Gli ultimi due anni di storia politica, istituzionale e sociale dell’UE non presentano uno scenario univoco ma molto complesso ed ambivalente: non è lecito disperare, ma neppure esultare.
La costruzione europea ha certamente perso in questi ultimissimi anni quella carica costruttiva ed ideale con cui la si guardava da parte di larghi settori dell’opinione pubblica democratica sino all’altro ieri; ancora nel 2003, veniva definita come il “luogo privilegiato della speranza umana” dai più insigni intellettuali del vecchio continente, come Habermas e Derrida, nel tentare di opporsi all’imminente invasione dell’Iraq. Una cortina pragmatica ed operativa ha ricoperto lo slancio con cui sul finire del terzo millennio ci si era lanciati nella stesura di un Bill of rights europeo inclusivo dei diritti sociali e di quelli di nuova generazione e poi nel tentare di definire la prima Costituzione della storia per una realtà sovranazionale.
Non è questo il luogo per tornare a riflettere sugli esiti referendari in Francia ed Olanda, né per sottolineare come quel ” no” non è poi servito ad aprire prospettive più avanzate come ha riconosciuto di recente anche Balibar.
Rimane il dato che il “no” ha determinato un’impasse ed una crisi gravissima dimostrando come il “progetto europeo” necessiti di una grande mobilitazione e di una determinazione di tutti, nei rispettivi ruoli, per far lievitare l’idea di un soggetto politico che riesca a combattere risorgenti nazionalismi e a superare lo stesso principio “nazionale”, senza ricadere in forme di governance tecnocratica e verticistica .
Inutile voler dimenticare che in gran parte i settori più disponibili al “salto federale” appartenevano alla sinistra riformista e che, oggi, la stragrande maggioranza dei paesi è governata da forze o di destra o di centro-destra.
Tuttavia, quasi per paradosso, l’Unione europea non è stata mai così indispensabile come oggi: la crisi economica internazionale impedisce a qualsiasi stato anche solo di ipotizzare la sua uscita. Fuori dall’Unione e, forse, fuori dalla scudo protettivo dell’euro, si muore: di fame soprattutto.
In virtù di meccanismi funzionali e sistemici, che hanno attivato una salda e profonda cooperazione tra Stati nelle inedite forme del legame “sovra-nazionale”, all’Europa si aprono in continuazione spazi “politici” nuovi, che necessiterebbero di essere agiti da una avvertita e consapevole opinione pubblica democratica. Sebbene non si parli più di una Federazione (e tantomeno di una Federazione costituzionale) l’Unione è riuscita a mandare una forza di peace keeping sulla frontiera incandescente del Libano, una forza navale sulle coste della Somalia ed una missione di assistenza alle istituzioni giudiziarie e di polizia nella regione del Kosovo.
Improvvisamente l’idea di una fiscalità europea e di una Bce responsabile anche dal punto di vista delle conseguenze sociali delle scelte monetarie si riaffaccia; il Parlamento europeo, spinto da varie pressioni, riesce a prendere posizione su questioni cruciali (purtroppo non sulla cosidetta direttiva della vergogna retour sulla disciplina dell’immigrazione clandestina) ed a dire di no alla richiesta degli stati e della commissione di modificare in senso peggiorativo la direttiva sull’orario di lavoro; finalmente abbiamo una politica dell’ambiente originale e di avanguardia (anche se osteggiata da Italia e Polonia).
Il “quadrilatero regolativo” dell’Unione incentrato su 4 organi che in sé non ripetono le esperienze nazionali si rivela un modulo che, avendo da sempre recepito il metodo della collaborazione e della mediazione tra soggetti di diversa natura, nella sua duttilità consente una dinamica innovativa ed aperta alle nuove urgenze, anche se, per converso, rivela improvvise fragilità oltre che note lentezze, e consente bruschi revirements.
Il suo punto più debole continua ad essere la mancata realizzazione di ciò che una frase di Monnet così descriveva agli inizi del viaggio europeo:” la Comunità non tende ad istituire una collaborazione tra Stati ma a fondere i destini di esseri umani”; manca ancora una piena riappropriazione dello spazio politico europeo da parte di una cittadinanza che si senta e che agisca conseguentemente come il demos di quello spazio, e dunque, per dirla con Habermas, percepisca le decisioni europee come adottate in virtù della presunzione -comunque verificabile- di un consenso popolare.
Pertanto vogliamo ribadire la convinzione che oggi le vere ” sfide” siano quelle- per i 27 stati membri- che si giocano nelle sedi sovranazionali, convinti che questa speciale attenzione a questo livello del confronto politico non significhi una aprioristica apologia delle istituzioni dell’UE, ma piuttosto una razionale collocazione dell’impegno democratico e costituzionale che ci contraddistingue nella nuova dimensione post-nazionale della lotta politica ed ideale.
Le istituzioni e le politiche
A livello istituzionale il processo di riforma, come noto, è fermo dopo il no irlandese alla ratifica del trattato di Lisbona.
Diversamente dai precedenti “no” referendari del 2005, il processo di ratifica è proseguito sino a portare a 25 ratifiche già effettuate. Le dimensioni della crisi hanno certamente rafforzato, secondo i più diffusi commenti, la spinta per assorbire il risultato elettorale nell’ “isola verde”, molto più confuso e di difficile lettura rispetto ai “rifiuti” precedenti: referendum in un paese solo su di una proposta europea del resto sembrano sempre di più un metodo illogico per proseguire un commino comune, senza voler qui ricordare la saggezza della nostra Costituzione che inibisce prove referendarie su argomenti del genere.
D’altra parte, la crisi finanziaria internazionale ha mostrato, all’interno ed all’esterno dell’Unione, la debolezza dei localismi, mentre la prospettiva europea dei paesi dei Balcani rappresenta la risposta pacifica attuale ai conflitti di anni piuttosto vicini.
Si diffonde la convinzione che alcune delle innovazioni previste dal Lisbon Treaty come la Presidenza lunga ed un Ministro degli esteri non possano mancare ad una U.E. che voglia fare la sua parte (ed affermare i propri valori) in un contesto internazionale ove la Presidenza Obama vuole ristabilire il metodo multilaterale .
Il penoso spettacolo dell’attuale Presidenza U.E. ne rappresenta un esempio innegabile, così come la mancanza di una direzione unitaria della politica estera ha impedito all’Unione di svolgere un ruolo importante nella guerra di Gaza. Il ristabilimento di un clima di collaborazione internazionale, con la chiusura del ” campo” di Guantanamo, la formale proibizione di metodi di tortura “soft” per i sospetti di terrorismo, la rinuncia allo scudo spaziale e l’invito al dialogo con l’Islam non estremistico della nuova amministrazione Usa sanciscono una “vittoria europea”: pur avendo molti paesi, compreso il nostro, collaborato anche attivamente per la rottura delle legalità internazionale, l’atteggiamento “ufficiale ” dell’U.E. è stato sempre diverso, guidato da paesi come la Francia e la Germania che hanno opposto un reciso no all’aggressione all’Iraq ed ai conseguenti atti di unilateralismo belligerante: il trionfale viaggio del neo-presidente USA è, non a caso, cominciato da Berlino.
Si tratta ora per l’Europa di avere strutture istituzionali in grado di sorreggere la sua vocazione “pacificatrice” – anticipata, malgrado l’arretratezza delle sue regole, dall’invio di forze di pace sulla frontiera libano- israeliana .
In questi anni, nonostante la crisi del processo di costituzionalizzazione, il P.E. ha saputo rafforzare il suo peso politico con importantissime ed attente Risoluzioni, soprattutto in campo sociale e nella difesa delle libertà fondamentali (questione delle black lists), anche se nel caso della direttiva Retour, ha ceduto alle peggiori spinte securitarie ed oscurantiste.
Il Trattato di Lisbona (che prevede l’unificazione tra pilastri e quindi la codecisione nella grandissima maggioranza dei casi, nonché un sensibile incremento delle ipotesi di voti a maggioranza qualificata) appare più che mai fondamentale per rafforzare l’organo comunitario a mandato universale facendolo anche apparire con più evidenza come “responsabile” delle proprie scelte ed inducendolo a dare il proprio consenso al Presidente ed agli altro membri della Commissione sulla base di programmi politici e non solo di complesse mediazioni tra Stati.
E’ forse superfluo ricordare che il Trattato prevede l’obbligatorietà formale della Carta di Nizza e quindi rappresenta una indubitabile proiezione di ordine costituzionale per il futuro: la Carta, come tutti i Bill of rights, una volta definita la sua natura obbligatoria, ancor più di oggi, costituirà non solo la base per una protezione multilivello dei diritti fondamentali, ma anche uno strumento di indirizzo e di orientamento per le politiche dell’Unione e per l’attività dei suoi organi.
Dall’Europa vengono importanti e forti proposte nella lotta all’esclusione sociale; attraverso l’approvazione nel 2007 di principi comuni di flexicurity (con suoi tre pilastri: la formazione permanente e continua, il diritto ad un basic income sia come garanzia dei ” minimi vitali” sia come diritto alla continuità di reddito nelle transizioni lavorative, l’accesso ai servizi pubblici o di interesse generale) e l’obbligatorietà ufficiale della Carta di Nizza forse si riuscirà a rendere le indicazioni del metodo aperto di coordinamento più stringenti di quanto non siano adesso forzando paesi come l’Italia a rispettare i parametri e gli obiettivi della Lisbon Agenda.
Purtroppo le politiche europee sull’immigrazione, come già accennato, mostrano di essere in stridente contrasto persino con antichi principi di tolleranza e rispetto della dignità umana riconosciuti dallo ius gentium, ma in questo settore la perversa inventiva di alcuni paesi (come il nostro) sta travolgendo le stesse direttrici sopranazionali mettendo a repentaglio persino il basilare diritto alla salute dei
soggetti migranti. A noi sembra che, visto l’atteggiamento dei Parlamenti nazionali e persino di quello di Strasburgo (ma anche delle stesse Corti costituzionali interne), sia essenziale cercare di contrastare l’inciviltà montante innanzitutto con il ricorso alla giurisdizionale sovranazionale che forse potrebbe essere in grado di resistere al populismo intollerante dilagante (qualche segnale in questo senso ci sembra venga dalla recente sentenza della Corte di giustizia sui rifugiati).
In materia di difesa dell’ambiente e di ricerca l’Europa potrà giovarsi di una visione molto più compatibile con il punto di vista delle istituzioni europee come quella della Presidenza Obama che anzi potrebbe costituire addirittura un traino per iniziative in materie decisive come gli accordi per la riduzione delle emissioni, le strategie di superamento delle fonti tradizionali di energia, un’agricoltura ecologicamente sostenibile.
Per quanto riguarda la difesa del mercato dalla crisi finanziaria l’Europa sembra in ritardo nell’adottare linee politiche di rottura con un passato ancora presente di rinuncia al controllo della correttezza dei comportamenti delle imprese e di rispetto dei diritti degli utenti e dei consumatori. E’ fondamentale che una visione non regressiva si imponga superando i falsi alibi della congiuntura economica depressiva per liquidare le politiche di controllo democratico del mercato e di accesso alla giustizia dei cittadini.
In quest’ultima prospettiva il tema della tutela collettiva è sicuramente uno dei più cruciali.
La Giurisdizione
I due anni appena trascorsi sono stati anni di grande intensificazione nel dialogo tra Corti e nel processo di osmosi tra giurisdizioni di diverso livello.
Le due Corti sovranazionali hanno tra loro reso sempre più stretti i rapporti e moltiplicato i reciproci rimandi; il periodo “eroico” della Corte dei diritti dell’uomo, che cerca di definire in tutti gli ordinamenti nazionali il peso delle proprie decisioni e di superare persino il carattere “rimediale” della tutela offerta, non sembra minacciare l’autonomia e l’autorevolezza della Corte di giustizia di Lussemburgo: tra di loro si mantiene un equilibrio “virtuoso” nel quale in genere si ha un convergere delle opzioni interpretative, con apprezzabili effetti garantisti. L’adesione dell’U.E. alla Cedu, con la ratifica del Trattato di Lisbona, aprirà scenari di rara fascinazione e di estremo interesse, ancora in larga parte da esplorare.
Il fenomeno di ibridazione tra le fonti, soprattutto in materia di diritti fondamentali, è del resto dilagante, basterà pensare al continuo rinvio da parte della Corte interamericana dei diritti dell’uomo alla giurisprudenza della Cedu o della Corte di giustizia ed all’argomentare reticolare attraverso le varie esperienze costituzionali, interne e sovranazionali, della nostra Cassazione nel caso Englaro.
Per quanto riguarda la Corte di giustizia si deve in primo luogo ricordare che dal giugno del 2006 la Corte finalmente utilizza in vario modo le norme della Carta di Nizza ( abbiamo contato 12 sentenze); a questa ” efficacia anticipata” nelle aule del Lussemburgo si aggiungono le numerose sentenze della Corte di Strasburgo che dal 2002 (caso Goodwin) considera il Bill of rights europeo come vincolante (ricomprendendolo tra la community law).
Il richiamo alla sentenza Goodwin ci consente di sottolineare, d’altro canto, la straordinaria centralità che ha assunto, nel dialogo fra le Corti, la tutela dei diritti fondamentali come vero e proprio baricentro dei rapporti fra le stesse e come strumento avanzato di integrazione europea.
Spicca tra tutte le sentenze la Kadi del Settembre 2008 in cui la Corte di giustizia afferma finalmente il semplice ed aureo principio secondo cui necessariamente deve esserci un “giudice a Berlino”, sottoponendo così a sindacato, sotto il profilo del rispetto dei diritti fondamentali, un atto emesso per dare esecuzione a provvedimenti antiterrorismo del Consiglio di sicurezza.
Più incerta è la situazione per quanto riguarda il settore sociale. La Corte ha proseguito, giudicando il suo operato nel suo insieme, a rendersi importante garante dei diritti socio-economici, soprattutto nella loro connessione con il principio di non discriminazione, con coraggiose sentenze emesse a favore di minoranze ad orientamento sessuale non tradizionale. Sul ” fronte caldo” dei lavori atipici si è cercato di valorizzare le (poche) norme approvate negli anni 90.
Deve altresì riconoscersi la valenza emancipatoria di alcuni principi affermati dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia in materia di contratti a termine. Vanno ricordate, principalmente, le sentenze Mangold ( c. 144-04 del 22.11.2005 sulla legislazione tedesca ) , Adelener ( c. 212/04 del 4.7.2006 sulla legislazione greca ), Marrosu e Sardino ( 7.9.2006 sulla legislazione italiana ) ed Impact ( 15.4.2008 ) sulla legislazione irlandese.
In quest’ultima, in particolare è stata ribadita l’applicazione diretta del principio di non discriminazione rispetto ai lavoratori a tempo indeterminato contenuto nella clausola 4 dell’accordo quadro allegato alla Direttiva 99/70/CE sui contratti a termine, nonché dell’art. 136 del Trattato Ce, sia in relazione alle condizioni di lavoro che alla specifica determinazione degli elementi costitutivi della retribuzione.
Ma non possiamo non ricordare le problematiche e molto discusse decisioni della fine del 2007 e del 2008 in materia di diritto allo sciopero ed all’azione collettiva se esercitato per impedire le cosiddette libertà comunitarie ( gli oramai celebri casi Viking e Laval) e sui diritti dei lavoratori in distacco (Ruffert): nelle prime due -che comunque, per la prima volta, sanciscono il carattere di diritto fondamentale del diritto di sciopero- è stata richiamata anche la Carta di Nizza, anche se con effetti controversi.
Oggi i pericoli di social dumping paventati in relazione a tali sentenze appaiono meno pressanti per via della crisi: l’aggressività delle ” tigri baltiche” nello sfruttare appalti nei paesi più ricchi è molto indebolita, ma i problemi che le decisioni pongono sono ancora sul tappeto. Le sentenze (sebbene piuttosto diverse tra loro, anche per quanto riguarda le loro conseguenze pratiche) non sono apparse comunque all’altezza delle questioni implicate, nonostante l’entrata sulla scena della Carta di Nizza. In questo caso l’opera di “supplenza” della Corte nel prefigurare un corretto equilibrio tra diritti sociali e libertà comunitarie è mancata: il sindacato europeo giustamente ne ha tratto la convinzione dell’urgenza nella ripresa della costruzione di quei minimi di trattamento per l’intera Unione già previsti all’art. 137 del Trattato di Amsterdam, di una costruzione sociale che recuperi il valore ed il ruolo della norma inderogabile comunitaria, anche per modificare gli orientamenti della Corte.
Venendo all’Italia abbiamo avuto significative novità: con le sentenze nn. 348 e 349 del 24 ottobre 2007 la Corte costituzionale ( pur smentendo la tesi seguita da parte della giurisprudenza della immediata applicabilità delle norme Cedu con conseguente possibilità di disapplicare quelle interne ritenute in contrasto con le prime) ha assegnato alla Convenzione del 1950, così come interpretata dalle sentenze della Corte dei diritti dell’uomo, il ruolo di parametro interposto ex art. 117 cost. della costituzionalità dei provvedimenti di legge. Con l’ordinanza n. 103 del 2008 la Corte ha aperto un nuovo dialogo diretto con la Corte di giustizia incentrato sul rinvio pregiudiziale.
D’altro canto sul piano nazionale, ci rendiamo conto di come, tradizionalmente, la dottrina abbia concentrato la propria attenzione sul rinvio pregiudiziale come strumento di cooperazione fra giudici ordinari e Corte di Giustizia registrando le resistenze delle Corti Costituzionali nazionali nell’utilizzazione di tale procedimento, con l’eccezione delle Corti belga, austriaca e, da ultimo, appunto, italiana e tendendo ad evidenziare un atteggiamento in qualche modo “oppositivo” delle Corti Costituzionali verso la Corte di Giustizia.
Poche indagini sono state dirette alle modalità del dialogo “nascosto” tra Corti nazionali e Corte di giustizia ed alle tecniche elaborate dalle Corti per consentire la coerenza dell’ordinamento giuridico multilivello e, al contempo, per assicurare l’autonomia costituzionale degli Stati membri e della stessa UE nel bilanciare le ragioni della diversità con quelle della integrazione lungo un percorso difficile, ma in continuo sviluppo, nel’ alternanza fra soluzioni “morbide” e rigide applicazioni del principio di primazìa.
La “comunitarizzazione” del diritto interno passa attraverso la progressiva “umanizzazione” del diritto del mercato comune, cioè la ricerca di un punto di equilibrio tra diritti di diversa generazione e tra i criteri dell’integrazione economica e i principi dell’integrazione e della coesione sociale ( che poi è una della ragioni alla base dell’elaborazione di un Bill of rights europeo). E’ emersa nel tempo una condivisione di valori e quindi di spazi fra ordinamento nazionale ed ordinamento comunitario che ha condotto, alla fine, a quella progressiva flessibilizzazione delle supremazie che caratterizza la più recente evoluzione del rapporto fra diritti e che è stata accompagnata da un atteggiamento meno intransigente delle Corti interne.
Le Corti costituzionali, infatti, da una parte hanno iniziato ad accettare compiutamente il primato del diritto comunitario, affidandone il controllo ai giudici ordinari, dall’altra, hanno preteso di mantenere il proprio ruolo di garanti della identità costituzionale nazionale ma si sono aperte ad una visione collaborativa nella costruzione di un sistema multilivello di tutela dei fundamental rights, come si prova dal moltiplicarsi dei riferimenti nelle sentenze agli orientamenti interpretativi dei giudici di Strasburgo e del Lussemburgo.
Si è enormemente consolidato, in questi anni, quel controllo diffuso di compatibilità con il diritto comunitario da parte dei giudici interni, da cui ha avuto origine un massiccio ricorso allo strumento del rinvio pregiudiziale che consente la corretta applicazione del diritto comunitario oltre che, spesso, quella non applicazione del diritto interno incompatibile con le disposizioni sovranazionali dotate di efficacia diretta, secondo il doppio percorso disegnato per il nostro ordinamento dalla sentenza Granital mediante l’individuazione di un sicuro fondamento costituzionale per l’ordinamento comunitario nell’art.11. (ed oggi nel mutato art. 117).
Ma sotto un altro profilo l’attività dei giudici interni è stata particolarmente intensa: la funzione di uniformizzazione perseguita con l’obbligo di interpretazione conforme, ha assunto nel tempo, soprattutto per effetto di alcune decisioni della Corte di Giustizia, un rilievo quasi inaspettato. L’interpretazione conforme nasce dall’impegno per tutti gli organi degli Stati membri, ivi compresi, nell’ambito della loro competenza, quelli giurisdizionali, di conseguire il risultato contemplato dalla direttiva, come pure dall’obbligo imposto dall’art. 5 del Trattato (oggi art. 10) di adottare tutti i provvedimenti generali o particolari atti a garantire l’adempimento di tale impegno (nonché più in generale dal principio di leale collaborazione): l’onere di assicurare l’effettività delle direttive nell’ordinamento interno viene a gravare essenzialmente sul giudice dando, così, il via ai nuovi percorsi dell’interpretazione conforme.
I giudici nazionali sono tenuti ad interpretare le norme prodotte dal proprio ordinamento in base ai principi del diritto comunitario e non solo in base alle norme nazionali: l’obbligo di interpretazione conforme delle disposizioni concernenti una materia in cui sia intervenuta una normativa comunitaria riguarda non solo le norme emanate in applicazione della stessa ma anche quelle di origine interna, anteriori o posteriori all’adozione dell’atto comunitario e, secondo l’interpretazione più diffusa, concerne tutti i casi in cui la regola “nazionale” ricada oggettivamente nel cono d’ombra del diritto comunitario.
Nella dimensione europea, allora, l’annullamento della contrapposizione tra “Europa dei diritti” ed “Europa del commercio”, ha fatto dei diritti fondamentali il nucleo centrale della giurisprudenza della Corte di Giustizia; l’allargamento dell’Unione Europea a 27, e l’estensione della giurisprudenza CEDU oltre gli originari confini della Convenzione hanno fatto il resto, creando un circuito di standards virtuosi che ha affiancato in modo prorompente la dimensione nazionale mentre è andata consolidandosi quella che sembrava l’utopica prospettiva di una Comunità di diritti fondamentali come telos dell’integrazione.
Il lavoro di MD europa
Il Gruppo MD Europa ha cercato di portare questi contenuti all’interno della corrente, ha voluto diffondere il nuovo linguaggio dei diritti che passa attraverso le maglie europee ed ha inteso far circolare i più recenti standards di tutela delle posizioni più deboli senza sottacere le insufficienze delle politiche e delle pronunzie sovranazionali quando si presentassero.
Il linguaggio dei diritti è patrimonio “costituzionale” di MD ed è quindi imprescindibile che i percorsi della corrente si spostino sui binari più accreditati di tutela anche quando gli stessi non siano più dimensionati nei confini nazionali.
Il Convegno sulla Carta di Nizza e quello, dell’ottobre scorso sul Trattato di Lisbona hanno mirato ad incrementare lo scambio di conoscenze con gli ambienti accademi proprio con la finalità di restituire ai diritti il loro spazio fondamentale nel dibattito dottrinario e giurisprudenziale ed hanno avuto la finalità di condividere con la corrente e con i più sensibili operatori del diritto le esperienze garantiste via via affinatesi in ambito sovranazionale.
Lo straordinario successo dei Convegni è stato affiancato dalle pubblicazioni sulla Carta – l’ultima delle quali frutto della straordinaria collaborazione di iscritti alla corrente – mentre è in corso di pubblicazione il testo che raccoglie gli interventi di altissimo livello (da Rodotà a Tesauro, a Ridola ecc.) del Convegno sulle “scommesse dell’Europa”.
Contemporaneamente il Gruppo ha cercato di portare le indicazioni europee con approfondimenti negli altri Convegni organizzati per settori specifici (Napoli sui contratti a termine, Roma sui consumatori, Palermo sulle donne e la magistratura, Modena sulle discriminazioni).
Il sito www.europeanrights.eu, frattanto, ha diffuso in modo straordinario le pronunzie e gli atti europei sui diritti fondamentali raggiungendo le oltre 330.000 consultazioni e fornendo una linfa inaspettata all’Osservatorio sul rispetto dei Diritti fondamentali costituito con Medel, l’Università di Bologna, la Fondazione Basso.
In questo lasso di tempo d’altro canto proficua è stata la collaborazione con MEDEL la cui presidenza italiana resta per noi un successo di grande rilievo ed una acquisizione fondamentale.
Numerose sono state le attività di MEDEL che hanno rappresentato una buona linfa per MD Europa e hanno apportato un grande contributo all’attività dei magistrati democratici, dalla partecipazione alla III Conferenza internazionale dei giudici, sui Consigli della Magistratura, al dibattito di Lubecca sulla “Modernizzazione della Giustizia” alla partecipazione al quinto Forum mondiale dei giudici che ha avuto luogo in Brasile dal 21 al 29 gennaio scorsi mentre appare di grandissimo interesse l’iniziativa di “audit” mirati a verificare la situazione dell’organizzazione giudiziaria e lo stato dei diritti nelle procedure nei singoli Paesi che verrà inaugurata in maggio con una visita in Portogallo, all’attività della neo costituita Medel social che produce un documentatissimo Magazine mensile sulle dinamiche (in termini normativi, giurisdizionali, ma anche di dibattito nella pubblica opinione) dell’Europa sociale.
I rapporti sempre più stretti con associazioni di colleghi a noi vicine (in particolare gli spagnoli, i portoghesi, i tedeschi, i francesi ma anche nuovi arrivati come i giudici rumeni) sotto la regia di MEDEL rappresentano un momento essenziale per arginare o orientare ad una maggiore razionalità le stesse proposte di riforma della Giustizia consentendoci sulle singole questioni di potere fare importanti valutazioni di ordine, comparativo e di denunciare eventuali deviazioni dalle indicazioni del Consiglio d’Europa e dell’UE. In questi due anni il ruolo di MEDEL nell’ambito dei processi di governance e consultazione europei si è enormemente rafforzato e radicato.
MEDEL ha agito in una logica inclusiva, in cui il patrimonio di indipendenza e di riflessione collettiva della magistratura italiana ha potuto essere valorizzato ed utilizzato per il dialogo e la costante costruzione di valori comuni.
Conclusioni
Pensiamo sia comunque difficile che la magistratura nel suo insieme ed anche il punto di vista democratico possa salvarsi dalla “catastrofe” costituzionale in atto attraverso mezzi e risorse puramente interne. Ci troviamo di fronte a fenomeni che non hanno precedenti: ricorrenti tentativi di linciaggio di immigrati ed episodi di assalti “punitivi” contro negozi di extracomunitari (che richiamano alla memoria gli anni 30 in Europa) mentre ronde ” legalizzate” perlustrano nostre città, il tutto con un consenso di massa che sarebbe futile negare. Che dire, per limitarci ai casi più eclatanti, del tentativo di sospendere con un decreto legge la vigenza di un principio previsto dalla nostra Costituzione, dalla Carta di Nizza e da atti internazionali come la Convenzione di Oviedo (caso englaro), o della scelta di mettere in pericolo il diritto alla salute di chi non ha un visto?
Si illude chi ancora confida sullo sdegno di questo paese e sul fatto che basti agitare i valori della Costituzione per ottenere ascolto: occorre, anche, invocare ( come peraltro fa spesso l’Economist nei suoi editoriali) una cura simile a quella utilizzata per l’Austria alla fine degli anni 90. Può forse distrurbare la sensibilità di chi ritiene ancora l’Italia un “Eden dei diritti”, ma la saldatura con la tradizione democratica europea è strategicamente essenziale, almeno ad evitare l’irreparabile.
Non sappiamo se sia già corretto definire l’Italia come il paese più intollerante e xenofobo del vecchio continente, ma certo la deriva è evidente e può produrre degenerazioni che sarebbero state inimmaginabili ancora poco tempo fa.
Non sappiamo, neppure, se l’Europa sia in grado di costituire un baluardo valido contro questa deriva, ma il ricorso a valori costituzionali comuni, ai valori ed ai principi giuridici comuni alle nazioni civili ( per usare le espressioni del diritto internazionale), che valorizzi e dia rinnovata credibilità al tempo stesso al sistema di valori e di diritti dell’ordinamento interno, è uno strumento che va utilizzato e sviluppato in ogni sua potenzialità. Oggi si riaffacciano critiche velenose ed ingiuste al sistema multilivello ed al principio di superiorità: sono frutto di una impotenza interna che indulge all’autodistruzione pur di salvare il punto e la propria coerenza metodologica nazionalista (per dirla con Beck).
Non sappiamo se abbia senso la domanda su che cosa vuol dire essere giudici oggi a sinistra, ma certamente nessuna sinistra italiana saprà mai ricostituirsi e nessuna magistratura saprà collocarsi in questo spazio politico, se non ci sarà un vero rinnovamento che si proietti su di una dimensione costituzionale europea e che sappia guardare alle speranze che il presidente Obama ha generato nell’intero pianeta.
Il nuovo corso di MD resterà monco se non percorrerà le nuove strade dei diritti, quelle che si muovono lungo i binari dell’integrazione europea in quanto strumento imprescindibile di tutela di quei valori, corollario dell’uguaglianza. L’ordinamento sovranazionale è in grado, oggi, di proteggere in maniera effettiva e duratura quel nucleo valoriale (quel patrimonio ” comune”), in stretta saldatura con l’orizzonte di principi ed il sistema di diritti della costituzione del 48 che, in una dimensione costituzionale continentale, troverebbe una rinnovata e più forte legittimazione culturale e sociale, apparendo come uno dei più felici ed ancora produttivi momenti nella costruzione integrata e composita di una vera cittadinanza democratica dell’Unione.
Magistratura Democratica