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Macchine populiste. La sfida del reddito di base e della sovranità tecnologica tra locale e transnazionale

di Stefano Simoncini

Il doppio movimento delle macchine populiste

In seguito all’insediamento del governo Lega-5 Stelle, il dibattito pubblico italiano è stato letteralmente colonizzato da una retorica binaria. Due sono le “equivalenze” essenziali che nel discorso populista mirano ad accorpare le molteplici istanze e inquietudini scaturite dagli effetti disgreganti dei processi interrelati di globalizzazione e crisi economica. La spasmodica promozione del cosiddetto “reddito di cittadinanza” da un lato, e l’ossessiva costruzione del nemico a colpi di campagne e decreti anti-immigrazione dall’altro, sono due facce della stessa medaglia politica, le due unità fondamentali della matrice ideologica del populismo italiano – equamente suddivise tra i partiti della coalizione governativa. Poco però si è posto l’accento sulla complementarietà dei due temi, che a mio parere rivela un’altra complementarietà funzionale, quella tra populismi e nuove forme di capitalismo.

A fronte di una globalizzazione che ha accelerato movimenti di capitali e persone, si sono prodotti fortissimi squilibri in ambito locale: una polarizzazione e atomizzazione crescente della società, dei territori e del mercato del lavoro che lo Stato nazione non è più in grado di contrastare, stante la perdita di autonomia politica e la ridotta efficacia della leva fiscale e monetaria. Se volessimo figurare questa matrice binaria “reddito sì” – “immigrazione no”, potremmo collocarla su un piano cartesiano in cui l’ordinata rappresenta la crisi del lavoro, mentre l’ascissa rappresenta la crisi dei luoghi. Il punto d’“Origine” dei due assi può essere identificato con il tema della cittadinanza, che costituisce il discrimine tra inclusione ed esclusione. Quindi, partendo dall’origine, si può affermare che il problema, e le sue false soluzioni, derivano dalla crisi della cittadinanza, da intendersi non in senso strettamente giuridico, bensì come un generale senso di appartenenza alle dimensioni collettive della “comunità” e della “società”. Entrambe le percezioni sono state minate dalla smaterializzazione e deterritorializzazione della catena del valore, a cui hanno concorso finanziarizzazione dell’economia, automazione della produzione e digitalizzazione del sociale. Ne è derivato un processo di contrazione del mercato del lavoro, di disarticolazione del welfare e di radicale sfaldamento del capitale sociale (individuale e collettivo) che sono alla base del senso di esclusione che sostanzia la crisi della cittadinanza.
La risposta populista a questo stato di cose sta proprio nella volontà di costituire una simbolica “catena equivalenziale” che sia in grado di ricostruire l’identità minata dalla crisi della cittadinanza. Come afferma Chantal Mouffe ogni egemonia si fonda sulla costruzione di un’identità attraverso “l’affermazione di una differenza, la determinazione di un ‘altro’ che gioca il ruolo di un ‘fuori costitutivo’”. In questo senso il movimento populista-sovranista si articola essenzialmente in un doppio movimento: il movimento dell’identità attraverso l’equivalenza del reddito di cittadinanza (o in altri casi del protezionismo, o della sovranità monetaria), e il momento della differenza attraverso l’enfatizzazione della frontiera e della “delimitazione del ‘loro’”.

Si tratta tuttavia di una catena di equivalenze ingannevole: ridefinire il perimetro della cittadinanza attraverso la leva di un reddito di cittadinanza chiaramente configurato come un sistema di workfare (che vincola e sottomette i beneficiari al circuito dell’offerta di lavoro dequalificato e sottopagato), o come temporaneo puntello dei traballanti servizi pubblici, più che includere significa rafforzare e rendere funzionale e strutturale un processo di esclusione. In particolare si tratta di collocare permanentemente consistenti blocchi sociali in quel margine del nuovo sistema di produzione a bassa intensità di lavoro che è definito dalla frontiera tra alta e bassa intensità di tecnologia. Tutto ciò che si trova al di là di questa frontiera, prevalentemente costituito da lavori di cura della persona, distribuzione delle merci e manutenzione di territorio e infrastrutture, deve essere sostenuto da una forza lavoro il cui solo diritto sarà una precarissima riproduzione sociale. Ne discende che la ristrutturazione del sistema scaturito dal combinato disposto di finanziarizzazione, automazione e digitalizzazione, ha bisogno del movimento esclusivo della differenza, ovvero della creazione del “fuori costitutivo”, di quella ulteriore frontiera sociale rappresentata dall’immigrato illegale, che è condizione necessaria per “realizzare” l’illusorio movimento inclusivo dell’identità. Così il movimento di capitali che innesca il movimento di persone sono due momenti reciprocamente e intrinsecamente funzionali di un unico processo che mira al ridisegno del ruolo dello Stato nazione, del rapporto tra Nord e Sud del mondo e delle gerarchie sociali interne nel quadro della nuova fase del capitalismo. L’immigrato è figura doppiamente funzionale: a sostenere il residuo welfare dei paesi a capitalismo avanzato e a legittimare la riconfigurazione dei rapporti di produzione. In questo senso i nuovi populismi a trazione sovranista sono estremamente funzionali al processo generale di ristrutturazione del capitalismo. Ciò detto si tratta di precisare meglio questo processo generale, e in seguito di capire come “smontare” e “rimontare” le componenti del nuovo sistema sociale, in cui le tecnologie sono parte integrante e determinante.

Da questo punto di vista, uno dei problemi di molta sinistra è soprattutto di non aver capito la strutturale inerenza del discorso populista al nuovo sistema “tecno-sociale”, un discorso che risulta quasi incorporato nelle relazioni “disegnate” dalle attuali infrastrutture della mediazione digitale: macchine che amplificano i flussi emotivi di identificazione e differenza, macchine sempre più intelligenti che confinano gli individui ai margini del sistema, riducendoli a macchine isolate e accessorie, mere appendici del sistema produttivo. Macchine populiste, per l’appunto. Un accoppiamento che è stato affermato in modo molto reciso ed efficace da Franco Berardi Bifo: “Quando parliamo della potenza delle nuove tecnologie che stanno convergendo verso la costruzione dell’automa cognitivo, dobbiamo ricordare che l’applicazione sociale di questa intelligenza si effettua nel contesto di una dilagante psicosi che si manifesta come demenza identitaria. Intelligenza artificiale e demenza sociale sono i due attori della scena imminente. L’intelligenza dell’inorganico che innerva il sociale attraverso una rete di automatismi tecno-linguistici, è incorporata nella demenza dell’organismo sociale separato dalla coscienza. Il caos è il contesto in cui l’automa prende forma”(1). Comprendere questi nessi significa assumere il fatto che il caos della “policrisi” attuale – cognitiva, sociale, economica, democratica e ambientale – non possa essere affrontato senza mettere a fuoco il tema delle tecnologie come principio costituente del sociale.

Superstrutture digitali e tecnologie del sociale

La portata del salto tecnologico che nell’ultimo ventennio ha investito la società su scala globale non ha precedenti nella storia, e sta producendo cambiamenti radicali e multidimensionali che implicano diverse problematiche. Il primo problema è connesso alla nuova dimensione di potere globale che si sta rapidamente definendo e instaurando attraverso la sempre più pervasiva e organica mediazione digitale nelle relazioni umane e nei sistemi di produzione e consumo. Questa dimensione è caratterizzata dalla crescita esponenziale di monopoli senza precedenti fondati sulla cattura, analisi e valorizzazione dei giganteschi flussi di informazione, e sul “lock in” (cattura) dell’utenza determinata dagli effetti di rete della produzione sociale di informazione (il feedback per cui al crescere dell’utenza si accresce il valore dei servizi, che vanno a loro volta a rafforzare il flusso dei dati e il loro dominio monopolistico). In tal senso i big data non devono essere considerati soltanto come una concentrazione di informazioni funzionale a catturare valore a valle della produzione, bensì come la componente fondamentale di un nuovo modo di produzione ipercentralizzato e capace di mettere a valore ogni aspetto della vita quotidiana delle persone e dei territori grazie a economie di scala senza precedenti e a un potere predittivo e prescrittivo che sta alterando in profondità l’economia di mercato e gli assetti democratici. Il secondo problema riguarda gli impatti dirompenti e destrutturanti che queste trasformazioni, in continuità con quelle già avviate dal ciclo neoliberista, hanno generato su sistemi sociali e territorio. Anzitutto vi è un incremento di complessità determinato dal passaggio, già evidenziato da Manuel Castells sullo scorcio del XX secolo, dalle organizzazioni gerarchiche fortemente riferite alla scala dello Stato nazione all’organizzazione in rete che valorizza, accoppiandole, scala urbana e scala globale. L’espansione dello “spazio dei flussi” dominato dalle reti lunghe del capitale, unitamente alla disintermediazione operata dalle piattaforme e alla crescente automazione, ha contribuito a destrutturare il sociale, frammentando lavoro, corpi intermedi, capitale sociale, sistemi locali e sfera pubblica. Come evidenzia lo stesso Castells, la società delle reti non riduce ma accentua le asimmetrie, in quanto “while capital creates networks, labor becomes individualized”, e in questo dominio senza conflitto del capitale sul lavoro, accentuato dalla irruzione della cosiddetta gig economy, la società e i territori appaiono sempre più lacerati e incapaci di trovare nuove forme di autonomia e organizzazione.

In questa faglia tra un capitale sempre più strutturato e una società sempre più destrutturata, si pone perciò la questione dell’interpretazione di questa nuova dimensione di potere, e soprattutto della possibilità del conflitto o della costruzione di una alternativa. Alternativa che però in ultima istanza è subordinata da un lato alla possibilità di una nuova soggettivazione politica e sociale, dall’altro a come questa soggettività possa catturare o ridefinire il valore generato dalla produzione sociale tecnologicamente mediata.
Molte delle analisi correnti scontano un approccio settoriale che si concentra sulle forme di mediazione relative a singole tipologie di piattaforma, valutandone gli impatti in ambiti circoscritti (capitale sociale, sistemi territoriali, democrazia, lavoro, sfera neurocognitiva). In questo modo non si colgono le reali implicazioni e dimensioni del fenomeno, né tantomeno i suoi possibili sviluppi. Come ha rilevato la scuola giuridica americana (Lessig, Benkler, Lametti, De Filippi), il software è un potente regulator (“code is a law”) del nuovo spazio sociale costituito dal Web, che nel tempo si è trasformato da una “topologia” orizzontale, decentrata e aperta all’attuale forma gerarchica, centralizzata e chiusa in cui i nodi terminali restano tra loro isolati e dominati dagli automatismi delle piattaforme. Se si guarda infatti al cosiddetto cyberspace come a un’organica infrastruttura relazionale in costante evoluzione e strutturalmente “accoppiata” ai sistemi sociali, il problema degli impatti del digitale va interpretato a partire dalle valenze dell’“architettura” generale del Web. Si può parlare infatti per il cyberspace di “superstruttura” in senso gramsciano – con riferimento alla riflessione in cui Gramsci descrive la “doppia fenomenologia” di “certe forme di oggetti tecnici” come la tipografia (Quaderno 4, XIII, 12): analogamente ad altri media (ma in modo più potente, in quanto la sua mediazione si estende a tutte le attività e relazioni umane), la “superstruttura” digitale altera e condiziona insieme le sovrastrutture (ideologie) e le strutture (organizzazione sociale e produttiva).

La scuola politica radicale e parte della media theory, tendenzialmente di ascendenza marxista riferibile al poststrutturalismo francese e al postoperaismo italiano (Pasquinelli, Terranova, Bifo, Srnicek, Lovink), ha posto l’accento sulla dimensione di potere di un nuovo “master”, il capitalismo algoritmico, che con una forza di penetrazione senza precedenti in termini di gestione e comando di ogni atto e pensiero umano, “discretizza” e riorganizza globalmente la fabbrica sociale secondo logiche e funzioni che soltanto acquistano una logica e un senso nella “black box” algoritmica. Ciò comporterebbe una dissoluzione del soggetto che lascia veramente poco spazio all’alternativa, se non nella tradizionale ottica socialista e statalista della appropriazione o nazionalizzazione dei mezzi di produzione, rilanciata tra gli altri dai teorici dell’“accelerazionismo”.

Diverso il discorso per l’approccio geografico (Thrift, Latour, Kitchin & Dodge), più orientato a tenere insieme dimensione teorica ed empirica nella valutazione della componente tecnologica dei sistemi territoriali e urbani. Spostando il baricentro dell’analisi sul piano “socio-spaziale”, inteso come sistema complesso e non interamente rappresentabile (e quindi modellizzabile), e sulla processualità del sistema in quanto determinata dall’interazione di tutte le sue componenti, sia umane sia non umane (individui, reti, macchine, contesti), il ruolo del software – da intendersi come “addictional layer” (strato aggiuntivo) di intelligenza esogena – costituisce sì un comando invisibile, ma anche un comando remoto, asincrono, che deve fare i conti con il costante e dinamico “riassemblarsi” delle reti sociali, e con il carattere preconscio (e perciò solo parzialmente controllabile) delle pratiche sociali sospese tra spazialità fisica e virtuale.
Ed è proprio grazie a questa “apertura” della scuola geografica, che abbraccia nella chiave della complessità la faglia fondamentale del XXI secolo, quella tra locale e globale, è possibile combinare lettura strutturale, aderente alle forme organiche fondamentali del nuovo “master” tecnologico, e lettura processuale, aperta al cambiamento e all’alternativa fondate sui “riassemblaggi” e sulle pratiche socio-spaziali. Se perciò, in linea con le teorie sui sistemi complessi, si assume il territorio, e in particolare la dimensione urbana, come una componente fondamentale del nuovo sistema sociale, è possibile ipotizzare che all’azione di condizionamento della superstruttura digitale sul sociale possa corrispondere una retroazione imprevedibile e altrettanto “disruptive” del sociale sul digitale. E si può anche considerare la possibilità di un processo di coevoluzione tra società e tecnologie a partire dal nuovo spazio sociale che la sociologia dei network ha individuato nell’ibridazione dinamica di digitale e territoriale. Assumendo il potere costituente delle tecnologie digitali associate alla dimensione territoriale, soprattutto nell’ambito di movimenti e iniziative dal basso – come nei casi di nuova soggettivazione che vanno dall’irruzione conflittuale nella dimensione territoriale di soggettività costituitesi nel digitale (primavere arabe, Gezi Park, Gilet Jaunes), così come di comunità e comitati territoriali che si traslano nel digitale dando vita a più estesi e consolidati “community networks” – , si comprenderà che il vero problema risiede nella necessità di riequilibrare e ridisegnare significati e funzioni del sistema complesso costituito da società, digitale e territorio. In questo quadro assume una rilevanza strategica la dimensione urbana: se è vero che l’orizzonte di azione ideale delle reti locali è la scala regionale (in quanto tiene insieme metabolismi metropolitani e servizi ecosistemici), questa può essere intesa come punto di arrivo di un processo di decentramento progressivo e isomorfico, tanto delle reti digitali, quanto dei tessuti insediativi a partire dalla densità urbana di valori e interazioni.

Il focus si sposta così sulle modalità con le quali nuove formazioni sociali si relazionano attualmente al territorio e alle sue strutture di potere, costituendosi a partire dall’ibridazione di interazione digitale, relazione face-to-face e azione territoriale. Ma scarse sono le indagini e le riflessioni sulle modalità di questa ibridazione, che spesso implica usi tatticamente originali delle infrastrutture digitali esistenti (sia proprietarie che “open”), ma anche progettualità trasformative di riappropriazione dal basso della sovranità digitale (piattaforme indipendenti). Analizzata nell’ottica dei sistemi complessi, la componente sociale è già attualmente in tensione trasformativa verso la sfera digitale, ma resta da comprendere come questa tensione stia costituendo embrioni di nuove formazioni sociali. Una ipotesi da sottoporre a verifica è che si stiano sviluppando molto gradualmente “reti sociali interorganizzative” composte da realtà “grassroot” (comunità, comitati, associazioni, movimenti, imprese sociali) che, grazie al potenziamento digitale, proiettano la loro visione e azione alla scala metropolitana e regionale in una prospettiva di autogoverno, autorganizzazione e autoproduzione, ovvero della costruzione graduale di una nuova catena del valore fortemente incentrata sulle scale del locale e del translocale.

Conclusioni: alternative statuali e ipotesi di convergenza tra territorio e lavoro

Certamente questa prospettiva prefigura un processo estremamente gradualistico, e perciò fortemente esposto alle incognite dettate dalle trasformazione in atto, che appaiono invece radicali e rapidissime. In particolare ci si interroga su altre possibili visioni e politiche che a partire dalla leva pubblica introducano riforme strutturali in un chiave fortemente innovativa – che vada perciò oltre le soluzioni tradizionaliste, riconducibili a misure palliative di sostegno alla domanda o iniziative iperstataliste di nazionalizzazione delle infrastrutture tecnologiche. Da questo punto di vista i livelli dell’azione pubblica e le problematiche da aggredire sono molteplici, ma il cuore della questione resta quello di arginare natura ed effetti del nuovo potere tecno-sociale. Non vi è dubbio infatti che, come si è detto, la trasformazione più ingente riguarda la ristrutturazione dei sistemi di produzione e dei mercati dettata dalla trasformazione dei monopoli in vere e proprie “istituzioni”(2), come insegna chiaramente il caso di Amazon: il tech giant, combinando capacità predittiva dei big data, disintermediazione su scala globale e sistema logistico, si pone al di fuori di ogni concorrenza dettando le regole al mercato stesso, ma anche ai poteri sovrani sul tema del lavoro, delle tassazioni e della governance territoriale.

La risposta statuale di livello centrale e transnazionale, riconducibile al modello europeo, è fondata sul potere di regolazione finalizzato a tutelare i diritti e i dati dei cittadini, nonché a catturare e redistribuire il valore prodotto dalle piattaforme. Tale modello tuttavia appare poco efficace dal momento che, in ragione dei limiti strutturali di visione e di azione politica dell’istituzione europea nel suo insieme, non è in grado di intraprendere riforme sostanziali – come la proprietà pubblica dei dati, la disclosure degli algoritmi o una redistribuzione incisiva del valore prodotto.
L’alternativa di livello territoriale, sempre in capo alla dimensione pubblica, è riconducibile al modello spagnolo (e in particolare catalano, con le sperimentazioni ispirate da Francesca Bria e, indirettamente, da Evgeny Morozov), nel quale la municipalità diviene il perno istituzionale di una ipotesi di ribaltamento dei rapporti di forza tra i fronti dei cleavage locale-globale (reti di città e città delle reti), con un’appropriazione non tanto della singola piattaforma, bensì della sovranità tecnologica nel suo insieme. L’intento è quello di costruire un’infrastruttura integrata alternativa al web centralizzato capace di promuovere a livello territoriale partecipazione democratica, condivisione reale, cooperazione e mutualismo. Vi sono però due limiti interconnessi: il primo riguarda gli effetti di rete che non attraggono l’utenza qualora la massa critica, necessariamente limitata nel locale, non produca i sufficienti benefici da innescare il feedback di popolamento; il secondo è che l’infrastruttura, priva degli effetti di rete e determinata in modo esogeno rispetto al sociale, non esprime il potere costituente di una infrastruttura autoprodotta nel sociale e capace perciò di generare soggettività e processualità autonome, e quindi non soggette alle discontinuità politico-amministrative.

In questo giro d’orizzonte resta fuori un’altra ipotesi che in parte torna sul terreno dei populismi. E cioè, prendendo spunto dagli approcci del socialismo anglosassone di Corbyn e Sanders, si possono immaginare azioni politiche che, convergendo con nuove forme transnazionali di sindacalismo di base, mettano al centro il tema delle disuguaglianze e del lavoro con l’obiettivo di rianimare il conflitto tra capitale e lavoro e di andare oltre politiche keynesiane di sostegno alla domanda attraverso le politiche fiscali. In questa prospettiva si collocano sia il sostegno vittorioso di Sanders ai lavoratori interinali di Amazon, in continuità con le lotte dei lavoratori della food industry e food delivery, con il movimento Fight for $15, sia le proposte di Corbyn relative all’Inclusive Ownership Fund – il fondo derivato dai dividendi di una quota di proprietà condivisa con i lavoratori imposta per legge alle grandi aziende. Come ha ben descritto Emma Gainsforth in un recente articolo, “Sebbene il capitale che con la proposta laburista verrebbe ridistribuito tra impiegati di una grande azienda sia relativamente alto, 500 sterline l’anno per ogni impiegato non sono una cifra esorbitante. Quello che è significativo della visione di Corbyn è l’aver avanzato una proposta che tiene insieme l’idea di ricevere i dividendi di una compagnia con un’idea di partecipazione, di accountability, che semplicemente riaggancia il valore aggiunto di un’azienda a chi realmente lo produce. Questa proposta è il frutto di un dibattito molto ampio in cui in Gran Bretagna si discute del reddito di base, dell’incremento del lavoro automatizzato, della nazionalizzazione di aziende ‘troppo grandi per fallire’ ma che soprattutto ricavano il loro profitto dalla collettività – vedi Facebook”(3).

È questa la strettoia attraverso cui passare per procedere in direzione di un allargamento non in chiave lavorista della redistribuzione del valore socialmente prodotto? Il reddito di base universale, schiacciato da un lato dalle politiche di austerity inaggirabili alla scala nazionale, e dall’altro dalla morsa tra sfaldamento dei corpi intermedi, atomizzazione del lavoro e disintermediazione populista delle istanze sociali, può tornare a configurarsi come una piattaforma politica realistica e non sovranista se supportata da conflitti transnazionali e proposte politiche finalizzate a disvelare la natura pubblica dei dati e delle infrastrutture digitali e il valore “comune” della cooperazione in rete? Il dubbio permane su quale sia la nuova soggettività capace di accompagnare e generalizzare questi incipienti processi sui due piani incrociati del territorio e del lavoro. È possibile farlo senza sottrarre alla soprastruttura digitalista la presa ormai salda sul sociale, capace, come afferma Bifo, di generare al tempo stesso l’automa cognitivo e la demenza identitaria?

Per concludere, si può immaginare un diverso piano cartesiano capace di sconfiggere la macchina populista. Sull’ordinata del lavoro si devono collocare reti transnazionali interorganizzative supportate da discorsi e azioni politiche mirate a “liberare” il Comune, ovvero conoscenza e valore prodotti socialmente. Sull’ascissa del territorio facilitare in ogni modo la crescita di nuove formazioni sociali capaci di costruire, attraverso infrastrutture autonome e a proprietà distribuita, una cooperazione diffusa e sistemi di produzione fondati su sostenibilità ambientale e sociale.

All’“origine” di questi assi, si dovrà collocare un nuovo concetto di cittadinanza e un nuovo reddito di base come premessa dell’inclusione sociale, in cui lavoro e territorialità non siano più le frontiere mirate a definire il dentro e il fuori.

 

Bibliografia
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Thrift N., French, S. (2002) ‘The automatic production of space’, in Transactions of the Institute of British Geographers, n. 27, pp. 309-325.

 

Note:
1) https://not.neroeditions.com/nazismo-transumano/
2) https://www.theatlantic.com/magazine/archive/2018/07/lina-khan-antitrust/561743/
3) https://www.dinamopress.it/news/sanders-vs-amazon-segni-ritorno-del-socialismo/

 

 

Tratto da Quaderni per il Reddito n°9 Big Data, WebFare e reddito per tutti. Siamo in rete, produciamo valore, vogliamo reddito

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