Io mi vendo ma tu paga i miei dati
Jennifer Lyn Morone si è registrata come impresa nell’albo dello Stato del Delaware ed è diventata la Jennifer Lyn Morone Spa. Il nuovo battesimo le ha permesso di diventare un’impresa incarnata che venderà le informazioni prodotte dalla sua vita. “I dati personali valgono molto di più quanto pensiamo” sostiene. Così ha elaborato un’applicazione open-source per rendere possibile tale valorizzazione. Si chiama Database dell’Io (DOME: “database of Me”). Qui l’individuo è sicuro che i dati siano classificati e profilati affinchè l’impresa di se stessi possa venderli, prestarli, investirli e generare il profitto. DOME ha una funzione addizionale chiamata “La piattaforma”: un intermediario attraverso il quale individui, comunità, organizzazioni e macchine possono fare transazioni sul valore prodotto.
Le multinazionali sono considerate individui, ma godono di vantaggi superiori rispetto a quelli degli individui in carne ed ossa. Hanno aiuti fiscali, incentivi da parte dello Stato che non producono nuova occupazione, aumentano la ricchezza personale degli imprenditori. Jennifer pensa che se i diritti non vanno all’individuo, ma all’impresa, allora l’individuo diventa impresa e si prende i diritti. Lei non sopporta che le imprese sfruttino le risorse pubbliche e sono basate su una proprietà che non possiedono: le informazioni personali e i dati privati. E noi siamo schiavi dei dati, ma non lo sappiamo.
Teniamo alla nostra privacy, ma quando produciamo dati li regaliamo a Facebook, Google o Amazon per metterci in vetrina e avere il quarto d’ora di celebrità al giorno, sentirci appagati quando un drone porterà una cena giapponese sul nostro balcone. Su questi paradossi si fonda la rivoluzione digitale in cui viviamo.
Mi vendo!
Pensiamoci. Non c’è nulla di strano nel vendersi in questa società allucinata e soddisfatta di sé. Lo star system globale lo ha fatto normalmente: Madonna, Kim Kardashian o Chiara Ferragni sono il brand di se stessi, imprenditori dell’Io. Jennifer Morone eleva all’ennesima potenza questa condizione e sostiene che ciascuno può ottenere una rendita dalle proprie risorse: le esperienze accumulate, le capacità presenti e le caratteristiche biologiche, fisiche e mentali come il corredo genetico, il lavoro, la creatività, il sangue, il sudore e le lacrime. Ciascuno di questi elementi sono merci da mettere in vendita sul sito personale.
Jennifer ha esposto la sua collezione di dati in una galleria d’arte di Londra e l’ha messa in vendita. C’era la sua laurea, i dati sulla salute, il numero della sicurezza sociale. I prezzi erano in fondo modesti: da 100 a 7 mila sterline. Sul suo sito crescono considerevolmente. Nell’asta permanente online variano da un minimo di 11 mila dollari (l’eredità paterna) a un massimo di 535 mila dollari (la vita da zero a 18 anni). Sono stati in pochi i collezionisti a prenderla sul serio. Nessuno ha comprato. Jennifer si disse scandalizzata: “Lo trovo veramente assurdo”.
Jennifer, un po’ assurdo lo è, ammettilo.
La proprietà in persona
La provocazione di Jennifer Morone va presa sul serio, anche per capire i suoi limiti politici. L’artista sostiene che i suoi dati personali siano una proprietà personale – la proprietà in persona di cui parlava già John Locke nel 1690. Tutti dovrebbero valorizzarla sul mercato, attraverso un “reddito di base universale” o attraverso “servizi diretti” come la salute o la casa. Se in una società capitalista siamo considerati proprietari di qualcosa, ma non tutti possono detenere ricchezze materiali o rendite finanziarie, allora valorizziamo tutto quello che siamo, a cominciare dai nostri tessuti, memorie, relazioni, percezioni, sensibilità o conoscenza. Gli economisti definiscono questi elementi come “beni non rivali”: sono unici, ma possono essere usati più di una volta e da più persone, senza che questo imponga una proprietà esclusiva. I dati rientrerebbero in questa categoria, se non fossero invece espropriati dai tecno-feudatari del Web 2.0.
Se diventiamo capitalisti di noi stessi, sostiene Jennifer, possiamo condividere la ricchezza espropriata dei nostri dati e sconfiggere la miseria prodotta dal capitalismo. Possiamo determinare i costi di produzione, l’energia e il tempo necessario. Visto che siamo i padroni troveremo soddisfacenti i margini di profitto.
L’uso del tempo, o dell’energia, come unità di misura della nostra produzione sulle piattaforme è un indicatore diverso dal godimento, l’irritazione, il narcisismo, il rancore, l’emulazione e la competizione: tutti i valori che governano la produzione dei dati sulle piattaforme. Questo è il modo per misurare il valore prodotto dalla nostra forza lavoro. Così potremmo arrivare a un “migliore modello di vita efficiente”.
Ma quando saremo diventati “efficienti” vivremo una vita più libera? O sarà solo più “efficiente” rispetto a un modo di produzione che resta lo stesso? Il ragionamento di Jennifer Morone si svolge nella cornice anarco-capitalista, quella del capitalismo digitale. La sua è una critica all’economia politica 2.0. Come altre artiste contemporanee, Laurel Ptak ad esempio, ha posto il problema del salario e del reddito a partire dalla proprietà del proprio lavoro. Lo fa in termini liberali, non a partire dalla facoltà della forza lavoro intesa in termini marxiani.
La differenza è enorme. Possiamo anche essere proprietari dei dati che produciamo, e non è escluso che la legislazione sulla privacy arriverà a stabilire questo principio a partire dalle carte fondamentali dei diritti. E, un giorno, sarà anche possibile venderli come si fa oggi con altre merci. Ma questo non basta. La soluzione non è diventare capitalisti di se stessi, ma liberare la nostra forza lavoro.
Abbiamo in comune la forza lavoro
Potremo anche essere proprietari dei nostri dati – in una società che non è esattamente quella capitalista – ma ciò che permette ai dati di essere prodotti – la forza lavoro, appunto – non sarà mai di nessuno perché è di tutti. Noi non siamo proprietari della nostra forza lavoro. E non perché non ci appartenga. Per Marx la forza lavoro è una facoltà dell’essere umano. Per un essere umano non esiste nulla di più proprio di una forza lavoro. La forza lavoro non è una proprietà perché la sua caratteristica è quella di essere di tutti e di nessuno. La forza lavoro è comune. La mia non esaurisce quella degli altri. E viceversa: gli altri non possono possedere la mia. La forza lavoro in comune è sempre pronta ad essere di qualcun altro perché non è mai proprietà di qualcuno in particolare. Questo significa individuare un regime politico capace di rendere inappropriabile, anche allo stesso individuo, ciò che lo rende unico e libero.
Negli ultimi anni si è molto parlato di “beni comuni”. Questa nozione può essere fuorviante: la facoltà, la forza lavoro, la vita non sono “beni”, né “cose” o “merci”: sono potenze irriducibili al discorso patrimonialistico e al riduzionismo giuridico, economico o psicoanalitico.
Teniamo l’essenziale del discorso sui “beni comuni”, è uno strumento che permette di superare il problema della proprietà privata dei dati. Invece di schiacciare l’individuo sulla proprietà – “vogliono essere pagato in quanto proprietario dei miei dati” – bisogna rendere inseparabile la forza lavoro da quella degli altri: insieme produciamo ogni valore d’uso, anche quello della proprietà. Per questa ragione è necessario prendersi tutto il valore che noi produciamo, già oggi, con la forza lavoro che è di tutti e di nessuno.
Esiste un nome per questa politica: comunismo. Parola da ripensare, radicalmente, non solo rispetto al regime politico che abbiamo conosciuto nel Novecento, ma nel significato di “movimento che abolisce lo stato presente”. Il movimento cerca di tenere aperto il campo della politica come fa il discorso dei “beni comuni” rispetto alla produzione dei dati.
I dati sono lavoro
Le culture della rete contengono questa possibilità. Anche se le originarie aspirazioni di liberazione sono state rovesciate dal capitalismo digitale, questo non significa che la possibilità di riattualizzarle siano scomparse.
Jaron Lanier, pioniere della realtà virtuale e oggi critico dell’ideologia californiana del capitalismo digitale, affronta questi problemi nel suo recente Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account-social. Lanier sa di cosa parla: lavora per la Microsoft Research, pensa che il complesso digitale sia una FREGATURA, suggerisce soluzioni negoziali per riequilibrare il potere algoritmico che ci governa. Nell’ottavo capitolo del libro, ad esempio, Lanier parla di produzione di dati come lavoro, data as labour, e sostiene due cose.
La prima è essere pagati a pezzo. Con questo criterio dovrei passare tutta la vita a scrivere articoli come questo per accumulare un reddito modesto. La logica della reputazione e della visibilità porta al cottimo. È questa la gig economy, il futuro che ci attende. No, grazie. Bisogna invece negoziare l’algoritmo, fare contrattazione sociale, a partire da una base superiore al minimo vitale: il reddito incondizionato. Che si lavori, e non si lavori, il reddito va garantito a tutti, non alle piattaforme digitali.
Questa è l’unica soluzione per superare i paradossi di Jennifer Monroe e, in generale, dal pur interessante discorso del data as labour.
La seconda soluzione di Lanier è: paghiamo l’uso delle piattaforme, così avremo la possibilità di fissare un prezzo per la nostra produzione dei dati. Se Facebook, Google o Twitter non pagheranno, allora avremo il potere di condizionarli. Potremo scioperare e sottrarci al controllo delle mega-macchine. Fino ad arrivare a cancellarci in massa dai social network. In attesa che questo avvenga è preferibile cancellare i nostri profili. Deve passare la legge per cui è “semplice e normale essere remunerato se i miei dati hanno un valore”.
Quale organizzazione è capace oggi di creare un potere sociale che impone simili condizioni alla Silicon Valley? Nessuna. Nel capitalismo digitale siamo ridotti a folla. Con l’affermazione delle piattaforme la rete si sta chiudendo del tutto, come anche l’accesso alle sue infrastrutture. Tutto sarà a pagamento. E noi non avremo alternative: pagare, per accedere alla cittadinanza. Ma la cittadinanza sarà filtrata dalle piattaforme e organizzata dalle stesse élite contro le quali si muove, formalmente, la politica populista oggi.
Alcune possibili campagne
“Occorre una nuova cornice legale o regolatoria per salvaguardare gli interessi sociali“ in rete, ha scritto Tim Berners-Lee. Allora bisogna creare una campagna internazionale per chiedere il riuso delle risorse ottenute dalle multe, se e quando saranno riscosse, della Commissione Europea a Apple (13 miliardi di euro) o Google (6,7 miliardi per due multe nel 2017) per finanziare il Welfare e il reddito di base a livello statale e a livello comunitario. Oggi i soldi confluiscono nel budget comunitario. Non sono destinati a nessun investimento specifico, ma servono a ridurre le quote dei paesi membri.
Un’altra campagna potrebbe essere mirata per l’istituzione di una web tax continentale. Gli eventuali importi devono essere usati per finanziare un reddito di base a livello europeo (webfare). Se ne parla molto, molti sono i problemi, soprattutto politici. I giganti del digitale, campioni dell’evasione e dell’elusione fiscale, vanno tassati sulla base dei dati prodotti dagli utenti delle piattaforme, non sulla base di quanti occupati hanno in un paese. Di solito, pochi. In compenso hanno milioni di utenti che lavorano gratis per loro. Se produrre dati significa lavorare, allora le piattaforme che guadagnano grazie ai loro utenti devono pagare. Chi? Noi. Visto che siamo produttori e consumatori, allora dovremo essere anche i beneficiari di un’attività oggi espropriata. Senza una legge fiscale sovranazionale, e un’analoga disciplina aggiornata a livello nazionale, il regolamento sulla gestione dei dati personali entrato in vigore il 25 maggio 2018 in tutta Europa non sarà molto efficace.
Va considerata l’idea della pubblicizzazione dei servizi che trattano le identità digitali e quella della trasformazione delle infrastrutture usate dalle piattaforme private in servizio pubblico. Facebook e Google dovranno pagare la loro presenza sulle autostrade digitali mondiali a enti sovranazionali e alle autorità statali che, a loro volta, dovranno riconoscere la centralità della forza lavoro che oggi lavora gratis per loro. Il lavoro digitale va considerato insieme a quello della proprietà delle piattaforme. Se queste sfruttano gratis il nostro lavoro, non sarà il caso almeno di riflettere sul fatto che noi siamo il contributo vivente per il godimento illimitato dei profitti dei padroni della rete? Pagare le tasse è un buon punto di partenza, ma visto che senza di noi non esiste la loro proprietà, è necessario considerare l’esistenza di una proprietà non privata, ma comune o sociale, delle piattaforme. A questo proposito, dopo lo scandalo Cambridge Analytica, nel 2018 si è molto di un’ipotesi di “nazionalizzare” piattaforme come Facebook. Sempre che questa sia possibile, considerato che Facebook è una società americana, l’eventuale nazionalizzazione andrebbe a beneficio del capitalismo di Stato, fornendo un vantaggio strategico agli Usa nella competizione intercapitalistica tra Stati che oggi si combattono a suon di dazi e misure protezionistiche. La prospettiva sembra ancora più complessa dal momento che ogni Stato potrebbe a quel punto chiedere la proprietà dei server di cui Facebook si serve per accumulare i suoi dati. Così facendo l’imposizione della proprietà statale andrebbe a frammentare l’aspetto che interessa di più chi sostiene una simile prospettiva: il potere centralizzato di elaborazione dei dati prodotti in maniera individuale dagli utenti sulle piattaforme.
Considerate queste, e altre difficoltà, di concepire la “nazionalizzazione” delle piattaforme capitalistiche Paul Mason propone una pubblicizzazione, o regolazione, delle infrastrutture digitali che i grandi capitalisti usano per trasmettere i dati. Potrebbero così pagare agli stati il valore di una concessione perché usano un bene strategico di proprietà pubblica, come i binari ferroviari del sistema ferroviario semiprivatizzato o le autostrade. L’individuo sarebbe garantito dall’autorità pubblica attraverso un contratto che permette di stabilire, con certezza, l’uso dei suoi dati, il rispetto della sua identità elettronica. Il proprietario finale dei dati, e il controllore di come sono utilizzati, sarebbe il cittadino – con diritti garantiti dallo Stato stesso.
Sempre che sia possibile – e oggi non lo è- un’inflessibile, e globale, disciplina anti-elusione e anti-evasione, insieme alla proprietà pubblica delle infrastrutture, potrebbero creare un sistema di mediazione flessibile tale da permettere un controllo severo e istantaneo sull’uso dei dati. In questo caso andrebbe tuttavia dimostrata la buona fede degli amministratori pubblici. Elemento tutto da verificare in un capitalismo come il nostro.
Il governo dei Big Data è un problema della democrazia contemporanea e costituisce uno dei principali terreni di scontro tra le potenze mondiali della produzione digitale e le grandi aziende americane e cinesi: Alibaba è il concorrente mondiale di Amazon, Tencent è un conglomerato gigantesco che sfida gli operatori americani nella produzione dei servizi per intrattenimento, i mass media, internet e i telefoni cellulari. La presenza dello Stato cinese, e del partito comunista, è decisiva anche nella sfida sulle infrastrutture digitali mondiali come il 5G dove la Cina può mobilitare risorse immense grazie al suo progetto sulla nuova “Via della Seta”. Dall’altra parte ci sono gli Stati Uniti, con il loro complesso militare-industriale, e l’immenso apparato produttivo privato conosciuto come “Silicon Valley”. In questo scontro colossale crescono all’infinito le capacità dello Stato e delle aziende di controllare, governare, valutare e sanzionare la libertà di pensiero e di movimento dei cittadini. In Cina, nella città di Suining, la sperimentazione del sistema dei “crediti sociali” prevede che ogni cittadino parta con mille punti (Simone Pieranni, Le vite a punti dei cinesi all’ombra del partito, Il Manifesto, 23 settembre 2018). Gli organi della valutazione di Stato, e della polizia, decidono quali può perdere e quali può recuperare attraverso il suo comportamento “sociale”. Nell’ultimo biennio, tra i techworkers negli Stati Uniti è cresciuta la consapevolezza sui rischi di uno stato di polizia digitale. A questo proposito, sono molto interessanti le numerose mobilitazioni che hanno denunciato, ad esempio, la partecipazione di Google ai progetti militari del Pentagono, o quelle che si sono opposte alle sperimentazioni della polizia Usa sul riconoscimento facciale, in particolare di Amazon. E, ancora, i lavoratori digitali che hanno denunciato il “Muslim Ban” di Trump e i cittadini che hanno attaccato Uber che ha cercato di sostituire i tassisti che a New York scioperavano contro la decisione di sequestrare alcuni passeggeri provenienti dai paesi arabi. Vanno senz’altro considerate le mobilitazioni dei lavoratori di Google contro le molestie e le violenze sessuali sui luoghi di lavoro contro le donne, come manifestazioni del movimento “MeToo”.
L’insieme di questi elementi dimostra la trasformazione politica e culturale dei lavoratori direttamente impiegati dal capitalismo delle piattaforme e la loro crescente capacità di affrontare le contraddizioni in termini di alleanza con i settori più avanzati, e sensibili, della società. Le potenzialità di questo protagonismo dovrebbero essere adeguatamente considerate nell’immaginazione di una politica alternativa e possibile.
“Riduciamo il potere dei prepotenti delle piattaforme di rete – ha scritto David Bollier, Curbing the New Corporate Power, Forum response, Boston Review, 4 maggio 2015 – Possiamo farlo in parte sostenendo i commoners, le comunità open source, le cooperative, le iniziative comunali, i creatori, gli hacker, i collaboratori e altri innovatori dal basso che sono i campioni e i garanti di un’economia equa. Abbiamo ancora bisogno che il governo utilizzi gli strumenti antitrust e normativi nel suo arsenale, e trarremo vantaggio anche da una ripresa di una riforma ispirata alla pubblica utilità. Ma nei commons, individui e gruppi collaborano in modi che, nel tempo, possono aiutare a rifare la nostra politica e la nostra politica”.
Altra campagna: negoziare gli algoritmi e stabilire per ogni microtransazione dove la forza lavoro ha una parte preponderante. Prendiamo il caso dei ciclofattorini (“riders”) che lavorano nelle consegne a domicilio via piattaforma digitale. Ogni volta che si loggano alla piattaforma dovrebbe scattare un algoritmo che apre una posizione assicurativa e contributiva, calcola il valore della prestazione, riconduce il gigworkers a una contrattazione permanente e in diretta sul salario e i suoi diritti. Non è fantascienza. È già accaduto in Belgio. Per un periodo molto breve ci è riuscita Società mutualistica per artisti SMart, la più grande cooperativa dei freelance in Europa, con Deliveroo. Qui è lì si parla di smart contracts. Ecco questo ne è un esempio. Non ha funzionato perché il governo di centro-destra belga ha pensato di fare una defiscalizzazione per i lavoratori autonomi usata da Deliveroo per rompere unilateralmente l’accordo con Smart, il primo al mondo. Bisogna proseguire su questa traccia ed estendere l’accordo a tutte le attività produttive che passano in rete. Se noi produciamo dati su Facebook, allora possiamo capire l’immenso impatto che questo potrebbe avere sul capitalismo digitale.
Andiamo in fondo alla strada del data as labour. Se vendiamo la nostra forza lavoro, dobbiamo avere diritto di organizzarci come sindacato. Lo sostengono Eric Posner e Glen Weyl in Radical markets che richiamano un momento chiave nella storia del lavoro: l’auto-organizzazione operaia in leghe e sindacati. A livello globale, e nazionale, pensiamo allora a creare i nuovi sindacati dei lavoratori dei dati. Molti sono già gli esempi, nel campo dei videogiochi, in quello dei riders, o dei micro-lavoratori di Amazon. In Germania ci sta pensando la Ig-Metall, in Francia e in Belgio si pensa a nuove cooperative e associazioni mutualistiche che rovesciano il potere dei latifondisti dei dati e lo diffondono tra i loro produttori. Questi sindacati, coordinandosi tra loro, potrebbero contro-valutare i datori di lavoro, segnalando quelli che non pagano o che sfruttano. La negoziazione potrebbe superare la logica reputazionale e iper-produttivistica che domina sulle piattaforme introducendo il salario minimo.
Il reddito di base e di autodeterminazione
Senza di noi nessun motore di ricerca funziona. Senza di noi non ci sarà nessuno che condividerà questo articolo su Facebook. Senza la forza lavoro – i suoi comportamenti, la sua cultura, i suoi affetti, i suoi contatti, i suoi tic o le ossessioni alla “visibilità” – non esiste una piattaforma chiamata Facebook.
Da questi assunti, derivati dall’esperienza della vita in una piattaforma, propongo alcune tesi nella prospettiva della filosofia della forza lavoro che ho esposto sia in Forza lavoro, il lato oscuro della rivoluzione digitale (DeriveApprodi) sia in Capitale Disumano, la vita in alternanza scuola lavoro (Manifestolibri):
In un’eco-sistema digitale la produzione di valore dipende dal lavoro vivo di ciascuno, indipendentemente che lavori o meno
La produzione dei profitti digitali è tendenzialmente infinita e coincide con la vita stessa di una comunità, dal suo intelletto generale, dalla sua vita mentale, corporea, emotiva, comportamentale e psicologica
Ciò che oggi è vivo è la forza lavoro, ovvero la facoltà di produrre tutti i valori d’uso in una vita, l’individualità sociale che eccede la mera capacità di calcolo, e di quantificazione, in un valore di scambio. Il capitale deve mettere al lavoro la facoltà della forza lavoro, la base del processo di valorizzazione che eccede ogni possibile quantificazione e, anzi, ne è la base produttiva, logica e storica. A sua volta la forza lavoro cerca modi non sempre lineari, né felici, per opporsi e resistere in uno scenario di impoverimento radicale, drammatica crescita delle differenze di classe.
Alla luce di queste tesi definiamo una forza lavoro nel capitalismo delle piattaforme in questi termini:
la facoltà che produce tutti i valori d’uso;
è incarnata nella “personalità vivente” di ogni essere umano;
è la potenza generatrice incarnata nell’unità del corpo e della mente di ogni singolo eccede l’appartenenza sociale e il ruolo produttivo ed è sussunta;
considera la vita come un mezzo per esprimere la sua potenza, non come strumento per appropriarsi o produrre dati,i un oggetto, un bene, una merce sul mercato.
Oggi gli unici ad avere compreso la rivoluzione digitale, e la straordinaria centralità della forza lavoro, sono stati i capitalisti delle piattaforme. La potenza della forza lavoro, intesa come facoltà e non solo come mera capacità di lavoro, è al centro della scena economica e di quella politica, ma è considerata solo dal punto di vista della teologia del “capitale umano” – una commistione tra un misticismo e un comportamentismo deterministico – e non dal punto di vista di quella che Karl Marx definiva la “personalità vivente della forza lavoro”: quei tratti umani e viventi, morali e storici, materiali e immateriali, soggettivi e oggettivi, che costituiscono una forza lavoro in generale.
Questa condizione ha un’altra caratteristica: risulta invisibile, e non è percepita, nemmeno da chi la detiene e permette al sistema digitale di funzionare. Classico caso di alienazione, e sussunzione vitale (Andrea Fumagalli), che andrebbe superata, o perlomeno fortemente contrastato. Per farlo non basta un appello alle coscienze, né saggi come questi. Occorre formulare un’ipotesi di redistribuzione della ricchezza espropriata in una nuova organizzazione istituzionale ed economica.
Nel capitalismo digitale è necessario mettere in discussione la proprietà delle piattaforme e la governance dei beni e dei servizi partendo da questa considerazione: nessuna di questa tecnologia esisterebbe senza la forza lavoro che produce il valore che estraggono. La proprietà va condivisa fino in fondo, con tutti i suoi creatori, e non solo i servizi che permettono agli intermediari di consolidare il loro monopolio. Ciò che precisamente produce questa forza lavoro è il comune – il commoning: mette cioè a disposizione di tutti la sua facoltà di produrre valore attraverso le piattaforme. Questa attività è diffusa nel capitalismo delle piattaforme, un ecosistema sempre più chiuso e centrato sugli assetti proprietari delle Big tech o dei grandi liocorni cinesi.
In questa cornice la tesi del reddito di base incondizionato, e quella femminista proposta dal movimento “Non una di meno” di reddito di autodeterminazione, non sono ipotesi di giustizia redistributiva o risarcitoria. Sono ipotesi su una rivoluzione politica ed economica. Di queste formulazioni del reddito è necessario evidenziare l’aspetto politico e materiale, oltre che quello immaginario e utopico come il Basic Income Network-Italia ha meritoriamente fatto nell’ultimo decennio con libri come Reddito per tutti. Un’utopia concreta (Manifestolibri).
Definiamo la politicità del reddito in questi termini:
Il reddito è basato sull’esercizio della forza lavoro in quanto facoltà singolare e comune, di tutti e di nessuno. Non è una semplice remunerazione per i dati prodotti per una piattaforma, ma è un diritto all’esistenza per tutti gli esseri viventi, dalla loro nascita alla loro morte.
La radicalità di questo assunto va considerata come il primo elemento preliminare di una rivoluzione politica perché prospetta un nuovo ruolo sia dello Stato che di una futuribile federazione di Stati europei nella creazione di regimi fiscali ed economici tali da garantire un Welfare universalistico e un nuovo modo produttivo nella rivoluzione digitale. Restando all’Europa, va inoltre ripensato il ruolo di quella Banca centrale senza Stato, la Bce. L’ipotesi dell’Helicopter money, prospettata in Italia da Marco Bertorello e da Christian Marazzi, non è “accademica” come ha detto l’attuale presidente Mario Draghi, ma molto concreta. Non è una bestemmia stampare moneta e darla a tutti i cittadini e agli stranieri residenti, all’interno di una strategia comunitaria basata sui diritti sociali e sulla redistribuzione dei profitti digitali. Se la Bce lo ha fatto con i titoli di stato e sul mercato secondario, a tutto beneficio delle banche e delle imprese, lo stesso può essere fatto per le persone con esiti senz’altro diversi e politicamente interessanti.
Nella prospettiva di un avanzamento che consideri insieme la trasformazione dei sistemi di Welfare insieme a quelli nascenti del Webfare, le ipotesi sul finanziamento statale, quello della Bce, quello europeo, la tassazione dei capitalisti digitali andrebbero trasfuse, e sintetizzate, in un nuovo approccio pluralistico rispetto alle questioni che hanno squassato le culture progressiste nell’ultimo trentennio. Ormai la ricerca più avanzata sul reddito di base (ad esempio il Manifesto per il reddito di base di Emanuele Leonardi e Federico Chicchi, Laterza) ha dimostrato che – contrariamente all’approccio lavorista – questa prospettiva è compatibile con la diminuzione dell’orario di lavoro a parità di salario; con il salario minimo orario; con la contrattazione sociale e inclusiva; con una nuova proprietà sociale dei mezzi di produzione.
Parlare oggi di reddito di base significa dunque indicare un modello di democrazia del tempo liberato dove il soggetto ha il tempo necessario per scegliere il lavoro e il non lavoro da fare senza essere costretto a svolgere un lavoro qualunque per sopravvivere o riprodursi.
In Italia il movimento 5 Stelle, e il governo populista e razzista con la Lega hanno bruciato programmaticamente la proposta di “reddito di cittadinanza” trasformandolo in una politica del lavoro gratuito e coatto in cambio di nuovo precariato. In questo momento è necessario specificare che la prospettiva politica del reddito non va in nessun modo confusa con una politica attiva del lavoro. È più che opportuna la differenza indicata da Andrea Fumagalli (in Economia politica del comune, DeriveApprodi): il reddito è incondizionato, né il mercato né lo Stato possono pretendere in cambio un lavoro. Sono invece i cittadini a dovere pretendere una riforma fiscale progressiva a livello nazionale e sovranazionale; imponenti politiche di investimento pubblico e privato sull’innovazione tecnologica e sociale; un ribaltamento dei rapporti di forza che rendono oggi improbabile queste proposte.
Dalle elezioni politiche italiane del 4 marzo 2018 – ma in realtà sin dalla legislatura precedente iniziata nel 2013 – abbiamo avuto la dimostrazione più eclatante che il reddito è il terreno di battaglia politica immediata, materiale e di prospettiva. A dire il vero, tranne la truffa politica ordita dai Cinque Stelle, sono stati davvero in pochi gli attori sociali e politici a rendersene conto. In questo quadro, non proprio favorevole, va riconosciuto il ruolo di avanguardia di massa del movimento femminista Non Una Di Meno che in Italia ha inteso il reddito come strumento politico essenziale per affermare la libertà delle donne, indipendentemente dalla loro nazionalità e dal possesso di un permesso di soggiorno, di beneficiare di un reddito di autodeterminazione per affermare il diritto di esistenza. Questa è la base della politica rivoluzionaria nel XXI secolo.