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Lavoro e sostegno al reddito dei poveri. Alcune tensioni trascurate.

di Elena Granaglia

Elena Granaglia prendendo posizione contro la diffusa opinione che solo una forte attenzione al lavoro possa contrastare le altrimenti inevitabili degenerazioni dei sistemi di reddito minimo, porta l’attenzione sulla complessità del rapporto fra lavoro e sostegno al reddito dei poveri e sostiene che quanto il governo in carica sta prospettando in materia di regolazione di tale rapporto mette a repentaglio la dignità dei poveri e del lavoro, a dispetto della nostra Costituzione.
È opinione diffusa che solo una forte attenzione al lavoro possa contrastare le altrimenti inevitabili degenerazioni assistenzialistiche e parassitarie delle politiche di sostegno al reddito dei poveri. Secondo questa opinione, i trasferimenti monetari non solo non dovrebbero mai disincentivare il lavoro, ma dovrebbero sempre e comunque prevedere obblighi lavorativi o, di più una complessiva attivazione. Vale a dire, lungi dall’essere garantito in caso di bisogno, il reddito minimo dovrebbe essere condizionato ai comportamenti dei beneficiari. Nonostante l’apparente sensatezza, le questioni sono, tuttavia, assai più complesse di quanto possa a prima vista apparire.
Da un lato, incentivare il lavoro non è sempre buona cosa. Farlo abbassando le protezioni contro la povertà pone diversi rischi sia ai poveri sia ai lavoratori a bassa retribuzione e potrebbe anche mettere a repentaglio il valore del lavoro. I trasferimenti contro la povertà fungono da salario di riserva, inteso come il salario minimo richiesto per accettare una determinata occupazione. Minore è il sostegno al reddito e più restrittive sono le condizioni per goderne, minore è il salario di riserva. Un basso salario di riserva implica che i poveri sono, di fatto, obbligati a accettare qualsiasi lavoro per sopperire all’insufficienza delle protezioni. Ed implica, altresì, una generale svalutazione del lavoro, grazie alla disponibilità di un’ampia offerta a basso costo. Certo, un salario minimo potrebbe aiutare, ma proprio la presenza di tale ampia offerta ostacola la possibilità di fissare il salario minimo a un livello decente. Rimangono, in ogni caso, inevitabili i rischi di lavoro irregolare e di sfruttamento attraverso, ad esempio, la determinazione degli orari di lavoro e delle modalità produttive.
Dall’altro lato, la condizionalità al lavoro/alla più complessiva attivazione comporta anche il rischio della messa a repentaglio della natura di diritto dell’accesso a un reddito minimo. Ciò che contraddistingue i diritti è, infatti, la loro non contrattabilità. Ricordo come “un minimo di benessere economico” fosse la prima componente dei diritti sociali di cittadinanza secondo T.H. Marshall.
Seppure presenti in molti paesi europei, questi rischi oggi sono particolarmente elevati nel nostro paese. La legge di bilancio per il 2023 ha limitato a sette mesi il reddito di cittadinanza per gli “occupabili”, bizzarramente individuati nei soggetti in età fra i 18 e i 59 anni, senza minori a carico o disabili in famiglia. La bizzarria deriva dalla centralità attribuita alla composizione familiare anziché, come tipicamente avviene, alla distanza dei singoli individui dal mercato del lavoro. In questi sette mesi, inoltre, tutti gli occupabili devono essere inseriti, per un periodo di sei mesi, in un corso di formazione e/o riqualificazione professionale (pena il decadimento della prestazione) che li avvii al lavoro e tutti i percettori del Reddito di cittadinanza devono essere impiegati in progetti utili alla collettività per un periodo di 8-16 ore (non più solo un terzo, come previsto dalla legge istitutiva del Reddito di Cittadinanza).
Continuando la strada intrapresa dal Governo Draghi, i criteri di revoca del reddito sono altresì diventati più stringenti. Il governo Draghi aveva ridimensionato le disposizioni del Reddito di Cittadinanza che originariamente prevedevano tre possibilità di rifiuto di un’offerta di lavoro congrua prima di perdere il reddito. La congruità, a sua volta, era definita sulla base delle competenze del beneficiario, della presenza di una retribuzione superiore del 20% rispetto a quanto percepito dal RdC e una localizzazione dell’offerta di lavoro entro determinate distanze. Nel caso della prima offerta, la distanza non avrebbe dovuto superare 80 Km dalla residenza del beneficiario o i 100 minuti di viaggio con il trasporto pubblico. Le distanze potevano aumentare successivamente fino a riguardare l’intero territorio nazionale alla terza offerta. Il Governo Draghi aveva ridotto a due le possibilità di rifiutare un’offerta di lavoro. La prima offerta, a tempo pieno e indeterminato o anche a tempo parziale e determinato, avrebbe dovuto essere a 80 km da casa (100 minuti di trasporto pubblico). La seconda, solo a tempo pieno e indeterminato, avrebbe potuto riguardare tutto il paese. Chi avesse rifiutato la prima offerta avrebbe avuto una decurtazione del reddito di cittadinanza di 5 euro ogni mese. Chi avesse rifiutato la seconda, avrebbe perso il diritto al reddito. Oggi, Il reddito è revocato se non si accetta la prima offerta di lavoro e non si fa alcun riferimento alla congruità. La legge di bilancio ha altresì introdotto il divieto di percepire il reddito di cittadinanza per i giovani che non abbiamo assolto l’obbligo scolastico.
Per il 2024, le anticipazioni fino a pochi giorni fa disponibili ci dicevano che il Reddito di Cittadinanza sarebbe stato sostituito, non più dalla Misura di Inclusione Attiva (MIA), ma dalla Garanzia di attivazione lavorativa (GAL) per gli occupabili, sempre nell’accezione sopra indicata, e dalla Garanzia di inclusione lavorativa (GIL) per tutti gli altri poveri.
Appoggiandomi all’utile schema di Baldini e Pacifico, la GAL prevedeva una soglia ISEE pari a 6000 euro e un sussidio di 350 euro al mese, godibile al massimo per dodici mesi, senza possibilità di rinnovo e senza alcun contributo per le spese per l’abitazione. Qualora il nucleo familiare fosse composto da un altro occupabile, quest’ultimo avrebbe potuto fruire di un sussidio di 175 euro al mese. Per i beneficiari della GIL, la soglia era 7200 euro, il trasferimento 500 euro (moltiplicato per la scala di equivalenza) e la durata 18 mesi, con possibilità di rinnovo per tutto il tempo di sussistenza in condizioni di povertà, previa interruzione di un mese. Erano altresì previsti sussidi per le spese per l’abitazione.
Sia la GIL sia la GAL prevedevano, inoltre, un forte incremento della condizionalità al lavoro. I beneficiari della GIL riconosciuti abili al lavoro da parte dei servizi sociali avrebbero dovuto essere inviati ai Centri per l’Impiego. Sarebbero poi stati considerati automaticamente occupabili eventuali figli maggiorenni, che, peraltro, neppure erano presi in considerazione nell’applicazione delle scale di equivalenza, come se la loro presenza non influenzasse le condizioni di povertà di una famiglia.
Quando convocati, i beneficiari della GAL e gli abili al lavoro beneficiari della GIL avrebbero dovuto presentarsi ai centri per l’impiego per redigere e firmare il patto di attivazione finalizzato a definire il percorso di formazione/acquisizione di competenze da seguire. Avrebbero dovuto poi accettare qualsiasi offerta di lavoro, a prescindere dalla sua localizzazione (può riguardare, cioè, tutto il territorio nazionale), dalla tipologia di contratto (a tempo indeterminato oppure determinato o anche in somministrazione), purché con una durata non inferiore a un mese, una retribuzione non inferiore ai minimi salariali previsti dai contratti nazionali e un orario di lavoro pari ad almeno il 60% del tempo pieno. La non osservanza di una qualsiasi delle condizioni indicate, anche da parte di un solo componente del nucleo, avrebbe comportato la revoca del beneficio per tutto il nucleo. Il beneficio sarebbe stato, altresì, revocato qualora servizi e centri per l’impiego non rispettassero le scadenze temporali fissate per convocare i beneficiari dei trasferimenti.
È novità recente che i nomi cambieranno ancora una volta. La GIL sarà sostituita dall’Assegno di inclusione. Nel merito, la sostanza rimane, tuttavia, la stessa della GIL e il lavoro verrà ulteriormente precarizzato a seguito dell’allentamento previste delle norme sui rapporti di lavoro a tempo determinato. In presenza di un contrasto fra chi vorrebbe del tutto abolire il sussidio per gli occupabili e chi, invece, ridurlo, il destino della GAL o di misura equivalente resta, invece, incerto.
Nonostante alcune carenze cui era necessario rimediare, il Reddito di Cittadinanza ci aveva finalmente fatto fare un grosso passo avanti nel riconoscere la povertà come un’ingiustizia incompatibile con i diritti di cittadinanza. I cambiamenti prospettati ci fanno ripiombare in un mondo in cui la povertà è sempre e comunque una colpa personale, non importa se tutti i dati ci dicono che gli occupabili sono in misura preponderante residenti in aree del paese dove la domanda di lavoro è insufficiente, hanno un titolo di studio molto basso, sono da tempo lontani dal mercato del lavoro e provengono da famiglie povere. Tutte circostanze che segnalano, semmai, una responsabilità collettiva nella mancata realizzazione dell’uguaglianza di opportunità. Nel nuovo mondo, è da difendere qualsiasi lavoro, anche il più irregolare e mal pagato, un lavoro che obbliga a muoversi da un capo all’altro della penisola, con uno stipendio inferiore ai 1000 euro, trascurando totalmente il costo della vita e della casa. Non a caso, chi si oppone al reddito di cittadinanza fa spesso leva sulla sostanziale equiparazione fra lavoro regolare e lavoro irregolare e sulle difficoltà dei datori di lavoro a trovare manodopera offrendo una bassa retribuzione.
E c’è di più. Per la prima volta, i poveri sono responsabili anche delle eventuali carenze nella gestione della misura stessa. Torniamo a quanto sopra indicato circa la revoca del sussidio qualora i servizi e centri per l’impiego non rispettassero le scadenze temporali fissate per convocare i beneficiari dei trasferimenti. Ebbene i tempi prospettati dall’Assegno di inclusione sono 120 giorni dalla sottoscrizione del patto di iscrizione digitaleper quanto concerne i servizi e 60 giorni dal momento in cui i servizi inviano ai centri per l’impiego. Peccato che, per ottemperare tali obblighi, i beneficiari debbano essere convocati e, come ricorda Saraceno, ”solo la metà dei centri per l’impiego risulta in condizione di convocare entro i 30 giorni prescritti dalla norma i beneficiari della misura, che pure è solo il primo passo cui dovrebbero seguirne altri più concreti. Secondo i beneficiari intervistati da Inapp i tempi possono essere anche molto più lunghi, in media quasi 8 mesi prima di essere chiamati dai servizi. E Il 42 per cento dei beneficiari Rdc intervistati era ancora in attesa di essere convocato vuoi al centro per l’impiego”. Che i poveri abbiano anche la colpa del malfunzionamento dei servizi non si era mai visto.
Sembra che non abbiamo una Costituzione che nell’ art.3 recita: “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” e nell’art. 36: “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.
Come impostare allora il rapporto fra sostegno al reddito per i poveri e lavoro secondo modalità che prendano sul serio diritto a una base di reddito? Nel prossimo numero del Menabò cercherò di offrire una possibile risposta a questa domanda.

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