La strada imboccata dall’Esecutivo Monti verso la riforma del mercato del lavoro e degli ammortizzatori sociali non mancherà a breve di tradursi in proposte e articolati di legge concretamente valutabili. Non è facile al momento districarsi nella coltre di dichiarazioni e smentite, è arduo prevedere oggi quale sarà il modello di protezione sociale che il Governo licenzierà nelle prossime settimane. Un sicuro punto di partenza sembra però essere, nelle grosse linee, il progetto da molto tempo sponsorizzato dal senatore del PD e professore di diritto del lavoro Pietro Ichino (progetto formalizzato nel ddl S1481 e di recente ripreso nel saggio Inchiesta sul lavoro. Perché non dobbiamo avere paura di un grande riforma, Mondadori, 2011, 18 euro). Una riflessione un poco più ravvicinata su questo disegno di riforma sarà quindi utile per contribuire criticamente allo sviluppo del dibattito e capire come meglio proporre il tema del reddito garantito.
La strada imboccata dall’Esecutivo Monti verso la riforma del mercato del lavoro e degli ammortizzatori sociali non mancherà a breve di tradursi in proposte e articolati di legge concretamente valutabili. Non è facile al momento districarsi nella coltre di dichiarazioni e smentite, è arduo prevedere oggi quale sarà il modello di protezione sociale che il Governo licenzierà nelle prossime settimane. Un sicuro punto di partenza sembra però essere, nelle grosse linee, il progetto da molto tempo sponsorizzato dal senatore del PD e professore di diritto del lavoro Pietro Ichino (progetto formalizzato nel ddl S1481 e di recente ripreso nel saggio Inchiesta sul lavoro. Perché non dobbiamo avere paura di un grande riforma, Mondadori, 2011, 18 euro). Una riflessione un poco più ravvicinata su questo disegno di riforma sarà quindi utile per contribuire criticamente allo sviluppo del dibattito.
Il punto cruciale della proposta sta nel superamento dei vincoli alla cosiddetta flessibilità in uscita (licenziamenti più “facili”, dunque), in cambio di una sostanziosa indennità di disoccupazione della durata di quattro anni. A fronte di questa maggiore generosità nell’accesso al sussidio il disoccupato dovrà acconsentire a stipulare un accordo di ricollocazione con una apposita agenzia privata, che gli erogherà il sussidio (anche con proprie risorse, oltre alle risorse oggi gestite dall’INPS) e che avrà un interesse economico a situare velocemente il lavoratore in un nuovo contesto produttivo.
Il proposito della riforma è quello di superare il dualismo del mercato del lavoro, caratterizzato – secondo quanto si dice nella relazione introduttiva – da una vera e propria apartheid tra lavoratori protetti e lavoratori precari che portano da soli tutto il peso della flessibilità. La risposta che si tenta di dare a questa condizione sta nella creazione di una forma di tutela uniforme, che si colloca a un livello “mediano” rispetto alla polarizzazione oggi esistente. Riguardo a questa analisi è forse il caso di delineare un’immagine più realistica della realtà del lavoro nel nostro Paese, che non è tanto caratterizzato da un dualismo, quanto piuttosto da una moltiplicazione indefinita delle posizioni, fino quasi a un’individualizzazione della situazione di ciascuno. Tale situazione, se in parte è stata il frutto di una cedevolezza eccessiva da parte del legislatore alle esigenze dell’impresa, in parte è anche lo specchio fedele di una produzione che si è fatta ormai “liquida”, non catalogabile, irriducibile a macro schemi unificanti. Non di dualizzazione, dunque, si dovrebbe parlare, piuttosto di propagazione indefinita di rapporti contrattuali sempre diversi e cangianti. Siamo dunque destinati alla balcanizzazione delle tutele e delle società? Niente affatto, il punto sta nell’accordare un livello universale di tutele che faccia da contraltare alla molteplicità delle esperienze contrattuali individuali. Con alcune garanzie forti, valide per tutti e introdotte per legge (e non con la sempre più fragile contrattazione collettiva), si potrebbe guardare alla segmentazione esistente con meno allarme, perché sarebbero esclusi alla radice i rischi di dualizzazione.
Tra le tutele universalistiche da introdurre per legge vi è certamente la garanzia compiuta ed efficace del reddito in tutte le fasi della vita produttiva e non. Solo quando sarà realizzato questo obiettivo di “dare forza” al cittadino produttivo anche fuori e oltre la sfera lavorativa, si potrà dire superata la condizione di precarietà esistenziale che oggi affligge gran parte della popolazione più o meno giovane. Occorre insomma rendere garantito per il lavoratore, anche fuori dal rapporto contrattuale con l’impresa, un livello minimo e intangibile di diritti, così da permettere un incontro finalmente alla pari tra domanda e offerta di lavoro; ciò potrebbe dare luogo a dinamiche sociali fortemente innovative, capaci di coniugare le esigenze di flessibilità delle imprese con le incomprimibili (e rigide) esigenze vitali dei cittadini lavoratori.
Il DdL in questione, occorre dirlo, è totalmente refrattario rispetto a questo nuovo e urgente obiettivo di crescita civile e sociale. Nonostante il richiamo alla flexicurity scandinava, la riforma è saldamente ancorata alla concezione – prevalentemente diffusa nei paesi anglosassoni – del welfare to work, che viene peraltro proposta in una forma coercitiva raramente riscontrabile nei paesi europei. In definitiva l’elemento di criticità che più vistosamente emerge dalla lettura della proposta risiede nel feticcio della ricollocazione a tutti i costi, rapida ed efficiente, del lavoratore disoccupato. La risposta alla crisi produttiva e alla conseguente perdita di posti di lavoro sta dunque nella mera attivazione, su un piano volontaristico, dell’attitudine del lavoratore a rendersi disponibile a nuove esperienze formative e/o di impiego. In cambio di una relativa sicurezza in termini di reddito e in termini sociali, il lavoratore si presta a una totale disponibilità nei confronti del datore di lavoro (che può licenziarlo senza giusta causa, monetizzando la sua uscita dall’impresa) e dell’agenzia di ricollocamento (che può a sua volta allontanarlo se non viene accettata una qualsiasi proposta di impiego). L’effetto finale della riforma sarebbe di fatto quello di consegnare anche i sussidi esistenti (magri certo, ma pur sempre a carattere pubblico) nelle mani di un’agenzia privata.
Occorrerebbe imboccare una strada diversa. Occorrerebbe in primo luogo approntare e definire uno strumento di garanzia universalistica, di base, tendenzialmente incondizionata dei mezzi di esistenza. Ne va della sopravvivenza dei nostri sistemi di protezione sociale. Adempiuta questa assoluta priorità il capitolo della riforma del mercato del lavoro potrà forse essere affrontato con maggiore serenità e disponibilità alla sperimentazione.