Con grande enfasi, il governo Renzi ed il partito di maggioranza, hanno dato notizia nei giorni scorsi dell’introduzione in Italia di una misura di contrasto alla povertà. Si tratta del “reddito di inclusione”, che in accordo con l’alleanza contro la povertà ed il forum del terzo settore, dovrebbe essere la misura risolutiva per affrontare questa condizione sociale. Seicento milioni di euro per il primo anno ed 1 miliardo per il secondo (2017), questa la cifra messa a disposizione per rispondere alle difficoltà economiche di oltre 12 milioni di persone che sono povere o a rischio povertà. Una cifra irrisoria, come evidente, che non comprendiamo come possa essere salutata come “misura contro la povertà”. Se pensiamo che la Banca centrale europea mette a disposizione delle banche, attraverso il quantitative easing, 80 miliardi di euro al mese, e che inoltre, con il nuovo piano di salvataggio pubblico per le banche sotto stress, si prevede un budget di 180 miliardi di euro – semplice da questa comparazione stabilire dove effettivamente viene rivolta l’attenzione maggiore dei decisori politici. Era stato chiaro d’altronde Visco, il governatore della Banca d’Italia: “non ci sono soldi per un reddito minimo garantito”. Salvo poi, in accordo con il Ministro delle Finanze Padoan dire che: “è necessario un piano pubblico di salvataggio delle banche” (i 180 miliardi di cui sopra). Tanto per renderci conto dei numeri, e di quanto irrisorio sia l’impegno preventivato dal governo italiano, si consideri che per il solo RSA (Revenu de solidaritè) la Francia spende 10 miliardi di euro l’anno!
Non comprendiamo dunque come si giustifichi tale enfasi, tanto da parte governativa quanto da chi dovrebbe contrastare la povertà e le nuove povertà.
Usiamo non a caso questa formula (nuove povertà) perché ci sembra che i promotori di questa misura non comprendano quali siano i soggetti aggrediti dalla crisi economica e come si siano trasformate le povertà e dunque di quali strumenti ci sia realmente bisogno per contrastare questa vera e propria piaga sociale che sta modificando la composizione e le caratteristiche sociali della “povertà”. Infatti, non si tratta solo di contestare, dal nostro punto di vista, il finanziamento che questo “reddito di inclusione” ha ricevuto che come evidente è al limite del ridicolo e che ci rimanda proprio all’immagine delle “briciole che cadono dal tavolo dei commensali”, ma anche il contenuto e la filosofia della misura stessa.
L’impianto, per sintetizzare, prevede un intervento di tipo familistico, con condizionamenti ed obblighi stabiliti dall’autorità, con una particolare attenzione alle organizzazioni sociali (sindacati, terzo settore, ong cattoliche in primis) che dovrebbero prendere in carico “i beneficiari” poveri per “metterli al lavoro”. Pena l’esclusione dal “beneficio” del reddito di inclusione. Eppure ne esistono di studi, di analisi, di richiami alle nuove povertà e alle nuove composizioni sociali – sono piene le biblioteche, anche istituzionali, di questo nuovo e vasto campo del sapere. Così come chiare appaiono le indicazioni delle istituzioni sovranazionali, europee in primis, che individuano alcuni criteri essenziali per introdurre forme di sostegno al reddito. In questo caso con l’introduzione del cosiddetto “reddito di inclusione” pare che tutto ciò non abbia avuto alcun peso.
Infatti, non solo il riferimento del sostegno a un livello “familistico” non risponde più ai criteri affinché un sostegno al reddito possa funzionare al meglio (per questo va rivendicato il concetto di “diritto individuale”), ma soprattutto l’idea così stringente di “obbligo ad accettare qualsiasi lavoro pena la perdita del beneficio” ci sembra non affrontare la condizione di milioni di persone. Non tenendo conto inoltre della enorme precarizzazione sociale che sta producendo milioni di nuovi poveri (120 milioni in Europa), persone che il più delle volte lavorano, e che sono già “incluse” nel sistema produttivo ma che non hanno alcuna continuità di reddito tra un lavoro ed un altro e che di certo non necessitano, nei loro momenti di “difficoltà economica”, di essere avviati a un lavoretto qualsiasi solo per giustificare di fronte al pubblico il fatto di ricevere un sostegno. Le misure del cosiddetto workfare, presenti in molti paesi europei, hanno prodotto una infinità di lavori dequalificanti, con successivi bassi salari, spesso utili soltanto a giustificare i soldi destinati alle aziende intermediarie che offrono loro il “lavoro” e che hanno evidenti sgravi fiscali e incentivi. In questo senso vi è un vero e proprio “business” della povertà sulle spalle dei poveri, che finisce per utilizzare denaro pubblico destinato non a sostenere i soggetti interessati ma i diversi intermediari e datori di lavoro.
Per l’Italia poi c’è un rischio supplementare, cioè quello di avviare tanta forza lavoro a basso costo (obbligati in quanto beneficiari del reddito di inclusione) a “coprire i buchi” creati dai tagli agli enti locali a causa delle politiche di austerità successive al fiscal compact. L’idea, in sostanza, che ci sembra sottesa a questa misura promossa dal governo Renzi, è che i percettori di questo sostegno siano presi in carico da organizzazioni del terzo settore e spediti a fare i lavoretti necessari che il Comune non riesce più a garantire. Con la scusa dell’inclusione e della cittadinanza attiva!
Inoltre non tenendo in considerazione le indicazioni europee in merito al tema dell’inclusione e della necessità di introdurre un sostegno al reddito. In particolare va segnalata la risoluzione europea dell’ottobre 2010 che dice che: non bisogna contrapporre il Reddito Minimo e l’integrazione sociale e la garanzia ad una vita dignitosa attraverso l’obbligo all’integrazione lavorativa (“il coinvolgimento attivo non deve sostituirsi all’inclusione sociale e chiunque deve poter disporre di un Reddito Minimo, e di servizi sociali di qualità a prescindere dalla propria partecipazione al mercato del lavoro” (Relazione per Risoluzione europea sul Coinvolgimento delle persone escluse dal mercato del lavoro – 8 aprile 2009); Questo anche perché sono ormai molti gli studi internazionali utilizzati anche dalle istituzioni europee (Frazer, Marlier) che dimostrano che questo “obbligo” così stringente allontana le persone dal richiedere il sostegno al reddito proprio perché costretti a fare i lavori più stupidi che nulla hanno a che fare con le loro esperienze (ed anche ambizioni!). Inoltre ci pare che i numeri parlino chiaro: da quanto il welfare ha subito enormi tagli con l’aumento al contrario delle spese verso il workfare, in Europa sono aumentati i disoccupati, i poveri, e sono diminuiti i salari! L’Italia sta facendo lo stesso identico errore che però l’Europa ha fatto 20 anni fa con l’introduzione della flessibilità del lavoro!!!
Ma molte altre cose non state tenute in considerazione nella definizione di questo “reddito di inclusione” promosso dal governo Renzi e cioè che vi sono svariate proposte di legge per un “reddito minimo garantito” ferme in Parlamento ormai da tempo. Solo per citarne alcune: la proposta del Movimento 5 stelle che come quella di Sinistra Ecologia e Libertà sono rimaste “al palo” della Commissione Lavoro del Senato per mesi e mesi! In particolare quella proposta oggi dal partito di Sel, è una proposta di legge di iniziativa popolare frutto di una campagna sociale durata 6 mesi che ha raccolto oltre 60mila firme, coinvolto 170 associazioni e prodotto oltre 250 iniziative pubbliche. Una proposta di legge che si rifà alle migliori esperienze europee, tiene conto delle criticità che queste hanno sviluppato nel tempo e calata dentro le nuove trasformazioni sociali. Nel 2013 le firme furono consegnate alla Presidente della Camera Boldrini dopo che una folta delegazione di parlamentari scese in piazza Montecitorio per accogliere i promotori di questa proposta.
A questa campagna va aggiunta la proposta del “Reddito di dignità” promossa nel 2015 da una vasta rete di associazioni (in primis Libera) che chiedevano con urgenza l’introduzione di una forma di reddito minimo garantito o di cittadinanza per contrastare la povertà e valorizzare le persone. Oltre le 75mila firme raccolte durante questa campagna, sono stati numerosi i parlamentari che hanno firmato per l’introduzione di questa misura, tanto che si parlò di una “larga intesa per il reddito” nel Parlamento italiano.
Purtroppo tanto il Movimento 5 Stelle che il partito di SEL non hanno avuto la capacità di dare gambe a questa “larga intesa” lasciando che le diverse proposte non avessero un seguito più vasto ed un appoggio sociale ancora più evidente come sarebbe potuto accadere, se appunto avessero saputo riunificare le proposte e dare corpo e vita alle azioni necessarie affinché venisse avviata una seria discussione in parlamento. Il loro ritardo di fatto ha permesso a Renzi di disporre di tutto il tempo necessario per arrivare a questa triste proposta del “reddito di inclusione” e dei 600 milioni di euro di finanziamento.
Nella definizione del “reddito di inclusione” di Renzi non vi è nulla delle indicazioni europee, né delle proposte di legge precedenti, né di quelle ferme in Senato, né delle petizioni popolari, né delle analisi sulle nuove povertà, né una riflessione sugli strumenti per la valorizzazione delle esperienze e delle competenze delle persone e soprattutto non vi è nulla che somigli lontanamente ad uno strumento che garantisca la dignità della persona.
Sembriamo troppo critici dal momento che in un paese come il nostro “questa misura è meglio di niente”? Bene, vogliamo trovare un punto di contatto: a quanto pare, dopo tanto girarci intorno, anche Renzi è stato costretto ad ammettere che un reddito garantito ci vuole. Avevamo ragione da anni, ma di certo non è la ragione che cerchiamo, ma una misura, un diritto, una garanzia di dignità e libertà della persona.