Cerca
Generic selectors
Exact matches only
Search in title
Search in content
Post Type Selectors
reddito di cittadinanza domanda

Legare il reddito alla cittadinanza attiva

di Gaetano Azzariti

«Reddito di base. La vera sfida al tempo della disoccupazione strutturale, del lavoro precario, flessibile, delocalizzato, immateriale è conservare il legame tra occupazione ed emancipazione».

Lo ius exi­sten­tiae si pone alla base del con­tratto sociale. Sin dal ‘600 la cop­pia obbedienza-protezione s’è impo­sta come la fonte ultima di legit­ti­ma­zione del potere costi­tuito. Spetta al “sovrano” difen­dere la vita dei con­so­ciati (Hob­bes), ma anche i beni essen­ziali ad essa col­le­gati (Locke). Se il potere costi­tuito non è in grado di garan­tire le con­di­zioni di “esi­stenza”, il popolo non è più tenuto a rispet­tare il pac­tum con­so­cia­tio­nis: il diritto di resi­stenza può essere esercitato.
Nella sto­ria della moder­nità si è rite­nuto che allo Stato dovesse spet­tare il com­pito di assi­cu­rare la pace (interna ed esterna), men­tre il lavoro dovesse costi­tuire il mezzo attra­verso cui assi­cu­rare la “soprav­vi­venza” degli indi­vi­dui. La fine della civiltà del lavoro ha cam­biato le carte in tavola. Oggi non basta più la volontà di lavo­rare, né quella di emi­grare per poter soprav­vi­vere. Come può lo Stato pre­ser­vare il diritto all’esistenza?

In via di prin­ci­pio due sono le strade per­cor­ri­bili (tra loro non neces­sa­ria­mente alter­na­tive): lo Stato potrebbe assi­cu­rare comun­que un diritto al lavoro, ampliando arti­fi­cial­mente l’offerta, incen­ti­vando – ad esem­pio – i lavori social­mente utili, anche se eco­no­mi­ca­mente non neces­sari. L’altra via è quella di assi­cu­rare comun­que un red­dito di cit­ta­di­nanza anche a chi – in assenza delle con­di­zioni sociali che lo ren­dono pos­si­bile – non può lavorare.

In par­ti­co­lare, la pro­spet­tiva del red­dito di cit­ta­di­nanza ha un solido fon­da­mento costi­tu­zio­nale. Essa ruota attorno a quat­tro prin­cipi che val­gono a carat­te­riz­zare il nostro “patto sociale”: il prin­ci­pio di dignità, con il col­le­gato dovere di soli­da­rietà; il prin­ci­pio d’eguaglianza, inteso come moda­lità di rea­liz­za­zione di una società di liberi ed eguali; il prin­ci­pio di cit­ta­di­nanza, nella sua dimen­sione par­te­ci­pa­tiva e di garan­zia di appar­te­nenza ad una comu­nità; il prin­ci­pio del lavoro, assunto nella sua reale dimen­sione di vita, com­pren­sivo del dramma del non lavoro.

È nel col­le­ga­mento tra que­sti prin­cipi che si rin­viene il diritto costi­tu­zio­nale ad un red­dito di cit­ta­di­nanza. L’errore cui si è spesso incorsi è stato quello di tenerli invece sepa­rati. Eppure nella nostra costi­tu­zione – più avan­zata dei suoi inter­preti – appare evi­dente l’intreccio. Si pensi al rap­porto com­plesso che sus­si­ste tra dignità e lavoro. Al lavoro è legata la dignità (il lavo­ra­tore ha, infatti, diritto ad una retri­bu­zione «in ogni caso suf­fi­ciente ad assi­cu­rare a sé e alla fami­glia un’esistenza libera e digni­tosa»), ma è anche evi­dente come la “dignità” rap­pre­senta un valore da assi­cu­rare in ogni caso, ponen­dosi (la “dignità umana”) come limite alla libertà di ini­zia­tiva eco­no­mica pri­vata, con­for­man­dosi come “dignità sociale” nel rap­porto tra tutti i cit­ta­dini eguali davanti alla legge (nel com­bi­nato dispo­sto tra gli arti­coli 36, 41 e 3).

Vero è che i nostri costi­tuenti per­se­gui­vano l’obiettivo della piena occu­pa­zione, tant’è che alla Repub­blica veniva asse­gnato il com­pito di «pro­muo­vere le con­di­zioni» per ren­dere effet­tivo il diritto al lavoro. Dun­que era que­sta la via mae­stra per dare dignità sociale ai cit­ta­dini. Se oggi però con­si­de­riamo non più per­se­gui­bile la pro­spet­tiva della piena occu­pa­zione l’unica alter­na­tiva per rima­nere entro i con­fini trac­ciati dal costi­tuente è quella di assi­cu­rare la dignità anche a chi non può lavo­rare. Non pos­siamo ras­se­gnarci alle dise­gua­glianze di una società in cui sem­pre più ampie parti della popo­la­zione vivono in grave disa­gio, non pos­siamo evi­tare di occu­parci dei gruppi sociali in stato di emar­gi­na­zione, non pos­siamo lasciare il mondo sem­pre più esteso dei non occu­pati senza spe­ranza, pri­van­doli di ogni dignità e oppor­tu­nità di riscatto.

La let­tura siste­ma­tica del testo costi­tu­zio­nale evi­den­zia anche un secondo dato, che a me sem­bra deci­sivo, ma che è invece assai sot­to­va­lu­tato nel dibat­tito attuale sul red­dito di cittadinanza.

Detto in breve: nella nostra costi­tu­zione il diritto fon­da­men­tale alla soprav­vi­venza, i diritti alla vita digni­tosa e all’assistenza come obbligo dello Stato, la lotta all’emarginazione sociale, non ven­gono assunti in sé, ma sono sem­pre col­le­gati al neces­sa­rio svol­gi­mento della per­so­na­lità, non­ché defi­niti al fine di con­cor­rere al «pro­gresso spi­ri­tuale e mate­riale della società» (come si esprime l’art. 4 in rap­porto con il diritto al lavoro). Espli­cito e diretto è poi il legame tra diritti fon­da­men­tali e doveri inde­ro­ga­bili (art. 2). Così come l’obbligazione gene­rale di rimo­zione degli osta­coli d’ordine eco­no­mico e sociale nei con­fronti dei cit­ta­dini è asso­ciato alla par­te­ci­pa­zione all’organizzazione poli­tica, eco­no­mica e sociale del paese (art. 3).

È in que­sto com­plesso intrec­cio che deve tro­vare una sua spe­ci­fica qua­li­fi­ca­zione anche il red­dito di cit­ta­di­nanza, che dovrebbe essere inteso come red­dito di par­te­ci­pa­zione. Se si vuole cioè evi­tare che la sov­ven­zione ai non occu­pati si tra­sformi in un mero sus­si­dio di povertà, cari­ta­te­vol­mente con­cesso ad un sog­getto iso­lato, lasciato nel suo iso­la­mento, e senza pos­si­bi­lità di riscatto, v’è una sola strada da per­se­guire: legare il red­dito alla cit­ta­di­nanza attiva. La vera sfida, al tempo della disoc­cu­pa­zione strut­tu­rale, ma anche del lavoro pre­ca­rio, fles­si­bile, insta­bile, delo­ca­liz­zato, imma­te­riale, è quella di con­ser­vare quell’orizzonte eman­ci­pa­to­rio, tanto indi­vi­duale quanto sociale, che sin qui – nello schema for­di­sta – era stato assi­cu­rato prin­ci­pal­mente dal lavoro sta­bile entro una comu­nità solidale.

Ma come può legarsi il red­dito alle atti­vità sociali? E poi cosa si intende per cit­ta­di­nanza attiva? Anche in que­sto caso si può comin­ciare a riflet­tere par­tendo dalla costi­tu­zione, la quale imputa a tutti i cit­ta­dini il dovere di svol­gere un’attività o una fun­zioni che con­corra «al pro­gresso mate­riale o spi­ri­tuale della società». Il rife­ri­mento è al lavoro tra­di­zio­nal­mente inteso, ma deve ricom­pren­dere anche tutte quelle atti­vità o fun­zioni che si svol­gono “oltre il lavoro for­male”. Il volon­ta­riato, l’assistenza ai figli o ai geni­tori, le atti­vità cul­tu­rali, quelle di natura imma­te­riale, la cura dei beni comuni. Tutto ciò che – oltre la dimen­sione eco­no­mica e imme­dia­ta­mente pro­dut­tiva – per­mette agli indi­vi­dui di svi­lup­pare la pro­pria per­so­na­lità e con­cor­rere al pro­gresso sociale.

Tutto ciò come si può rea­liz­zare in con­creto? Se si guarda alle diverse forme di red­dito pro­po­ste (uni­ver­sale, minimo, di disoc­cu­pa­zione) mi sem­bra che il più con­forme al modello defi­nito sia quello che asse­gna a tutti i biso­gnosi un red­dito minimo, non tanto con­di­zio­nato dalle logi­che di work­fare (che impone al tito­lare del red­dito di accet­tare qua­lun­que lavoro, anche il più degra­dante o incoe­rente con la pro­pria for­ma­zione a pena della per­dita di ogni con­tri­buto), quando costi­tuito da due diverse fonti “red­di­tuali”: una in denaro, l’altra defi­nita da forme di soste­gno indi­rette. In que­sto secondo caso il red­dito con­si­ste in garan­zie di accesso gra­tuito ai ser­vizi (scuole, uni­ver­sità, con­sumi cul­tu­rali, tra­sporti), ovvero al sup­porto al volon­ta­riato o all’associazionismo, ovvero ancora all’affidamento ai cit­ta­dini di strut­ture inu­ti­liz­zate (dai tea­tri, alle fab­bri­che, ai cen­tri sociali) per la gestione dei beni comuni. In que­sto caso il red­dito di cit­ta­di­nanza (inteso come ser­vizi, age­vo­la­zioni e gestione degli spazi pub­blici) potrebbe per­sino favo­rire la pro­du­zione di red­dito da lavoro o con­fi­gu­rare un’altra economia.

È que­sta una pro­spet­tiva che stenta a farsi strada e che pure non è assente in alcuni tra i pro­getti sul red­dito (la pro­po­sta ela­bo­rata dal Basic Income Net­work, ripresa in sede par­la­men­tare, alcune leggi regio­nali), per­sino in una riso­lu­zione del Par­la­mento euro­peo del 2010. Per una volta pos­siamo dire: «ce lo chiede l’Europa».

Tratto da Il Manifesto 15 aprile 2015

Altri articoli

SEGUICI