Lavoro domestico non retribuito, precarietà crescente, inadeguata conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, ricatto delle dimissioni in bianco, età pensionabile sempre troppo alta, tetto di cristallo lontano dall’essere davvero spezzato. Sono tantissime le difficoltà che toccano da vicino le vite lavorative delle donne, in quel complesso via vai di esistenze tra lavoro fuori casa e lavoro in ambito famigliare, tra desiderio di maternità e necessità spesso di rimandare la scelta alle calende greche.
Nonostante leggi e regole che sul piano formale riconoscono pari diritti, infatti, nel lavoro sono le donne a dover sopportare maggiori sacrifici in termini di libertà e di riconoscimento dei diritti e restano le donne i soggetti più vulnerabili e ricattabili. Sul piano della competizione tra i singoli individui messi al lavoro – donne e uomini – il post patriarcato neoliberista opera l’inclusione differenziale di partenza a danno delle donne e le colpisce più duramente in un gioco perverso creato dai dispositivi di mercato che alimentano processi di de-soggettivazione delle donne e di loro riduzione a mera risorsa del mercato.
Il fattore D come donna, esaltato da stampa e ambienti del management aziendale, ha significato soprattutto la sussunzione come regola del lavoro per tutte e tutti dell’attitudine all’oblatività che le donne portano in dote dalla loro secolare storia di lavoro di cura e accudimento della propria famiglia.
In questi anni il Parlamento italiano ha perso l’occasione per avviare una grande riforma che eliminasse le contraddizioni e le diseguaglianze e, anzi, ha avallato politiche di disconoscimento e svalorizzazione del lavoro femminile, prevedendo l’innalzamento dell’età pensionabile alle donne, in seguito alla procedura d’infrazione avviata dall’Unione europea nei confronti dell’Italia. Rispondendo cioè con una misura di uguaglianza puramente convenzionale in un contesto, pubblico e familiare, che invece dovrebbe tenere conto delle enormi differenze tra uomini e donne.
Il conflitto tra produzione e riproduzione che ha escluso per un lunghissimo periodo le donne dalla sfera pubblica è accompagnato oggi da un’altra contraddizione che non riguarda solo il processo di emancipazione femminile ma è anche il fulcro di quest’epoca che definiamo di “capitalismo cognitivo”. Capacità di rapida comunicazione da parte dell’azienda, obbligo di disponibilità e reperibilità assoluta, indistinzione tra tempi di vita-lavoro, flessibilità, ricattabilità: sono queste le caratteristiche che si richiedono al lavoro “femminile” incarnando il paradigma della precarietà. Il fenomeno della femminilizzazione del lavoro non indica esclusivamente gli aspetti quantitativi dell’ingresso delle donne nel mercato del lavoro – in certi casi massicci – ma anche quelli qualitativi. Femminilizzazione del lavoro significa messa a valore delle attitudini di disponibilità estrema che le donne sanno avere per l’accudimento e la cura dei propri cari, di multiforme capacità di svolgere contemporaneamente molte funzioni. Ci troviamo dinnanzi a un paradigma di sfruttamento che si sta estendendo a tutti, donne e uomini.
Eppure questa femminilizzazione del lavoro non cancella la perdurante divisione sessuale del lavoro nell’ambito domestico, dove sono ancora le donne a farsi carico della maggior parte di incombenze e obblighi, né a cancellare lo stereotipo secondo cui le donne sarebbero più adatte svolgere attività professionali dove siano richieste qualità più vicine a quelle tipiche del lavoro di cura, come appunto la disponibilità incondizionata. Una condizione di disponibilità che viene considerata legata alla funzione riproduttiva, innata alla natura dell’essere donna. Insomma siamo di fronte a una pesante eredità dei dispositivi performativi e del simbolico del patriarcato che, sconfitto, ricompare in nuove forme di patriarcalismi. La divisione per generi del lavoro domestico, di cura e di accudimento, soprattutto in Italia, è praticamente rimasto inalterato, ed è ancora di competenza delle donne, italiane o migranti.
Un lavoro indispensabile per la sopravvivenza del sistema produttivo, tanto non raccontato quanto sommerso. Eppure non è ancora considerato un vero lavoro, e viene ignorato nel calcolo del Pil, una misura che cancella le donne. Il Pil è un indicatore economico inadeguato, perché in grado di misurare virtualmente ogni tipologia di produzione umana in una determinata società, ma nega ogni tipologia di rappresentazione al lavoro femminile e al contributo che costituisce per la società.
I processi di emancipazione formale delle donne sul lavoro sono avvenuti senza però quel salto qualitativo che avrebbe salvaguardato i loro diritti e le loro libertà personali. Ci si ritrova oggi con la stragrande maggioranza delle donne che sommano lavoro produttivo e quello riproduttivo, lavoro domestico di cura e lavoro fuori casa, ritrovandosi più ricattabili e vulnerabili di fronte al datore di lavoro e, in generale, nel sistema lavorativo. Paradigmatico in questo senso è il ricatto sulla maternità, tanto che oggi fa notizia l’assunzione di una donna incinta. Così, nel non riconoscimento del lavoro domestico, il welfare si è adeguato all’organizzazione sociale del lavoro ricavandone un netto risparmio e anche perpetuando la divisione dei ruoli di genere.
Il fattore D ha insomma assunto il significato di innovazione e di risorsa per il sistema economico. Il capitalismo in epoca neo-liberale e post patriarcale ha mutato forma sfruttando i cambiamenti che le lotte femminili hanno prodotto nella società – la loro irruzione nel mercato del lavoro e nella sfera pubblica – rendendoli funzionali ai nuovi sistemi di potere del mercato.
La politica, di riflesso, ha continuato a misursi con le politiche di genere concependo le donne come un soggetto debole da tutelare e rinunciando all’obbligo di dar vita a una legislazione che mirasse alla parità di opportunità di carriera tra i generi.
Per tutti questi motivi il dibattito sul welfare va fatto dando la giusta collocazione del lavoro non pagato – quello domestico e di cura – dentro la divisione del sistema economico, liberandolo da una responsabilità esclusivamente femminile e rimettendolo all’interno dell’analisi della struttura economica nel suo complesso: produrre e riprodurre, dove il riprodurre continua a essere essenziale al produrre. La cura deve essere un principio di etica pubblica radicato nella vita sociale e politica e non deve essere ridotto a valore privatizzabile o esclusivamente di appannaggio delle donne. Deve entrare a stabilire il valore del Pil come produttore di ricchezza e base per scelte politiche e legislative d adozione del reddito di cittadinanza (reddito minimo garantito).
È in quest’ottica il reddito minimo garantito diventa una battaglia fondamentale. A maggior ragione in questi giorni, in cui l’ex Presidente del Consiglio Matteo Renzi lancia una proposta – già lanciata da Silvio Berlusconi qualche giorno prima – del “lavoro di cittadinanza”, cioè una fonte di reddito per cui le cittadine e i cittadini di questo Paese dovrebbero ancora dire grazie senza avere diritto di scelta, non modificando e non scalfendo di una virgola il paradigma economico.
Il reddito minimo garantito, su cui in Parlamento esistono svariate proposte di legge, rappresenterebbe per le donne l’alternativa a quel ricatto di fare di se stesse una risorsa umana. Il ricatto che in questi anni, con l’Associazione daSud (che valuta le ricadute favorevoli del reddito minimo anche come risorsa antimafia) abbiamo chiamato del doppio sì: sì alla famiglia, sì al lavoro. Inoltre la declinazione del reddito in un’ottica di genere non rappresenterebbe una battaglia solo per le donne. Sì, partiamo dalle donne, dalle loro esperienze e dalle loro elaborazioni ma per mettere al centro la vita umana e il valore di cura, da cui il lavoro salariato dipende per produrre profitto, per opporre resistenza al fondamento di accumulazione capitalistica e di sfruttamento del nostro modello economico e aprire spazi di nuova contrattazione. Adottare il reddito non implica il rifiuto del lavoro, significa sostenere un nuovo modello di libertà, nel campo dei diritti e nel campo della creatività, che coinvolga i modelli relazionali, dentro e fuori le famiglie. Anche perché è emerso ormai in tutti i paesi industrializzati che le forme di tutela contro la precarietà non abbattono la capacità lavorativa, semmai il contrario.
Ma questa proposta va anche oltre. In anni in cui l’assenza massiccia di adeguate politiche lavorative lascia tre generazioni senza lavoro, la politica dei tweet e degli slogan ha invitato disoccupate e disoccupati a cogliere le opportunità della crisi. Non si è fatto altro che parlare di start-up e coworking, come se tutti avessero avuto la fortuna, o la voglia, o ancora il talento, per studiare e “reinventarsi”. Questa non può essere la soluzione. Le Istituzioni hanno delle responsabilità verso chiunque e a tutte e tutti va garantita l’opportunità di provvedere a se stesso/a. Il reddito minimo garantito, può condurci verso un’altra idea del lavoro e verso una concezione più ampia e universalistica di un reddito di esistenza.
La piattaforma #nonunadimeno, la vera novità politica dell’autunno 2016, che in Italia ha organizzato un’enorme manifestazione di donne e uomini in occasione della giornata internazionale contro la violenza sulle donne, per l’8 marzo 2017 ha assunto – nel suo appello allo sciopero di tutte le donne nel mondo dal lavoro domestico e da quello professionale – la rivendicazione di un reddito di autodeterminazione. Perché per primi i movimenti delle donne sono stati a fianco di chi formulava l’esigenza del reddito minimo garantito, avendo intuito che a causa del loro ruolo di subalternità economica le donne fanno fatica ad emanciparsi dalla violenza tra le mura domestiche. È ancora dalle donne e dalla loro capacità di leggere il presente che passa il futuro del nostro Paese.