimento sociale».
La posizione della nuova maggioranza governativa appare incardinata su un triplice assunto, criticabile in tutti i suoi passaggi:1) la fine dichiarata della sperimentazione del Rmi non viene assunta quale momento di verifica per la messa a regime definitiva di uno strumento di protezione del reddito, bensì per la progettazione di un’ulteriore misura dal carattere sperimentale; le criticità e gli elementi di debolezza eventualmente ravvisabili nella fase di avvio del Rmi, in altri termini, non vengono tesaurizzati e superati con opportuni accorgimenti da riversare nella predisposizione di uno strumento normativo definitivo, si resta invece nell’ambito «dell’esperimento», dato che il nuovo «reddito di ultima istanza» ha tutta l’aria di dover essere nuovamente verificato sul campo, prima di solidificarne le caratteristiche, le modalità, i risultati attesi;2) la nuova misura di sostegno del reddito pare affidata alle (limitate) capacità di spesa e di intervento delle singole regioni, coadiuvate soltanto in via sussidiaria dalle risorse statali del Fondo per le politiche sociali. Pertanto appare completamente tralasciata la necessità di porre rimedio alle grandi disuguaglianze (anche) territoriali che caratterizzano il nostro paese;3) infine il nuovo strumento di sostegno del reddito non pare destinato a riorganizzare il sistema complessivo delle tutele sociali, come era negli intendimenti originari della Commissione Onofri.
Sembra al contrario un ulteriore programma da aggiungere ai vari e frammentari programmi già esistenti.A tutto ciò si aggiunga che i propositi dichiarati nel primo scorcio della XIV Legislatura non saranno comunque tradotti in realtà negli anni successivi, sicché si determinerà una stasi totale, anche per quanto riguarda l’implementazione della ipotetica misura «di ultima istanza».La stagione delle leggi regionaliIn tale contesto, di abbandono dell’esperienza del Rmi e di completa inerzia da parte del governo quanto alla predisposizione dei nuovi strumenti, si colloca l’iniziativa di molte regioni. Quasi tutte inseriranno la previsione (con varie denominazioni) di una qualche forma di tutela del reddito nell’ambito di leggi organiche sull’assistenza sociale. Per esempio la legge 12 marzo 2003, n. 2 della Regione Emilia Romagna stabilisce all’art. 13 che «nell’ambito degli interventi e dei servizi del sistema locale, la Regione, con proprio atto, incentiva programmi per la sperimentazione del reddito minimo di inserimento». Similmente la legge 23 dicembre 2005, n. 23 della Regione Sardegna prevede all’art. 33 l’istituzione di un «reddito di cittadinanza, quale forma specifica di intervento contro l’esclusione sociale e la povertà».
Il Friuli Venezia Giulia sperimentò (per un solo anno, stante il congelamento dei fondi dopo la sconfitta elettorale del centro-sinistra) una forma di «reddito di base» (art. 59, legge regionale 31 marzo 2006, n. 6 di istituzione del «sistema integrato di interventi e servizi per la promozione e la tutela dei diritti di cittadinanza sociale») composta di un’erogazione monetaria oltre che di «servizi e prestazioni», destinati su base individuale ai residenti in condizioni di povertà o di esclusione sociale, dietro assunzione di specifici obblighi di attivazione.Tra le varie esperienze, tutte connotate da un impegno finanziario piuttosto esiguo e da una sostanziale assenza di investimento in termini di strategia politica, si differenzia quella della Regione Campania, la cui L. 19 febbraio 2004, n. 2 di «istituzione in via sperimentale del reddito di cittadinanza» resterà in funzione per molti anni. Con l’espressione «reddito di cittadinanza» si intende qui un’erogazione pensata per alleviare le forme più estreme di deprivazione e di emarginazione sociale, destinata ai nuclei familiari più poveri, dietroistanza di questi ultimi, e secondo graduatorie da stilare anno per anno in base alle domande pervenute e ai margini di bilancio disponibili. La somma massima erogabile su base familiare era di 350 euro mensili.
Questa esperienza appare ormai in via dismissione in seguito alle elezioni della primavera 2010, che hanno determinato un avvicendamento nella guida politica della giunta regionale: le prime dichiarazioni del nuovo assessore alle politiche sociali hanno chiarito che la situazione finanziaria della Regione «non consente il protrarsi di un sussidio fine a se stesso». Piuttosto verrà pensata «una seria politica di welfare, fatta di […] interventi mirati all’inserimento lavorativo dei soggetti in stato di indigenza». Quali che saranno gli interventi per il futuro, l’unico punto fermo rimane (similmente a quanto accaduto per il Rmi) la cancellazione radicale di quanto fin qui andava sotto il nome di «reddito di cittadinanza». Addirittura risulta ormai irraggiungibile dal web il sito istituzionale www.redditodicittadinanza.it, che raccoglieva fino a poco tempo addietro un’informazione completa sugli esiti e sulla consistenza della sperimentazione. Insomma, l’indicazione è chiara: dell’esperienza di tutela del reddito fin qui condotta in Campania, della sue ombre così come delle sue luci, dovrà scomparire persino il ricordo.Sulla stessa linea di intervento dell’esperienza campana si colloca la legge 19 gennaio 2005, n. 3 di «promozione della cittadinanza solidale», introdotta dalla Regione Basilicata. In questo caso l’erogazione del sussidio in termini monetari (su base familiare) appare subordinata alla sottoscrizione di un contratto di inserimento, mediante il quale il beneficiario si impegna a partecipare a programmi di inclusione sociale o lavorativa, e a fornire la propria disponibilità immediata allo svolgimento di attività lavorative. Comunque secondo l’architettura dell’intervento normativo la mancata ottemperanza agli obblighi sottoscritti con il contratto di inserimento non comporta la revoca del sostegno economico, essendo consentito ai comuni (preposti all’attuazione del programma) soltanto di ridurre o di sospendere, anche gradualmente, l’ammontare del sussidio monetario. La giunta ha messo a disposizione circa 41 milioni di euro annui per il finanziamento della misura, che ha così potuto raggiungere circa 4.000 beneficiari a fronte di quasi 10.000 richiedenti, tutti comunque in possesso dei requisiti di legge.Nel panorama fin qui descritto si segnala come momento di potenziale innovazione l’iniziativa della Regione Lazio confluita nella legge 20 marzo 2009, n. 4 di «istituzione del reddito minimo garantito. Sostegno al reddito in favore dei disoccupati, inoccupati o precariamente occupati». Si ha qui per la prima volta il riconoscimento della necessità di tutela da parte dei soggetti «precariamente occupati», cioè dei milioni di giovani e meno giovani che, divisi tra contratti a progetto, collaborazioni occasionali, periodi di disoccupazione involontaria, stage formativi, esperienze lavorative mal remunerate, pur se inseriti compiutamente nel ciclo produttivo (e anzi spesso nelle punte più avanzate e moderne dell’economia capitalistica) rischiano concretamente di scivolare verso l’esclusione sociale. Entra dunque sulla scena per la prima volta nella storia delle politiche sociali del nostro paese il grande tema dei working poor, cioè di quel circa 10% di forza lavoro che vive al di sotto della soglia di povertà: si tratta di un segmento sociale da tempo in difficoltà, che pur trovandosi al di fuori dei casi di povertà «conclamata», vive comunque in prima persona il progressivo sgretolamento delle garanzie tradizionali che costituivano il nucleo forte della cittadinanza sociale.L’attenzione rivolta dalla Regione Lazio alla centralità politica dell’emersione del precariato, spiega alcune discontinuità contenute nella sua legge sul «reddito minimo garantito», rendendola un caso di studio assolutamente interessante, anche in vista di una sua eventuale generalizzazione a tutto il territorio nazionale. Se, infatti, gli altri strumenti normativi regionali di tutela del reddito risultano (o risultavano) destinati a fronteggiare le situazioni di povertà e di maggior disagio, l’orientamento laziale è nel senso di coinvolgere nei programmi di sostegno anche soggetti semplicemente «a rischio», pur se inseriti e attivi nel mercato del lavoro, e anche se titolari di redditi (bassi ma) non minimi. Laddove lealtre leggi prevedono tutte dei programmi di inserimento sociale, questo non avviene nel caso laziale poiché si postula qui che il soggetto beneficiario, in quanto lavoratore precario, è già sufficientemente e autonomamente inserito del contesto sociale e lavorativo. Mentre nelle altre previsioni l’erogazione è su base familiare, nel caso laziale il sostegno viene assegnato su base individuale, poiché ogni singolo soggetto deve poter trovare adeguate forme di garanzia nei momenti di transizione o di difficoltà della propria carriera lavorativa.
E inoltre mentre tutte le altre ipotesi normative (eccezion fatta per il caso lucano) prevedono rigidi sistemi di decadenza dai benefici in caso di mancata accettazione delle proposte di impiego, la legge della Regione Lazio configura un meccanismo di decadenza decisamente peculiare: il beneficiario ha facoltà di non accettare quelle offerte di impiego che non siano coerenti con la professionalità pregressa e con le competenze formali o informali di cui risulti in possesso. Il legislatore regionale si mostra così consapevole della possibile induzione che obblighi di attivazione troppo stringenti potrebbero determinare, ad accettare impieghi di basso profilo, poco remunerati, de-professionalizzanti, pur di non perdere la (magra) integrazione del reddito rappresentata dal sussidio (analoga consapevolezza, come si dirà meglio più avanti, emerge dai più recenti documenti comunitari in tema di garanzia del reddito).Da ultimo va segnalata un’ulteriore caratteristica dell’intervento laziale, di non poco rilievo e anche qui in discontinuità con quanto avvenuto precedentemente, rappresentata dalla sua volontà di «istituire» in modo definitivo una misura di reddito minimo, superando una volta per tutte la stagione delle «sperimentazioni», che certo si è protratta nel nostro paese sin troppo a lungo, fungendo ormai da vero e proprio alibi per una classe politica incapace di percorrere con la decisione dovuta la strada ineludibile di una riforma da troppo tempo attesa.Fatte queste osservazioni, occorre comunque segnalare come il percorso delineato dall’approvazione della legge 4/2009 risulti già collocato su un binario morto prima ancora di partire seriamente, poiché dapprima l’esiguità delle risorse stanziate (40 milioni l’anno) e poi l’immediata cancellazione di quel poco che era stato previsto da parte della nuova presidente della giunta di centro-destra, hanno riproposto di fatto la logica delle graduatorie e della sperimentazione provvisoria che abbiamo visto all’opera negli altri strumenti legislativi regionali.Bilancio critico e prospettive per guardare avantiIl tratto di strada compiuto ci consente oggi di stilare un bilancio dei risultati e delle potenzialità insite negli interventi regionali in tema di reddito minimo3. La sperimentazione ha contribuito in primo luogo a determinare l’emersione di un bisogno di tutela che sarebbe altrimenti rimasto inespresso; ovunque il numero delle richieste è stato significativamente superiore alle erogazioni concesse, fino al caso limite del Lazio in cui risultano pervenute oltre centomila domande (solo poche migliaia saranno quelle accolte), nonostante i regolamenti attuativi abbiano ristretto la platea dei beneficiari ai soli soggetti di età compresa tra i 30 e i 44 anni. Questo dato è il sintomo tangibile di una crisi sociale misconosciuta, che la rappresentanza politica ufficiale non è stata fin qui in grado di intercettare e men che meno di affrontare e risolvere. Anche grazie all’occasione fornita dallo strumento normativo una nuova domanda di protezione si è fatta largo nella sfera pubblica, un nuovo bisogno di tutela ha preso corpo, superando il livello della frammentazione e raggiungendo consistenza politica: si tratta senza dubbio di un segnale promettente e gravido di sviluppi possibili.Un secondo elemento positivo degli interventi regionali è rappresentato dall’apporto «scientifico» che essi hanno in parte fornito alla conoscenza del fenomeno delle nuove povertà; ed esempio in Friuli Venezia Giulia è emerso che il 20% dei beneficiari era titolare di un rapporto lavorativo, mentre lo stesso accadeva nella Provincia autonoma di Bolzanoper il 23,8% dei soggetti. Se ne deve concludere che le trasformazioni degli ultimi decenni nel mercato del lavoro stanno determinando rischi inediti di esclusione sociale, soprattutto tra quei lavoratori che a causa della discontinuità della carriera lavorativa sono esclusi dagli ammortizzatori sociali tradizionali.Infine la stagione delle leggi regionali rappresenta un bagaglio di conoscenze tecniche, dal punto di vista politico e tecnico-giuridico, per una migliore focalizzazione dei punti salienti del dibattito in tema di reddito garantito; oggi infatti più di ieri si può discutere sensatamente e forti di un’esperienza pregressa di questioni cruciali per la definizione dei vari «modelli» di reddito minimo, quali l’individuazione della platea dei beneficiari e le relative soglie di accesso, l’ammontare dei contributi monetari, la loro articolazione con i servizi da fornire sul territorio, le condizioni di decadenza e gli obblighi di attivazione, i compiti specifici dei vari livelli istituzionali, eccetera4. L’esperienza compiuta, nonostante le sue criticità, non sarà dunque trascorsa invano.Il giudizio però di segno complessivamente negativo sulla stagione, ormai in via di esaurimento, delle leggi regionali sul reddito minimo dipende in modo determinante dai risultati scarsi in concreto raggiunti sul piano dell’efficacia nel condurre la lotta all’esclusione sociale. A causa, infatti, di inefficienze strutturali nell’architettura di sistema e in ragione dell’esiguità degli impegni finanziari, non si può certo dire che si sia di molto superata la vecchia logica delle misure una tantum e delle elargizioni discrezionali secondo la sensibilità dei servizi sociali o, peggio, secondo gli interessi delle reti clientelari. In nessuno dei contesti regionali considerati si è addivenuti alla chiara enunciazione del diritto soggettivo al reddito minimo, consistente nella garanzia intangibile dei mezzi di sussistenza per tutti i disoccupati e per coloro che, pur lavorando, si trovano al sotto di una determinata soglia di reddito; oppure dove ciò è avvenuto (come nella Regione Lazio) non si sono poi stanziate le risorse di bilancio che avrebbero consentito l’azionabilità di una tale affermazione di diritto. I sussidi regionali non hanno in alcun caso contribuito a superare l’atavica frammentazione del welfare italiano, né hanno concorso alla prefigurazione di un possibile accorpamento delle risorse, si sono al contrario «accomodati» all’interno del sistema vigente, configurando l’ennesimo bonus particolare, dispersivo e incapace di fronteggiare realmente le questioni sociali evocate a propria giustificazione.La lezione ultima che possiamo trarre dalla stagione delle leggi regionali sul reddito minimo sta nella riconferma della necessità di una legge statale, eventualmente integrata da interventi regionali (e locali in senso ampio) aggiuntivi, soprattutto mediante l’erogazione in natura di beni e servizi. L’architrave costituzionale dell’intervento legislativo a venire non potrà che essere l’art. 117, comma 2, lettera m Cost., secondo il quale, come è noto, spetta alla potestà statale «la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale». Si tratta di un dato normativo che legittima di per sé e anzi probabilmente esige un intervento statale in tema di reddito minimo, tanto più se si legge la disposizione citata in combinazione con le previsioni costituzionali in tema di dignità della persona (art. 2), uguaglianza (art. 3), sufficienza della retribuzione (art. 36), previdenza sociale (art. 38). D’altro canto se l’esigenza di fondo è quella di dare vita finalmente a una misura universalistica di sostegno del reddito, svincolata dalle condizioni concrete di vita del singolo e indipendente dalla sua qualità di volta in volta di lavoratore, di disoccupato, di disabile, di anziano, allora è evidente che un tale obiettivo potrà essere raggiunto solo mediante una generale riorganizzazione delle misure welfaristiche esistenti, già appannaggio della competenza statale, quali gli assegni familiari, le prestazioni di invalidità, l’assegno sociale, eccetera.Cosa resterebbe, all’esito di questa riorganizzazione, alla competenza regionale? Le regioni in primo luogo potrebbero erogare tutto quanto eccede i «livelli essenziali» garantitidallo stato, sia come intensità della redistribuzione sia come estensione della platea dei beneficiari. Esse inoltre, eventualmente in sinergia con i Centri per l’impiego o con i comuni, dovrebbero gestire tutti gli addentellati amministrativi della misura, compresi gli eventuali programmi di attivazione da proporre ai beneficiari. Infine gli enti regionali, proprio dell’ottica della sussidiarietà, potrebbero ben concentrare i propri interventi sulle forme di «reddito indiretto», cioè sulla garanzia di quei servizi necessari e primari, che attengono spesso al campo della loro competenza esclusiva. Per esempio le regioni hanno potestà piena in tema di edilizia residenziale pubblica, sia quanto alla programmazione delle risorse finanziarie sia quanto alla fissazione dei criteri per l’assegnazione degli alloggi. Per quanto attiene ai trasporti, fatta eccezione per le lunghe percorrenze, è affidata alle regioni (e in genere agli enti locali) la programmazione e la gestione, per esempio, di tutte le reti di trasporto normalmente utilizzate dai pendolari: è ipotizzabile un intervento incisivo in tale ambito in favore di una platea determinata di soggetti, anche eventualmente modulando in tal senso le convenzioni che solitamente vengono stipulate con le aziende (sovente monopoliste) che erogano i servizi di trasporto. E ancora in tema di formazione o di sanità è nota a tutta l’incisività dei poteri regionali, anche quanto all’imposizione di tariffe per l’accesso alle varie prestazioni.Si delinea così un’auspicabile e possibile attuazione del reddito garantito nel nostro paese, basato, a seguito di una complessiva e accorta riorganizzazione del welfare esistente, su un investimento sostanziale di risorse da parte dello stato, integrato a livello locale (e prioritariamente regionale) con risorse aggiuntive, per la garanzia soprattutto di diritti sociali nient’affatto secondari, quali l’alloggio, la sanità, l’istruzione, la mobilità.
Un simile assetto normativo potrebbe poi trovare una peculiare forma di garanzia sopranazionale (da intendere, secondo i casi, quale elemento di stimolo prima della sua attuazione e quale sua indiretta «costituzionalizzazione» una volta messo a regime) grazie all’Europa, dove la parola d’ordine del «reddito minimo garantito» trova sempre più riscontri5. A cominciare dall’importante riconoscimento contenuto nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea firmata a Nizza, in cui risulta (all’art. 34) uno stretto legame tra diritto al reddito, diritto all’assistenza abitativa e dignità della persona, passando per le linee guida diffuse dalla Commissione in tema di flexicurity, fino ad arrivare soprattutto alle ripetute prese di posizioni del Parlamento europeo6, si può certo riconoscere come in ambito comunitario si stiano aprendo orizzonti innovativi, che rappresenterebbero un’enorme boccata d’ossigeno per il contesto asfittico in cui sembrano muoversi le politiche sociali del nostro paese.Certo si tratta fino a ora di testi normativi non vincolanti, che non potrebbero determinare l’apertura sic et simpliciter di una procedura di infrazione in caso di inottemperanza.
Va però segnalata la possibilità di una futura direttiva quadro, che impegnerebbe a questo punto in modo formale gli stati membri. Per sollecitare un tale esito (che appare avversato al Parlamento europeo dai gruppi politici di centro) il Bin-Italia guarda con particolare interesse ai nuovi strumenti che il Trattato di Lisbona (in vigore da dicembre 2009) ha messo a disposizioni della cittadinanza e in particolare alla possibilità di rivolgere petizioni popolari, affinché gli organi comunitari prendano iniziative di tipo legislativo nelle materie rientranti nelle loro competenze. A partire dai prossimi mesi (e forse già dalla fine dell’anno), quando saranno a disposizione gli strumenti attuativi, sarà possibile procedere alla raccolta di un milione di firme su tutto il continente europeo, per indurre parlamento e commissione a prendere chiara e aperta posizione su alcuni temi sociali, primo fra tutti quello della tutela dei mezzi di sussistenza7. Le organizzazioni della società civile potrebbero così offrire il loro tangibile contributo «dal basso» per rivitalizzare in senso sociale la costruzione comunitaria e per introdurre nuovi standard condivisi di civiltà e di rispetto della dignità umana.
note
1 Per una storia e una valutazione del Rmi si vedano S. Sacchi, Reddito minimo e politiche di contrasto alla povertà in Italia, Urge Working paper, Torino 2005, oppure E. Ranci Ortigosa, «Il reddito minimo di inserimento», in L. Guerzoni (a cura di), La riforma del welfare. Dieci anni dopo la «Commissione Onofri», Il Mulino, Bologna 2008.
2 A dispetto della critica tranchant al Rmi contenuta nel «Patto per l’Italia» e nei successivi documenti governativi, occorrerà attendere ancora molti anni per una valutazione ufficiale (e ben più sfumata) dei risultati effettivamente raggiunti; si veda il rapporto del giugno 2007 presentato al Parlamento dal Ministero della solidarietà sociale, Attuazione e sperimentazione del Reddito minimo garantito e risultati conseguiti.
3 Le valutazioni di seguito annotate non tengono conto di quanto si sta ancora muovendo in ambito regionale, e segnatamente in Liguria, dove ha preso avvio una campagna per una legge di iniziativa popolare, in Emilia Romagna, dove è in corso da mesi una mobilitazione del basso molto efficace a livello comunicativo, e nelle Marche, in cui vengono condotti studi preliminari. La solidificazione di questi percorsi potrebbe ovviamente determinare un cambio di prospettiva.
4 La discussione pragmatica di tutti questi nodi ha probabilmente contribuito a determinare quella «fluidificazione» del dibattito su cui insiste molto Cristina Tajani nei suoi articoli pubblicati sul sito www.bin-italia.org.
5 Per una disamina puntuale dell’argomento si veda l’intervento di G. Bronzini in questo stesso Quaderno.
6 L’ultima in ordine di tempo e la più importante per la chiarezza della presa di posizione è la risoluzione sul «ruolo del reddito minimo nella lotta contro la povertà e la promozione di un società inclusiva in Europa» dell’ottobre scorso.
7 Si veda per un approfondimento G. Allegri, La partecipazione democratica dopo Lisbona, sul sito www.bin-italia.org.