Nell’articolo, si sottolinea la necessità di iniziare una discussione per una nuova riformulazione del concetto di welfare, superando la classica e tradizionale dicotomia tra workfare e welfare keynesiano, a favore di un nuocvo concetto di welfare “il welfare del comune” (common fare”, centrato sul basic income e la riappropriazione dei beni comuni.
Le trasformazioni del mercato del lavoro negli ultimi due decenni hanno reso impellente una ridefinizione complessiva e una riarticolazione delle politiche di welfare. Non sempre, tale argomento ha suscitato l’adeguato interesse del pensiero economico di sinistra e alternativo. Nel dibattito socio economico attuale, due sono le concezioni di welfare che più di altre attirano l’attenzione degli studiosi e della politica: il workfare e, in alternativa, il welfare pubblico, di derivazione keynesiana. Con il termine workfare si intende un sistema di welfare non universalistico di tipo contributivo (cioè ognuno riceve in funzione di quanto da, come già avviene oggi con la riforma previdenziale), strutturato sull’idea di fornire un aiuto di ultima istanza laddove esistano condizioni esistenziali che non consentono di poter lavorare e quindi di accedere a quei diritti che solo la prestazione lavorativa è in grado di garantire. L’idea di workfare è inoltre complementare ai progetti di privatizzazione di buona parte del welfare pubblico, a partire dalla sanità, dall’istruzione e dalla previdenza. Essi trovano oggi fondamento nel cosiddetto “principio di sussidiarietà”, secondo il quale, nelle materie che non sono di propria competenza esclusiva, possono intervenire livelli di governo superiore (es. lo Stato) soltanto e nella misura in cui si ritiene che i livelli di governo inferiore (es. le Regioni) non siano in grado di conseguire gli obiettivi prefissati in maniera soddisfacente. Tradotto in pratica, significa che l’intervento pubblico può avere una sua ragion d’essere solo laddove il privato non è in grado o non trova conveniente intervenire. Mentre, d’altro lato, il workfare ha come target immediato e parziale solo chi si trova al di fuori del mercato del lavoro, come i disoccupati e i pensionati al minimo sociale e si basa sulla netta distinzione tra politiche sociali e politiche del lavoro. Un concetto dunque prettamente fordista con l’aggiunta di una cornice neoliberista, sul modello anglosassone: incentivi al lavoro e stato sociale minimo. Il protocollo sul welfare, competitività e mercato del lavoro del 23 luglio 2007, stilato dall’allora ministro del Lavoro Cesare Damiano, vorrebbe rappresentarne l’applicazione in Italia. Il decreto 112 di questo agosto, che anticipa le linee della legge Finanziaria per il triennio 2009-2011, ne sancisce l’attuazione. Lo confermano i tagli alla spesa destinati ad alcuni ministeri nello svolgimento dei loro compiti: meno 8,4 miliardi di euro nel 2009 che diventeranno 15,6 nel 2011. Lo conferma la riscrittura del patto di stabilità con gli enti locali (riduzione di circa 3 miliardi nel 2009 e di 9, nel 2011) che porterà con sé la simpatica conseguenza di far aumentare le tariffe dei servizi pubblici a danno dei residenti o di procedere a ulteriori privatizzazioni. Lo confermano, ancora, i tagli al fondo nazionale per il sistema sanitario nazionale, che vedrà, nel 2009, una decurtazione della spesa sanitaria di quasi il 3% in termini reali e del 2% nel 2011, con successiva riduzione dei posti letto e delle spese per il personale (blocco del turn-over, ridimensionamento dei fondi della contrattazione integrativa, ecc,). Lo conferma l’inizio di un processo di smantellamento delle università pubbliche a vantaggio della loro trasformazione in fondazioni di diritto privato (neanche di diritto pubblico!). Non basta ancora, c’è di più. Come ogni buona politica di workfare vuole, sono ovviamente presenti anche interventi sul lato del mercato del lavoro e della sussistenza (ma solo per i cittadini italiani autoctoni). Ed ecco allora la controversa norma sui lavoratori precari, che prevede solo uno scarso risarcimento monetario e non più il diritto all’assunzione per i lavoratori con contratti a termine in contenzioso con i datori di lavoro, così da rendere “legalmente” strutturale, a vita, la precarietà. E, parallelamente, fa la sua comparsa l’elemosina di una “social card” (sul modello delle tessere per il cibo del periodo bellico) che consente l’acquisto di beni alimentare di prima necessità agli indigenti.
A questa idea di workfare, si vuole contrapporre – soprattutto da parte della cosiddetta sinistra radicale – il ritorno del welfare pubblico o keynesiano. Lo Stato dovrebbe farsi carico di un intervento di stampo universalistico, in grado di garantire a tutti i cittadini (che non sempre coincidono con i residenti) alcuni servizi sociali di base, quali la salute, l’istruzione e la previdenza lungo tutto l’arco dell’esistenza (dalla culla alla tomba, secondo la famosa definizione del rapporto Beveridge del secondo dopoguerra) in cambio della partecipazione al lavoro e alla definizione di un patto sociale tra i fattori della produzione. Sul fatto che alcuni servizi sociali primari (quali ad esempio istruzione e sanità) debbano continuare a rimanere pubblici non vi è alcun dubbio. Tuttavia, con la crisi del modello fordista, vengono meno alcune precondizioni perché tale modello di welfare possa svolgere il suo compito in modo equo all’interno di un quadro di giustizia sociale. Mi riferisco in particolare alla crisi dello stato-nazione, inteso come ambito nazionale in grado di sviluppare politiche economiche in modo indipendente, seppur coordinato, da altri stati: all’impossibilità di misurare i guadagni di produttività e quindi di provvedere alla loro redistribuzione tra profitti e salari; all’impraticabilità di svolgere relazioni industriali non concertative tra parti sociali che si riconoscono reciprocamente come controparti conflittuali e legittimate a livello istituzionale, in grado di rappresentare in modo chiaro e univoco gli interessi imprenditoriali e dei lavoratori. Nessuno di questi tre presupposti è oggi presente nel capitalismo cognitivo, dal momento che il dispositivo di governance politico-sociale non è più riconducibile a quello fordista. In altre parole: il welfare keynesiano è insufficiente. Vogliamo di più! Ne consegue la necessità di riformulare l’idea di welfare state, sui cui assunti ci soffermeremo tra breve. Se queste sono le due visioni di massima in campo, altre ipotesi seguono, rappresentando situazioni particolari e ibride: il welfare scandinavano, per esempio, che dà origine alle politiche della flexicurity, che si presentano come un momento di sintesi del welfare keynesiano di tipo non sempre universalistico, ma tarato sulle esigenze di flessibilizzazione del mercato del lavoro e sull’esistenza di un mercato de lavoro fortemente omogeneo, incorporando alcune caratteristiche del workfare. E, sul versante latino-mediterraneo, va citato anche il welfare familistico, una mistura di workfare e di assistenzialismo non universalistico.
Come si puà allora ripensare un welfare state nell’epoca del capitalismo cognitivo? In primo luogo, deve essere in grado di affrontare i due elementi principali che caratterizzano l’attuale fase capitalistica nei paesi “occidentali”: · la precarietà sociale; · la distribuzione di ricchezza che ha origine dalla cooperazione sociale e dal general intellect. Riguardo al primo punto. Il mondo del lavoro appare sempre più frammentato non solo da un punto di vista giuridico ma soprattutto da quello qualitativo-soggettivo. La figura del lavoratore salariato industriale è emergente in molte parti del globo ma sta declinando in modo quasi irreversibile nei paesi occidentali a vantaggio di una moltitudine variegata di figure atipiche e precarie, dipendenti, parasubordinate, autonome, la cui capacità organizzativa e di rappresentanza è sempre più vincolata dal prevalere della contrattazione individuale e dall’incapacità di adeguamento delle strutture sindacale fordiste. La preminenza della contrattazione individuale su quella collettiva svuota la capacità di rappresentanza delle tradizionali forze sindacali. Il tentativo di recuperare tale capacità tramite strategie di concertazione ha mostrato tutti i suoi limiti, sino a snaturare il ruolo del sindacato da forza in grado di rappresentare gli interessi del lavoro in istituzione di controllo e succube agli interessi imprenditoriali sotto l’ombrello delle compatibilità economiche dettate dalla nuova gerarchia economica internazionale. Riguardo al secondo punto. La produzione di ricchezza non è più esclusivamente fondata sulla produzione materiale. L’esistenza di economie di apprendimento (che generano conoscenza) e di economie di rete (che ne consentono la diffusione, a diverso livello) rappresentano oggi le variabili che stanno all’origine degli incrementi della produttività: una produttività che sempre più deriva dallo sfruttamento di beni comuni che discendono dalla natura sociale del genere umano (quali istruzione, sanità, conoscenza, spazio, relazionalità, ecc.) e che quindi si configura come esito della “cooperazione” sociale. In tale contesto, un intervento di welfare deve saper rispondere al trade-off che regola in modo instabile il processo di accumulazione insito nel capitalismo cognitivo contemporaneo: il rapporto contraddittorio tra precarietà e cooperazione sociale. Più in particolare, si tratta di remunerare la cooperazione sociale, da un lato, e favorire forme di produzione sociale, dall’altro. La remunerazione della cooperazione sociale significa garanzia di continuità di reddito individuale, incondizionato, per tutti coloro che operano nel territorio a prescindere dallo loro status professionale e civile. Poiché la cooperazione sociale va ben oltre la prestazione lavorativa eventualmente riconosciuta e certificata ma tende a coincidere con l’esistenza stessa, la remunerazione della cooperazione sociale è data dal salario eventualmente percepito più un basic income: tale basic income deve essere inteso come una sorta di risarcimento monetario (appunto remunerazione) della produttività sociale e non come mero intervento assistenzialistico. Tale misura deve essere accompagnata dall’introduzione di un salario minimo orario, al fine di evitare che si possa generare un effetto di sostituzione tra basic income e lo stesso salario a vantaggio dell’impresa e a discapito del lavoratore. Inoltre, tale basic income, introdotto in modo graduale, prescindendo dallo stato professionale degli individui e non sottoposto ad alcuna misura di controllo e di condizionamento, non è solo una misura di welfare, ma in quanto elemento di remunerazione, è anche una misura di intervento nella regolazione del mercato del lavoro. Viene così meno la distinzione tra politiche di welfare e politiche del lavoro di derivazione fordista. La garanzia di reddito in presenza di un salario minimo consente infatti di ampliare le possibilità di scelta, di definire la propria offerta di lavoro e quindi di intervenire, direttamente, sulle condizioni e sulla qualità di questo lavoro. La possibilità di scelta/rifiuto del lavoro capitalistico apre prospettive di liberazione che vanno ben al di là della semplice misura redistributiva con la quale, spesso, si intende e si critica il basic income. Lo sviluppo della produzione (cooperazione) sociale richiede, in premessa, la riappropriazione e la distribuzione dei guadagni che derivano dallo sfruttamento dei beni comuni che stanno alla base dell’accumulazione odierna. Tale riappropriazione non necessariamente, oggi, si ottiene con la sola garanzia della pubblica proprietà (e da qui la crisi del welfare pubblico keynesiano). Se ciò è possibile nel caso dei servizi di base, come la sanità o l’istruzione o la mobilità territoriale, in altre situazioni è meno lineare, meno scontato, più ibrido, più opaco. Nel caso della conoscenza, per esempio, è necessario fondarsi sul concetto di “beni comuni” e di “proprietà comune”, in quanto la conoscenza non è, né può essere, un bene esclusivamente privato o esclusivamente pubblico.
E’ su queste basi che si può aprire la scommessa – oramai non più rimandabile – della costruzione di una proposta di welfare, e di una pratica del comune, da parte dei movimenti.