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Le insostenibili leggerezze del Jobs Act

di Andrea Fumagalli

Riflessioni di Andrea Fumagalli economista e socio fondatore del BIN Italia sul Jobs Act e la riforma del lavoro in Italia.

La riforma del lavoro di Giuliano Poletti n. 78 (comunemente chiamato Jobs Act) potrebbe violare il diritto comunitario[1]. Lo hanno segnalato in molti a partire da Giugno: i parlamentari del M5S, l’Associazione giuristi democratici, il sindacato Usb. In agosto anche la CGIL ha deciso di farsi sentire presso la Commissione Ue. La Cgil, così come chi l’ha preceduta, insiste su un punto in particolare: la legge 78, eliminando l’obbligo di indicare una causale nei contratti a termine, “sposta la prevalenza della forma di lavoro dal contratto a tempo indeterminato al contratto a tempo determinato, in netto contrasto con la disciplina europea che, al contrario, sottolinea l’importanza della … stabilità dell’occupazione come elemento portante della tutela dei lavoratori”[2].

Quali sono le strategie che il governo di Renzi intende perseguire per la definitiva normalizzazione  del mercato del lavoro italiano? Analizziamo dunque le ragioni economiche che stanno alla base del Jobs Act, partendo da tre ordini di considerazioni.

Primo: nel periodo pre-crisi, 2002-2008, gli occupati complessivi sono aumentati di 1,164 milioni di unità. Contemporaneamente, gli inoccupati sono calati di 366.000 (vedi Tabella 1). Tali dati possono essere interpretati, come è stato fatto, alla luce degli effetti di flessibilizzazione del mercato del lavoro indotti dagli interventi legislativi promulgati nel 1997 (pacchetto Treu), 2001 (riforma del contratto a tempo determinato), 2003 (Legge Maroni).

Tali provvedimenti hanno effettivamente creato lavoro? Analizziamo il periodo in maggior dettaglio. Occorre notare che le Unità di lavoro equivalenti (Ula) sono aumentate di 797.000, in misura inferiore (di circa un terzo, 32%) rispetto al numero degli occupati. Le Ula sono soprattutto concentrate nei settori del terziario avanzato. Infatti dalla Tabella 2 si può osservare come nel solo comparto “Intermediazione monetaria e finanziaria; attività immobiliari e imprenditoriali” si concentra quasi il 50% dell’aumento. Nel settore dell’industria, il numero delle Ula addirittura si riduce, nonostante un aumento  di 67.000 occupati.

Occorre inoltre ricordare che nel periodo 2002-2008, con due sanatorie, sono state regolarizzati poco meno di 250.000 migranti irregolari, che da invisibili sono diventati del tutto visibili, anche per le statistiche ufficiali. Di conseguenza, la reale crescita occupazionale risulta assai più contenuta. Infine, analizzando la dinamica del valore aggiunto a prezzi correnti nell’intero periodo, si può osservare che l’industria in senso stretto è cresciuta del 12%, mentre nel comparto del terziario avanzato la crescita è stata di oltre il 30%.

Ne consegue che la dinamica dell’occupazione risulta più strettamente correlata alla dinamica del valore aggiunto, cioè l’occupazione cresce di più laddove la crescita del valore aggiunto è maggiore, e risulta di fatto indipendente dall’incremento del processo di flessibilizzazione del lavoro. Anzi, analizzando la disparità tra dinamica occupazionale e Ula, la crescente precarizzazione del lavoro ha favorito un processo di sostituzione tra lavoro standard e lavoro non standard.

Secondo: nel periodo più recente, 2009-13, in piena fase recessiva, la spinta alla crescita dell’occupazione non solo si è del tutto bloccata, ma, in linea con la dinamica del Pil, è visibilmente calata, sino alla perdita di quasi 1,5 milioni di posti di lavoro. Tale declino ha favorito, pur in presenza di dati negativi, un ulteriore processo di sostituzione tra lavoro precario e lavoro stabile. Analizzando, infatti, i dati Isfol, gli avviamenti al lavoro con contratto a tempo indeterminato sono passati dal 21,6% di inizio 2009 al 15,8% (IV trim. 2013). Tra le tipologie precarie, quella più diffusa è il Contratto a Tempo Determinato (CTD), che il Jobs Act ha ulteriormente liberalizzato. Da inizio 2009 a fine 2013, la quota degli avviamenti CDT sul totale è passata dal 63,2% al 68,5% sul territorio nazionale. Se scomponiamo tale crescita a seconda della durata del CDT, i dati Isfol mostrano come i contratti della durata massima di un mese sono ben il 43,5% del totale con una tendenza crescente. Se questa è la situazione, che bisogno c’è di liberalizzare ulteriormente il CDT?

Terzo: si afferma che il Jobs Act abbia come fine la riduzione di un tasso di disoccupazione giovanile senza precedenti (“drammatico” secondo Renzi), superiore al 46%. I dati Eurostat, pubblicati nell’Empoyment Outlook Ocse 2013, mostrano che in Italia nella fascia 15-24 anni la quota dei giovani occupati precari sul totale è pari al 52,9%, un valore di poco superiore alla media dell’area Euro a 17 (51,3% ) e di poco inferiore al corrispondente dato per la Francia e la Germania. Se però osserviamo non tanto lo stock al 2012 ma i flussi dal 2009 al 2012, si può notare come l’Italia abbia manifestato il tasso di crescita più elevato, pari al 3,1% annuo, contro  il -1,8% della Germania, il + 0,25% della Francia e + 0,8% della Spagna. Ciò significa che il processo di precarizzazione dei giovani occupati è stata quasi tre volte superiore a quella europea. Nonostante ciò, il tasso di disoccupazione giovanile non solo non ha arrestato la sua crescita, ma la ha accelerata!

In conclusione: non esiste una correlazione positiva tra flessibilizzazione del mercato del lavoro e crescita occupazionale, soprattutto giovanile[3]. Nelle fasi recessive, è ravvisabile un rapporto di correlazione inversa: quando l’occupazione cala, l’effetto è quello di aumentare la già esistente flessibilità del lavoro, favorendo contratti ancor più precari e peggiorando le condizioni di vita e di reddito della forza lavoro. Il Jobs Act liberalizza un contratto, quello CTD, che è già di gran lunga il più usato e abusato. In altre parole, la precarizzazione del lavoro svolge una funzione anti-ciclica nella fasi di espansione, seppur limitata, del ciclo economico e pro-ciclica nelle fasi di recessione.

Intervenire solo sul lato dell’offerta di lavoro – via aumento della precarietà – non è né condizione necessaria, né men che meno sufficiente, a favorire l’occupazione. Quest’ultima dipende infatti più dalla domanda di lavoro. Anche se il lavoro costasse zero (sul modello del protocollo di Expo-Comune-Sindacati, siglato a Milano il 23 luglio 2013, che prevede l’assunzione di 18.500 lavoratori volontari gratuiti e 700 tra CDT e apprendisti in deroga all’allora normativa: questa è la parte che viene recepita dal Jobs Act), le imprese non assumerebbero comunque, perché la domanda di lavoro non dipende dalle condizioni dell’offerta (anche se precarie e a basso e intermittente reddito) ma dalle prospettive di vendita e di crescita della domanda. Si può offrire lavoro gratis (pardon, come si dice, oggi: volontario) alle imprese, ma se queste non aumentano la produzione, non accettano neanche il lavoro gratuito.

 

 

[1] Le note che seguono sono un riassunto di un documento a cura dell’autore che è stato presentato alla Commissione Lavoro della Camera dei Deputati nell’aprile scorso. Sullo stesso argomento l’autore è già intervenuto mettendo in risalto altri aspetti del discorso.
[2] Cfr. Jobs Act, anche la Cgil vede incongruenze con norme Ue e fa ricorso, il Fatto Quotidiano, 5 agosto 2014.
[3]Si tratta di un risultato in linea con lo studio condotto da Realfonzo e Tortorella Esposito, Gli insuccessi nella liberalizzazione del lavoro a termine, in questa rivista.

Articolo tratto da Economiaepolitica.it il 4 settembre 2014.

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