Immaginiamo una società in cui il lavoro di cura – dei bambini, degli anziani, dei malati – sia affidato in tutto e per tutto allo stato, mentre invece la sicurezza – le funzioni di polizia, la prevenzione dagli incendi, ecc. – sia una faccenda privata, interamente devoluta alle famiglie. Immaginiamo che al posto delle stazioni di polizia e dei vigili del fuoco in ogni città, in ogni quartiere, vi siano Centri Statali di Accudimento dove i genitori lasciano i loro piccoli e/o i loro familiari anziani e malati ogni mattina prima di andare al lavoro. Questi Centri di Accudimento rappresentano anche una delle principali opportunità di impiego salariato stabile e sicuro, di riconosciuto prestigio sociale, tradizionalmente appannaggio, per le qualità naturalmente
intrinseche al genere, delle donne lavoratrici. Immaginiamo che anche in questo strano mondo gli anni 60 abbiano segnato una rivoluzione culturale all’insegna dell’uguaglianza fra i sessi: per effetto di ciò numerosi individui di sesso maschile hanno tentato e tentano un inserimento professionale nei Centri di Accudimento trovando tuttavia datori (rectius datrici) di lavoro che li considereranno sempre e comunque ‘non adatti’ alle mansioni da svolgere, mai all’altezza delle colleghe donne. Ovvio che queste ultime si sentano autorizzate ad adottare comportamenti discriminatori e ‘mobizzanti’ ai loro danni, non sempre identificati e sanzionati come tali alla stregua della legislazione antidiscriminazione che pure vige nel mondo parallelo. Inoltre la maternità è un titolo preferenziale di accesso al lavoro: per effetto di ciò dove nell’organico deve essere inserita una nuova madre gli uomini sono i primi a rischiare il posto di lavoro. Come per il merito nel nostro mondo, la maternità è in quel contesto un parametro oggettivo che esclude il carattere discriminatorio della scelta datoriale.
Nessuna meraviglia che tali condizioni lavorative scoraggino il lavoro salariato maschile. D’altra parte gli uomini di ogni ceto ed etnia sono in larga parte assorbiti dal lavoro (gratuito) di sorveglianza che la società ha di fatto affidato loro. Devono provvedere ogni giorno alla sicurezza della propria casa e della propria famiglia e poco tempo ed energia rimane per il lavoro retribuito nel mercato. O almeno questa è la percezione che è andata diffondendosi nella società…
Il fatto di essere impegnati per lo più in attività non remunerate, a fronte del ruolo di principali breadwinner ricoperto dalle donne, pregiudica il loro prestigio sociale anche in prospettiva, mentre sviluppa nella cultura corrente la presunzione di un’attitudine naturale degli uomini a ricoprire il ruolo di guardiani della casa e di una parallela loro inadeguatezza a svolgere lavoro retribuito nel mercato. Ciò comporta, da una parte, che le famiglie siano indotte a investire meno nella educazione dei figli maschi. Dall’altra che nelle famiglie povere dove è necessario integrare il reddito della madre, il papà si occupi non solo della sicurezza della propria casa, ma anche di quella di qualche famiglia più abbiente in cambio di una retribuzione esigua e senza alcuna tutela previdenziale.
Questo geniale apologo – che traggo da Michael Fischl (A Woman’s World, in J. Conaghan & K. Rittich (eds), Labour Law, Work, and Family, Oxford University Press, 2005, p. 339 ss.) – ha l’abilità di mettere immediatamente in luce in termini paradossali alcuni dei caratteri strutturali della riproduzione sociale. Il suo essere un’attività imposta o quanto meno non scelta, l’essere organizzata lungo la linea del genere senza che ciò abbia nulla di ‘naturale’; e le sue implicazioni pubbliche in quanto infrastruttura essenziale della presente organizzazione sociale: in una parola, la sua natura di public good. A ciò si aggiunga la rilevanza giuridica che l’accudimento assume sotto l’angolo visuale dell’uguaglianza e del principio di non-discriminazione per il fatto di essere lavoro non pagato e distribuito secondo il genere.
Emergono parimenti le ragioni del disinteresse dei giuristi per il tema – e dell’indifferenza dei decisori a vario titolo: la presunta naturalità della riproduzione sociale, il suo supposto carattere essenzialmente privato, individuale, persino intimo. A tanto si somma il vecchio pregiudizio del giurista mainstream, secondo il quale quanto avviene nelle relazioni familiari nulla ha a che vedere con il restante universo giuridico. Di qui l’idea dell’irrilevanza per il diritto e per la scienza giuridica del lavoro riproduttivo, fatta salva qualche norma del diritto di famiglia che riconosce il lavoro “casalingo” nella cornice di una specialità che ne giustifica la marginalità.
Si tratta nel loro complesso di pregiudizi che l’apologo puntualmente smaschera come tali, ma che sembrano duri a morire a dispetto dello scenario disvelato dalla pandemia, quando è ormai sotto gli occhi di tutti quanto la tenuta di un tessuto sociale fortemente messo alla prova dalla emergenza sanitaria sia dipesa dal lavoro lato sensu di cura svolto prevalentemente dalle donne all’interno della sfera domestica, divenuta dall’oggi al domani anche presidio medico, luogo di lavoro professionale (smart working), e di istruzione (Didattica A Distanza presidiata essenzialmente dalle madri), oltre che, come di consueto, struttura di riproduzione sociale in senso stretto.
Immaginiamo ora un’altra scena, invero molto comune nel nostro mondo. In uno studio legale due avvocati trattano le conseguenze patrimoniali dell’uscita dal matrimonio di due coniugi, loro rispettivi clienti. La negoziazione ha ad oggetto principalmente l’eventuale assegno di mantenimento dovuto (come di consueto) dall’ex marito alla ex moglie.
Ora, nella letteratura giuridica è definita con termine neutro ‘coniuge debole’ colei che a seguito dello scioglimento del matrimonio è destinataria dell’assegno divorzile. L’uso dell’universale maschile non è mai messo in questione anche se è scontato che il coniuge debole sia appunto la moglie. Parimenti questa corrispondenza è assunta come un fatto di natura: nessuno spiega mai perché la moglie è il coniuge debole. Ma il nostro apologo lo mette bene in luce ‘a contrario’. Nel nostro mondo è ‘coniuge debole’ la donna perché dedita in misura esclusiva o prevalente al lavoro domestico e di cura in favore dei propri familiari. E qui sta il paradosso su cui sono costruite le nostre società. O, se si vuole, l’ordine patriarcale. Da una parte svolgere lavoro di cura è realizzare una funzione essenziale per la famiglia e per l’intera collettività: la produzione di esseri umani – ci ricorda Silvia Federici – è il fondamento di ogni sistema economico e politico. Dall’altra, svolgere lavoro di cura rende deboli. C’è dunque un problema di fondo. Un problema di cui il trattamento giuridico della cura come lavoro gratuito è parte integrante. Sin da ora possiamo perciò chiederci se sia un problema interamente delegabile al diritto di famiglia, secondo quanto sta avvenendo nel nostro studio legale immaginario. O se proprio questo non sia parte del problema.
Torniamo alla nostra scena. I due avvocati discutono della misura dell’assegno. Invero non solo del quantum. Anche dell’an. Alla luce delle diverse indicazioni date negli anni dalla giurisprudenza, i legali di parte abbracceranno la tesi della solidarietà postconiugale l’uno, la tesi della autoresponsabilità economica di ciascun coniuge l’altro. O invece la prospettiva del carattere compensativo-perequativo dell’assegno parametrato sulle chances di carriera e di reddito perdute dalla moglie per dedicarsi alla famiglia. La negoziazione investirà indefettibilmente il nodo del lavoro riproduttivo: se esso debba essere o meno oggetto di compensazione fra i coniugi. In un modo o nell’altro si tratterà dunque di dare surrettiziamente un valore economico ad una attività non produttiva e perciò gratuita: il lavoro di cura svolto dalla donna nel corso del matrimonio. Ma è possibile dare un valore economico preciso all’accudimento, alla dedizione, all’amore, alle rinunce che ne sono conseguenza? Esso va eventualmente commisurato ai parametri produttivisti delle occasioni perdute nel mercato? Ed è congruo che il problema della sua valutazione si ponga esclusivamente al momento della crisi della coppia?
Ci si scontra qui con l’ulteriore errore prospettico ingenerato dalla ‘privatizzazione’ della cura, matrice, a sua volta, della naturalizzazione del lavoro riproduttivo e del suo presunto carattere pregiuridico. È invece proprio il diritto a costruire la riproduzione come fatto di limitata rilevanza giuridica, di stretta competenza della famiglia e di nessuna incidenza sulla sfera della produzione. In sostanza come un non-lavoro privo di valore economico. Di qui a cascata le conseguenze dell’opposizione ideologica produzione/riproduzione sulla divisione del lavoro secondo la linea del genere, sui rapporti di forza all’interno delle famiglie, sullo scarso apprezzamento sociale del lavoro di cura, e, appunto, sulla debolezza sociale ed economica di chi vi si dedica. Tutto quanto abbiamo visto gravare in termini rovesciati sul genere maschile nel nostro apologo.
Ma se c’è qualcosa che la pandemia ha svelato e che anche i più strenui fautori del ripristino della ‘normalità’ (alias sviluppo economico ad ogni costo) non possono nascondere, questa è la crucialità di tutte le attività che presiedono alla riproduzione sociale e non sono riconducibili alla produzione e al consumo. Le società sono sopravvissute alla pandemia nella misura in cui all’emergenza ha fatto fronte il fatto privato, naturale, pregiuridico della cura.
Non a costo zero però. Secondo il World Economic Forum questo è costato un allargamento del global gender gap in termini di potere economico, che si prevede potrà ora essere colmato in oltre 135 anni (contro i 99 anni stimati prima della pandemia); un gender pay gap che richiederà più di 200 anni per essere superato a livello globale. Tanto è dovuto al fatto che il surplus di lavoro di cura che l’emergenza sanitaria ha addossato alle famiglie è stato affidato ‘per amore o per forza’ alle donne, restringendone le occasioni di reddito e impoverendole. La chiusura delle scuole e la conseguente didattica a distanza hanno ad esempio giocato un ruolo assai rilevante in questo senso.
Torno alla mia domanda: ha senso delegare un tema di tale portata strutturale al diritto di famiglia? È opportuno ridurlo ad un conflitto privato, fra moglie e marito, in sede di divorzio – situazione dalla quale usciranno peraltro impoveriti entrambi?
La risposta negativa mi pare scontata. La riproduzione della società è e non può che essere un problema della collettività, e come tale deve essere a carico della fiscalità generale. Il presente modello di organizzazione sociale non consente altra soluzione praticabile diversa da forme di socializzazione dei costi della riproduzione, come quella che può realizzarsi attraverso lo strumento del reddito di base da riconoscersi a chi svolge lavoro riproduttivo, cioè almeno a più di metà della popolazione nazionale. Tanto assume inoltre la curvatura dell’uguaglianza di genere, ha cioè strettamente a che a fare con l’obiettivo della realizzazione di una società che non sia strutturata su basi discriminatorie. Non per nulla il reddito di cura ci ricorda le lotte femministe degli anni Settanta intorno alla spesa pubblica, mosse dalla “critica dell’intero meccanismo sociale dello sfruttamento” (così L. Chistè, A. Del Re, E. Fonti, Oltre il lavoro domestico, ombre corte, Verona, 2020, p. 8). Oggi come allora la rivendicazione del diritto al welfare è rivendicazione di dignità e autodeterminazione femminile. Il riconoscimento di un reddito di cura come reddito di base è peraltro la mossa necessaria non soltanto per ridurre il gender gap, ma per uscire dalla logica workfarista del reddito di cittadinanza, superando infine i grovigli ideologici dell’opposizione produzione/riproduzione.
In fondo, il reddito di base è la soluzione più semplice per correggere la rotta di una società che da 30 anni a questa parte non cessa di esprimere immobilismo, modelli iperconservatori e progetti intrinsecamente discriminatori.