L’uguaglianza tra donne e uomini è un percorso in costante evoluzione, ma nel tempo è mutato l’approccio: le differenze vengono considerate sempre più ricchezza e le diverse strategie di intervento a favore della parità sono attuate in interazione fra loro.
Il diritto antidiscriminatorio di nuova generazione rappresenta oggi l’attuazione del principio di uguaglianza sostanziale sancito dall’art. 3, comma 2 della Costituzione e trova ampi riscontri nella legislazione e nella giurisprudenza comunitaria in tutti i settori del diritto, ma principalmente in ambito sociale e lavorativo.
La disparità di genere è contraria alle ragioni sia dell’equità sia dell’efficienza e non rappresenta più solo una questione di giustizia, ma soprattutto un problema di crescita e di sviluppo, perché mortifica una piena valorizzazione della persona umana anche quale fonte di benessere economico.
Nell’ordinamento giuridico europeo e nazionale, l’attenzione alla parità sul lavoro è costante ed è consacrata in numerosi atti: dal Trattato di Roma istitutivo della Comunità Economica Europea, alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, con una evoluzione del concetto di parità da strumento di contrasto alla concorrenza sleale -in una logica tipicamente mercantile- a elemento che concorre al modello sociale europeo con attenzione al benessere individuale e alla crescita economica e strutturale del mercato. Ma, per quanto si siano ridotte globalmente le discriminazioni tra i sessi, il rapporto “Donne e Lavoro” 2016 redatto nell’ambito dell’Iniziativa del Centenario dell’Organizzazione internazionale del Lavoro (OIL/ILO), evidenzia la permanenza di un forte divario di genere sia in termini di differenze occupazionali sia con riferimento al cosiddetto “gender pay gap”(differenziale retributivo di genere).
L’incremento della partecipazione lavorativa femminile e il miglioramento delle condizioni di lavoro delle donne, che oggi contribuiscono sempre più ai bilanci familiari non hanno eliminato totalmente le asimmetrie tra i sessi. Le donne continuano a lavorare più ore al giorno rispetto agli uomini -sia nel lavoro retribuito che nel lavoro non retribuito -dedicato principalmente alle cure domestiche e parentali- e guadagnando in media meno degli uomini. La quota sproporzionata del lavoro non retribuito limita la capacità delle donne di aumentare il numero di ore impiegate in lavoro retribuito. Di conseguenza, a livello mondiale, le donne – che rappresentano meno del 40 per cento dell’occupazione totale – costituiscono il 57 per cento dei lavoratori retribuiti che lavorano meno ore ed in lavori a tempo parziale (fonte OIL/ILO 2016).
Le donne lavorano con maggiore probabilità con contratti a tempo determinato e/a tempo parziale (spesso perché non riescono a trovare lavori migliori o sono costrette a conciliare l‘attività produttiva con quella di cura familiare e a sopperire alle carenze di servizi pubblici); i loro tempi di lavoro extradomestico sono inferiori, svolgono in media mansioni meno qualificate e, anche a parità di caratteristiche rilevabili, ricevono un salario orario significativamente inferiore.
Il divario retributivo di genere è un fenomeno complesso, imputabile a una serie di fattori interconnessi e che riflette ampie disparità di genere ancora oggi presenti nell’economia e nella società: discriminazioni sul posto di lavoro, differenze di mansioni e di settori, pratiche lavorative e sistemi di retribuzione, professionalità femminili spesso sottovalutate, poche donne ai posti di comando, tradizione e ruoli di genere, esigenze conciliative di lavoro e famiglia.
Colmare il divario retributivo di genere significa superare i preconcetti di ruolo in ambito scolastico, familiare, lavorativo e nel tessuto sociale e, in questi termini l’U.E. si è costantemente impegnata nell’ambito della realizzazione degli obiettivi della strategia di crescita dell’UE «Europa 2020».
Al ritmo attuale, secondo la ricerca Women in Work Index 2017, a cura di PwC per l’Ocse, ci vorranno 95 anni per colmare il gender gap. L’attuale pay gap medio tra i Paesi Ocse è del 16%. L’Italia vede un pay gap del 6,9% e si colloca al 28° posto in classifica, non proprio ai primi posti.
Occorre modificare la strategia di intervento: la questione di genere, non può porsi più tanto, o solo, nei consueti termini di tutela delle diversità, quanto in termini di gestione delle stesse. E la gestione delle diversità di genere si attua nel momento in cui l’attenzione è rivolta alla valorizzazione di tutte le risorse umane, proprio in virtù delle differenze che intercorrono tra gli uni e gli altri in funzione dell’ottimizzazione delle loro potenzialità. Ciò in un’ottica di sistema che conduca ad esiti positivi non solo in termini di impatto sullo stato dei diritti sostanziali, bensì anche sul piano della crescita economica, sociale e culturale del Paese.
Non è la mancanza di lavoro che tiene fuori le donne dalla economia, ma al contrario è la mancata partecipazione economica delle donne che impoverisce il mercato e svigorisce l’economia, influenzando negativamente la crescita di un Paese. In questi termini ripensare lo stato sociale è un esempio di come le donne possano essere parte della soluzione, anzi parte decisiva di una nuova visione di crescita dell’economia e del mercato del lavoro che veda nell’eguaglianza di genere un fattore propulsivo, non un costo, un’opportunità non una trappola. Le donne sono una forma di welfare gratuito. Cambiare lo status quo, fornendo servizi accessibili e di qualità è fondamentale se si vuole incrementare la partecipazione delle donne al mondo del lavoro. Ma non basta.
E’ senz’altro importante incrementare le misure che garantiscano il “worklife balance”, in modo da rendere conciliabili obblighi professionali e familiari: vedremo che risultati porterà il Ddl per il lavoro agile o smart working “Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato” attualmente in sede di esame al Senato. Ma soprattutto è fondamentale incoraggiare la partecipazione femminile al mondo lavorativo attraverso incentivi di reddito che facciano diminuire il vantaggio economico di stare a casa.
Molte donne abbandonano il lavoro o non lo cercano proprio per gli alti costi dei servizi sociali (asili, colf, badanti), nella maggior parte dei casi superiori ai salari. Un aumento delle retribuzioni medie delle donne, accompagnato da un correlativo sgravio fiscale per non disincentivare l’occupazione femminile, favorirebbe senz’altro l’occupazione e potrebbe innescare un meccanismo moltiplicatore di risorse in termini di maggior gettito fiscale e contributivo che potrebbe essere indirizzato al finanziamento di politiche a sostegno dell‘occupazione femminile. Si assisterebbe inoltre all‘aumento di una richiesta di prestazioni a sostegno della famiglia, ma esterne ad essa, che darebbero impulso ad ulteriori ingressi nell‘universo del lavoro nell‘ambito dei servizi alla persona, che come sappiamo è prevalentemente femminile. Ma la misura più incisiva sarebbe senz’altro l’attribuzione di un reddito sociale al di la delle sue possibili declinazioni (sociale/di base/garantito/di cittadinanza/ecc), quale reale elemento di autodeterminazione per le donne e quale unica misura in grado di redistribuire in maniera più giusta la ricchezza prodotta da tutta la società attiva.
Il reddito universale cambia completamente i rapporti di forza nell’impresa perché porta una forma di riconoscimento al lavoro che esiste fuori dal salario. E’ un invito a sviluppare attività oltre l’impiego non un incentivo all’abbandono del salario.
Rilanciare il femminismo oggi significa lottare per il reddito e non per il salario. “Occorre che il lavoro perda la centralità nella coscienza, nel pensiero, nell’immaginazione di tutti: bisogna imparare a guardarlo con occhi diversi, non pensarlo più come qualcosa che si ha o che non si ha; ma come ciò che facciamo. Bisogna osar volere riappropriarci del lavoro”. (André Gorz, Miserie del Presente Ricchezza del possibile, Manifestolibri, 1998)