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Pensare il reddito di base nell’orizzonte del collasso

di Franco Berardi Bifo

Negli anni successivi alla crisi finanziaria del 2008 parve aprirsi una finestra di possibilità per disincagliare la potenza produttiva della macchina digitale dai vincoli della forma-salario. Nello sconquasso prodotto dalla follia finanziaria rivelata dalla crisi dei mutui sub-prime e tutto quel che ne è seguito, non si trattava di intraprendere una “riforma” politica, non si trattava di cambiare la legge. Si trattava di uscire dal modello semiotico del capitalismo finanziario, di avviare processi di cooperazione svincolati dallo scambio monetario: in qualche modo gli esperimenti di cyber-currency o di monete alternative comunitarie andarono in quella direzione, prima di essere riacciuffati dall’onnipotenza del sistema finanziario, con la sussunzione di bitcoin da parte del sistema speculativo globale.

Da decenni ormai la forma-salario – lo scambio tra tempo di vita e denaro – ha smesso di rappresentare in maniera adeguata il rapporto tra tempo, valore prodotto e plus-valore sottratto. Dal momento in cui il lavoro produttivo ha assunto la forma di lavoro cognitivo-semiotico, la relazione tra tempo di lavoro e valore è saltata, perché il lavoro cognitivo-semiotico è irriducibile a una quantificazione omologata.
Il tempo non è più capace di misurare il valore, e di conseguenza il salario ha perduto quella parvenza di legittimità e di fondatezza che aveva ai tempi del capitalismo industriale. Inoltre l’accelerazione tecnologica della produttività riduce costantemente il tempo di lavoro socialmente necessario e rende sempre più precaria la condizione di chi vive di salario. Aleatorietà del rapporto tra tempo e valore, e frammentazione del semio-lavoro che conosciamo come precarietà indicano un’unica soluzione ragionevole: un reddito universale in cambio della continua attività di formazione e socializzazione cui si sottopongono i cittadini, nella loro pura e semplice esistenza socializzata e connettiva.

Ma questa idea di reddito di cittadinanza è rimasta nel limbo delle ipotesi accademiche: questa soluzione ragionevole è comparsa qua e là nel dibattito sociologico e ha fatto capolino perfino nelle politiche anti-crisi di alcuni paesi come la Finlandia. Alcuni l’hanno presentata come forma di stimolo della domanda, altri come sostegno per i lavoratori precari nei periodi di disoccupazione temporanea. Pochi sono giunti a ipotizzare il reddito di base come forma adeguata a una società in cui la prestazione lavorativa è per natura frammentaria e ricombinante, quindi onnipresente ma anche difficile da localizzare nel tempo e nello spazio.
Ma alla fine il reddito di cittadinanza è rimasto confinato alla teoria perché ha prevalso una politica opposta: il quantitative easing inteso come facilitazione di credito per le istituzioni bancarie e finanziarie.

Il quantitative easing sperimentato dall’amministrazione Obama e poi dalla Banca Centrale Europea sotto la direzione di Draghi ha ampliato i margini di profitto finanziario con la finalità (largamente disattesa) di rendere più agevole l’accesso al credito per le aziende. In poche parole, invece di iniettare liquidità per aumentare la domanda si è scelto di aumentare i margini del profitto finanziario nella speranza (largamente frustrata) che una parte di questa liquidità giungesse alla società.
Qual è stato l’effetto di questa politica, per cui lo stato ha fornito enormi quantità di risorse monetarie a quelle istituzioni private che nei decenni del neoliberismo avevano provveduto a impoverire la società con la trappola del debito? E’ forse riuscito il quantitative easing a rilanciare la crescita, ha forse restituito energia espansiva all’economia mondiale? Con l’eccezione di paesi di recente industrializzazione (la Cina e l’India), i tassi di crescita sono rimasti di gran lunga inferiori a quelli dell’epoca gloriosa del capitalismo industriale o agli anni Novanta della new economy digitale.Qualcuno ha descritto l’andamento dell’economia mondiale pompata dal Q.E. come un grosso gallinaccio che riesce a svolazzare faticosamente rasoterra, ma non riesce a prendere il volo.

Molti indicatori economici e finanziari della seconda parte del 2018 fanno presagire l’imminenza di una recessione. L’espressione che si usa pudicamente è “slowdown”. Ma tutto lascia intendere che la migliore definizione del contesto in cui ci troviamo è quella di una stagnazione secolare, che alcuni leggono come segnale di un tendenziale esaurirsi del modello della crescita. (vedi: Larry Summers, Foreign Affairs, 2016). Ma il sistema, incapace di liberarsi del modello fondato sullo scambio tra lavoro e salario, e finalizzato all’accumulazione di capitale (in forma virtuale, finanziaria) ha continuato a concentrare risorse nelle mani di una minoranza sempre più ristretta, e di conseguenza ha continuato a impoverire la società.

Il gallinaccio riesce a tenersi a galla sbattendo le ali pennute, ma la società non riceve alcun beneficio da questa “ripresa”, anzi il salario diminuisce, le aree sociali di povertà si espandono, e la democrazia mostra di essere impotente a governare questa tendenza.
Questa impotenza della politica, conseguenza dell’onnipotenza dell’astrazione tecno-finanziaria, ha prodotto il crollo della democrazia e della stessa razionalità politica. L’ideologia neoliberale ha identificato la ragione con l’algoritmo finanziario, e l’inconscio collettivo reagisce con un’onda di odio contro la ragione. Il movimento neo-reazionario che si è scatenato tra il 2016 e il 2018 si oppone al globalismo ma non si sottrae alla regola finanziaria, rivendica rabbiosamente sovranità nazionale ma non riesce a spezzare la catena di dipendenza tecnica e finanziaria.

L’onda neo-reazionaria e nazionalista ha travolto le difese della democrazia liberale. La cosa più inutile che possiamo fare è precipitarci a difesa dei “valori” della democrazia liberale. Altrettanto inutile sarebbe riproporre il tema del reddito come misura congiunturale, o anti-congiunturale, come rimedio agli effetti del modello dominante (reddito in attesa di un’occupazione), come tentativo di rianimazione del gallinaccio.

La rivendicazione di un reddito di cittadinanza, che si è presentato al dibattito politico degli ultimi anni in forme diverse, ma non si è mai concretizzato in qualcosa di stabile e diffuso, non appare più realistica nel quadro globale che si va preparando. Se lo slowdown di cui si sussurra in modo sempre più insistente si trasforma nel prossimo anno in una nuova recessione globale è difficile immaginare quali nuove armi possano utilizzare le banche centrali, dopo aver dato fondo alle loro possibilità per fare fronte agli effetti mai superati della crisi iniziata nel 2008. Se inoltre consideriamo le variabili extra-economiche che complicano il quadro (il precipitare del cambiamento climatico e la grande migrazione che l’accompagna) il collasso appare inevitabile: un collasso di proporzioni colossali, una vera oscillazione gigante, che può provocare un’implosione del paradigma fondato sulla crescita e sull’accumulazione. Il collasso che viene non troverà soluzione entro il quadro della ragione economica capitalistica.

E’ in questa prospettiva dinamica che il tema del reddito va ripensato. Ma in termini molto più radicali di come è stato proposto nel passato. Il tema che si staglia all’orizzonte, oltre la catastrofe che l’ideologia neoliberale e il capitalismo finanziario hanno provocato, è quello della fine del salario come forma di semiotizzazione dell’attività produttiva.

 

Tratto da Quaderni per il Reddito n°9 Big Data, WebFare e reddito per tutti. Siamo in rete, produciamo valore, vogliamo reddito

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