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Oltre la crisi: giustizia globale, uguaglianza, movimenti sociali

di U-topia

A maggio del 2011 John Holloway ha partecipato al workshop ‘Beyond the crisis: global justice, equality, social movements’ (‘Oltre la crisi: giustizia globale, uguaglianza, movimenti sociali’) organizzato dal Master in Educazione della Comunità, Uguaglianza e Attivismo Sociale dell’Università di Mynooth (Dublino). A latere del workshop lo abbiamo incontrato e intervistato affrontando temi quali crisi, lavoro, potere, alternative.

 

Intervista a John Holloway

 

A maggio del 2011 John Holloway ha partecipato al workshop ‘Beyond the crisis: global justice, equality, social movements’ (‘Oltre la crisi: giustizia globale, uguaglianza, movimenti sociali’) organizzato dal Master in Educazione della Comunità, Uguaglianza e Attivismo Sociale dell’Università di Mynooth (Dublino). A latere del workshop lo abbiamo incontrato e intervistato affrontando temi quali crisi, lavoro, potere, alternative.

U-topia Project: Una volta si diceva “socialismo o barbarie”, oggi il mondo si trova effettivamente a questo bivio? Cioè cadere nella barbarie generale o individuare alternative a questa?

John Holloway: Credo che si possa dire di sì. La dinamica del capitalismo è sempre più distruttiva, ci sta sempre più conducendo verso uno stato che sicuramente definirei di barbarie che minaccia di distruggere completamente e totalmente l’umanità. Ciò che dobbiamo fare è trovare il modo di rompere tale dinamica. E sviluppare un’alternativa sembra quindi veramente essere più urgente che mai.

U-P.: Per una strategia di avanzamento dei diritti si è mostrato promettente negli ultimi decenni l’uso del concetto di “dignità umana”. Facendo leva su questo meta-principio o meta-diritto (codificato in molte costituzioni e in molte convenzioni internazionali) le istanze popolari sono riuscite talvolta ad aprire spazi di autonomia (pensiamo ai movimenti degli indigeni, ai diritti dei lavoratori, all’affermazione dei neri o dei movimenti femministi). Cosa pensa di questa strategia? E più in generale: che definizione darebbe della dignità umana? 

J. H.: Personalmente, ho iniziato a pensare alla questione della dignità con l’insurrezione zapatista in Messico. Il termine dignità non era molto usato nella tradizione marxista. Poi, quando gli zapatisti si sono ribellati e hanno preso la parola, hanno cominciato a parlare e a insistere su questa questione della dignità. Per dignità io intendo il riconoscimento della potenzialità umana, il riconoscimento delle persone come soggetti. In altre parole, la tradizione rivoluzionaria, in una certa misura, ha trattato le persone come oggetti, come vittime del capitalismo. Ma con il concetto di dignità tutto questo cambia perché non pensiamo più alle persone come vittime o come oggetti ma come soggetti che sono stati oggettivizzati o come persone attive che sono state vittimizzate. La dignità è il riconoscimento che in noi c’è qualcosa di più dell’essere vittime, c’è qualcosa di più dell’essere oggetti di oppressione. Il punto centrale è realmente la nostra soggettività e la nostra lotta contro la negazione della nostra dignità, la nostra lotta per una dignità vera, per il riconoscimento mutuale, per un mondo diverso, la lotta per la nostra umanità. E questo comporta un concetto completamente diverso di organizzazione perché poi quello che ne deriva è che se le persone hanno una loro dignità, beh, allora dobbiamo ascoltare quello che dicono. Si rompe dunque con la politica del monologo, si rompe con l’idea che la politica rivoluzionaria significa dire alle persone che cosa dovrebbero fare. Il grande cambiamento allora significa ascoltare le persone e chiedere loro che cosa dovremmo fare. E questo significa pensare non in termini di strutture gerarchiche, non in termini di partiti, ma in termini di assemblee, di consigli, in termini di diverse forme di organizzazione che cercano di articolare il pensiero e le idee delle persone. 

U-P.: Nei suoi scritti affronta spesso il tema del potere, distinguendo tra power-to (potentia) e power-over (potestas). In che modo è possibile manifestare il power-to nella quotidianità delle nostre vite, forgiata dalla precarietà, l’esclusione e la frammentazione? 

J. H.: L’idea del power-to è un’estensione del concetto di dignità. E’ un’estensione dell’idea che non siamo solo vittime, che in realtà abbiamo potere. Certo, viviamo in una società caratterizzata dal potere capitalista e siamo oggetto di una dominazione ma questo significa allo stesso tempo che resistiamo a questa dominazione, che la combattiamo e anche che cerchiamo di andare oltre essa. Credo che dovremmo pensare alla rivoluzione e al cambiamento radicale non in termini di presa del potere; non è una questione di prendere il controllo dello stato, è piuttosto una questione di costruire il nostro potere per fare le cose in maniera differente. Voglio dire, se si pensa al modo in cui usiamo il potere nella conversazione quotidiana vediamo che da una parte lo usiamo per esprimere il power-over (il potere della dominazione) ma dall’altra lo usiamo anche in riferimento alla nostra abilità nel fare, nel cambiare le cose, nell’unirci per un fare collettivo. Quindi, la trasformazione della società deve essere intesa come l’articolazione del nostro potere di fare le cose in maniera differente. 

U-P.: Oggi, nel suo intervento ha parlato di come il denaro determini la nostra attività. Non è piuttosto il lavoro, e la sua mancanza e/o ricerca, a determinarla? Potremmo definire il lavoro come una forma di controllo, il modo in cui il power-over si esplicita nelle nostre vite?

J. H.: Concordo che l’imposizione del denaro avviene attraverso l’imposizione del lavoro. Perché dobbiamo vivere, dobbiamo lavorare sotto il controllo di qualcun altro, per poter guadagnare denaro dobbiamo svolgere un lavoro che è determinato da forze che non controlliamo. Quindi la lotta contro il capitale deve essere la lotta contro il lavoro, la lotta contro il denaro è la lotta contro il lavoro. Lottiamo contro il lavoro sviluppando un diverso tipo di attività, un fare che proviene da noi stessi, che è un’attività su cui abbiamo potere decisionale, che consideriamo importante, necessaria e piacevole. E’ questo fare ad essere l’espressione del power-to, mentre il lavoro è l’espressione del power-over, del potere che proviene dall’alto. E un fare alternativo rappresenta quindi la mobilitazione del power-to, ossia il nostro potere di fare le cose in maniera differente. 

U-P.: Gran parte dei movimenti di trasformazione nell’occidente convergono sulla parola d’ordine del reddito garantito universale e incondizionato. Cosa pensa di questa misura? Ritiene che sia utile per un approccio critico al capitalismo contemporaneo? 

J. H.: Credo che il reddito garantito universale e incondizionato possa essere utile nella misura in cui ovviamente se tutti avessimo un reddito garantito non ci sarebbe più la stessa costrizione a vendere la nostra forza lavoro al capitale. D’altro canto, però, rivendicarlo dallo stato non mi sembra molto utile, in parte perché ci pone in un contesto di politica delle richieste. Una politica in cui rivendichiamo qualcosa dallo stato piuttosto che assumerlo noi stessi. Credo che questo sia pericoloso perché la politica delle richieste è necessariamente orientata verso lo stato, a cui chiedere appunto qualcosa. E in secondo luogo credo che nessuno stato possa dare un reddito minimo adeguato. Lo stato deve mantenere il lavoro salariato, deve mantenere la pressione sulle persone affinché siano costrette a vendere la loro forza lavoro. Se non lo facesse, il capitalismo non funzionerebbe. 

U-P.: Considerando però che il processo produttivo negli ultimi decenni si basa sullo sfruttamento e l’espropriazione della cooperazione sociale, della conoscenza, sulla totale pervasività del lavoro nelle nostre vite, tanto da farci dire che siamo produttivi anche quando non siamo al lavoro, può dunque il basic income essere considerato come uno strumento per riprenderci le nostre vite, per sottrarci dal ricatto del lavoro? L’idea di riprenderci quello che ci hanno tolto non può dunque rappresentare una crepa nel capitalismo?

J. H.: Certamente. Anche se riprenderci quello che ci tolgono quotidianamente non è solo una questione legata al basic income. Riprenderci quello di cui ci espropriano costantemente significherebbe riprenderci tutta la ricchezza del mondo. Che ovviamente vogliamo fare. Vogliamo dire che ciò che produciamo è nostro. Il punto è che non credo che lo stato possa mai accettarlo. Non credo che lo stato possa mai accettare il basic income. Lo può fare ad un livello minimo, forse. Lo può fare con forme di controllo e di sorveglianza ma non credo che lo stato possa accettare che possiamo avere la libertà di vivere le nostre vite come desideriamo. 

U-P.: Ma questa è la sfida. Perché altrimenti come possiamo oggi praticare il nostro rifiuto del lavoro se non essendo indipendenti economicamente? Lei afferma che è possibile aprire crepe nel capitalismo svolgendo attività altre. Molti lo fanno già, pur con grande sforzo visto che devono comunque lavorare 8/9 ore al giorno e poi cercare tempo ed energie per fare dell’altro. Ma in questo modo non abbiamo comunque abolito l’altra parte della giornata, quella messa a produrre valore per il capitale. 

J. H.: Questo è vero. Credo che il basic income abbia senso, a parte che non ha senso chiederlo allo stato. E la mia preoccupazione è che vengano canalizzate energie verso una direzione che rischia di non funzionare. Ha senso se diciamo che in un modo o nell’altro prenderemo il controllo delle risorse che ci fornirà un basic income. Ma non ha senso pensare che possiamo portare lo stato ad accettarlo. Perché non credo che lo farebbe mai. L’altra domanda sulle crepe. Credo che abbiate ragione a parlare di crepe, voglio dire, come pensiamo alla nostra esistenza materiale se non vendiamo la nostra forza lavoro al capitale? Credo che dobbiamo pensare in termini di differenza, in termini di varietà di risposte. Spesso, persino quando lavoriamo abbiamo più potere di quanto crediamo di avere. Abbiamo il potere di dirigere il nostro stesso lavoro contro il capitale. Se si pensa agli insegnanti, per fare un esempio,  nelle loro classi hanno in verità il potere di dire tutto ciò che vogliono dire. Forse non ce l’avranno per sempre, forse a un certo punto avranno dei problemi per questo, o perderanno il loro lavoro, forse non faranno carriera ma in realtà essi hanno uno spazio, che considerano uno spazio comune che può essere forgiato, insieme agli studenti. E credo che questo valga per molte altre attività. C’è molto più spazio nel capitalismo di quanto non pensiamo ce ne sia. E credo che un’altra questione molto importante sia come consideriamo la precarietà. Ci sono tantissimi dibattiti su cosa significhi precarietà e su quanto sia diffusa . Molte discussioni sono in termini di come possiamo trovare il modo di garantire lavori appropriati per i giovani. Credo che questa sia la direzione sbagliata. La questione reale non è come possiamo farci sfruttare maggiormente. La questione è che precarietà significa sicuramente che siamo tutti più poveri e insicuri ma significa anche che abbiamo molto spazio, molto tempo per volgere le nostre attività verso una direzione diversa, volgerle contro il capitale o semplicemente volgerle verso cose che amiamo fare. Il mio sospetto è che ci sia qualcosa di contorto nelle discussioni sulla precarietà. Perché se si guarda alle persone che si trovano in situazioni di occupazione precaria, non è che spendono tutto il loro tempo a cercare lavoro. In parte lo fanno, ma usano anche il loro tempo per attività politiche, per fare musica, per fare arte. E probabilmente l’intera base sociale di molte attività anticapitaliste degli ultimi 15-20 anni è stata composta di fatto da quello spazio precario. In altre parole, dobbiamo pensare alla precarietà non solo come la nostra precarietà ma come la precarietà del dominio, la precarietà del capitale. 

U-P.: La crisi economica attuale sembrava essere solo dentro le dinamiche di finanziarizzazione del capitale. Poi è diventata crisi economica a tutti gli effetti distruggendo milioni di posti di lavoro. Quale è oggi il ruolo del lavoro vista la proletarizzazione dei ceti medi, le forme di neoschiavismo e di precarizzazione di massa? E’ possibile oggi ripensare l’idea, il concetto, del lavoro fuori dalla sua ideologia novecentesca che ne faceva il pilastro dell’utopia liberale o anche socialista? 

J. H.: Innanzitutto, direi che per comprendere la crisi finanziaria dobbiamo guardare alla crisi dello sfruttamento del lavoro. La crisi finanziaria, la recente enorme espansione del capitale finanziario è veramente il problema di produzione del plusvalore, quindi in questo senso la questione lavoro nel senso di produzione di valore rimane centrale. Ma credo che quello che state suggerendo nella domanda è che la crisi del capitalismo deve essere compresa come la crisi del lavoro. La crisi del lavoro in due sensi, non solo nel senso che questa non stia semplicemente producendo abbastanza plusvalore ma anche nel senso che c’è una crisi del lavoro astratto, c’è la crisi della trasformazione dell’attività umana nel lavoro astratto che compie semplicemente i compiti del capitale. Credo che specialmente dal 1968 e naturalmente con il rifiuto del lavoro negli anni ’70 sia cresciuta l’idea che la rivolta contro il capitale deve essere la rivolta contro il lavoro, da intendere non solo nel senso del rifiuto del lavoro ma come possibilità di dedicare le nostre vite ad attività per fare qualcos’altro. Si comincia a pensare che valga la pena e che abbia senso aprire spazi per un mondo diverso. E credo che questa sia la rottura maggiore con l’ideologia del ventesimo secolo che era basata, specialmente dopo il 1968, sulla nozione unitaria del lavoro, nozione secondo la quale c’era il lavoro e basta. E la contraddizione era tra lavoro e capitale. Quello che vediamo è che il lavoro nel senso di lavoro astratto o lavoro alienato nasconde la soppressione di un tipo differente di attività che possiamo definire lavoro concreto o fare, o in qualsiasi altro modo. E questo differente tipo di attività sta sempre più affermandosi mettendo in crisi il lavoro astratto. Una volta che cominciamo a  parlare di anticapitalismo in questi termini allora non possiamo più dire che si tratta di una lotta del lavoro contro il capitale ma che la lotta contro il capitale è necessariamente anche la lotta contro il lavoro. E credo che questa idea stia crescendo per diverse ragioni. Il capitalismo non è più capace di  incanalare l’attività umana nel lavoro come faceva prima. La disoccupazione è un’espressione dell’incapacità del capitalismo di incanalare l’attività umana nella forma del lavoro e credo che questo significhi privazioni ma anche speranza.

 U-P.: Il progetto U-topia Nutrire il possibile tenta di narrare e di dare voce alle mille esperienze di rifiuto che continuamente si esprimono in occidente (e nel mondo), spesso in modo molecolare e poco appariscente (ci riferiamo ai conflitti quotidiani, alle pratiche alternative di consumo e di produzione, alle forme cooperative dal basso). Cosa pensa si debba fare per dare maggiore forza e coesione a queste esperienze? In che modo e dove si può rendere stabile o più incisivo il rifiuto dei rapporti sociali capitalistici?

 J. H.: In termini generali, credo dobbiamo guardare ovunque noi siamo, dobbiamo cercare di rifiutare e creare, non accettare cosa sta avvenendo, non accettare cosa ci sta facendo il capitalismo, non accettare la subordinazione delle nostre vite al dominio del denaro. Dobbiamo fare qualcosa di diverso con le nostre vite perché ne abbiamo una sola. Perché dovremmo quindi passare tutto il nostro tempo nel fare qualcosa che per noi non ha significato? In realtà dobbiamo rifiutare e creare, spingere il nostro fare nella direzione opposta, spingerlo contro il flusso di determinazione che viene dal denaro, che viene dal capitale. E lo facciamo, non solo dobbiamo farlo ma lo stiamo in realtà già facendo. E’ una questione di pensare come rafforzarlo, come possiamo unirci, come possiamo riconoscerlo innanzitutto e se lo riconosciamo, come possiamo rafforzarlo, come possiamo portare questo rifiuto e creazione insieme. Credo che una volta che cominciamo a pensare in questi termini diventa allora più semplice pensare a come possiamo unire e rafforzare questo processo. Non sono sicuro invece sulla maggiore stabilità da raggiungere, credo che qualche volta non aiuti pensare in termini di stabilità. Voglio dire, credo che dobbiamo solo pensare che abbiamo una mobilità rafforzata. Generalmente difendere qualcosa è un errore, è meglio pensare ad andare avanti, muovendoci più veloci di quanto faccia il capitale. Non dobbiamo necessariamente stabilizzare le cose, forse è molto più eccitante pensare in termini di un’evoluzione continua, che è ovviamente un processo costante di creazione, di immaginazione.

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