Rispetto al tema reddito/lavoro ed ai nessi che si stringono o si allentano intorno a questi due termini è stata possibile l’elaborazione di leggi, proposte di legge regionali, o di semplici discussioni intorno al tema di un diritto al reddito destinato non solo ai soggetti “svantaggiati” o agli “inabili al lavoro” ma a tutti coloro subiscano la precarizzazione delle proprie condizioni di vita.
L’analisi delle condizioni di precarietà del mondo del lavoro italiano si intreccia con la valutazione delle politiche sociali e di welfare. Se si rivolge lo sguardo all’Europa, è da tempo noto che la maggior parte dei paesi europei prevede delle politiche volte a ridurre le condizioni di incertezza in cui vivono i lavoratori precari, anche sotto la forma di erogazione di denaro, di servizi o di politiche per l’abitare. Alcuni osservatori segnalano che queste misure, laddove si riducano a semplice assistenza, possono essere considerate dei palliativi per tenere sotto controllo il mondo del lavoro favorendo l’individualizzazione delle relazioni professionali. Tuttavia, in altri casi, si sono rivelate strumenti in grado di sostenere gli elementi fondamentali per lo sviluppo di un territorio, vale a dire la crescita delle competenze e la libertà di scelta delle proprie esperienze professionali e formative, sottraendo in parte i soggetti coinvolti dal ricatto del bisogno e della precarietà. Il confronto con l’Europa ci dice che nella media europea le voci di spesa sociale destinate alla disoccupazione (che comprende erogazioni di reddito nei periodi di intermittenza dell’impiego) ed alle politiche abitative pesano rispettivamente per il 6,6% ed il 3,5% della spesa sociale totale. L’Italia ha la performance di spesa ampiamente al di sotto della media per entrambe le tipologie di misure: 1,8% e 0,2% rispettivamente per disoccupazione ed abitare. È difficile non ricomprendere questi dati nella riflessione sul rinnovamento del welfare.
Nei mesi che abbiamo alle spalle, in molte regioni italiane la discussione intorno a proposte di legge sul reddito sociale, come misura di contrasto alle criticità sociali prodotte dalla frammentazione del mercato del lavoro, è stata all’ordine del giorno del dibattito politico. Dopo la sperimentazione del “reddito di cittadinanza” in Campania, rispetto alla quale sarebbe interessante e utile effettuare una seria valutazione d’impatto, in altre regioni il ripensamento del welfare locale ha preso la forma di proposte o processi legislativi in materia di reddito e servizi. In Friuli questo percorso è stato inscritto nel “capitolo” dell’assistenza, seppur con spunti e riflessioni originali legati non solo all’iniziativa della Giunta, ma anche, da una parte, al percorso effettuato dall’Osservatorio sulle Politiche Sociali della regione, e dall’altra all’iniziativa della ASS Triestina n. 1. La regione Lazio, da parte sua, ha già deliberato uno stanziamento finalizzato a misure di sostegno al reddito (per ulteriore documentazione prodotta dalla regione Lazio si veda il portale dell’assessorato al lavoro). La Lombardia attende da parecchi mesi la discussione in Consiglio di una proposta di legge d’iniziativa popolare depositata lo scorso anno. Anche in Calabria esiste una proposta di legge regionale depositata in consiglio. Mentre nelle Marche si è assistito ad un “percorso legislativo dal basso”, abbastanza simile a quello prodottosi in Lombardia, con una raccolta di firme su un testo nato dalla collaborazione di più soggetti politici, sociali e associativi. L’istituzione del reddito sociale è stata, sovente, oggetto di confronto tra istituzioni (di centro-sinistra), soggetti politici e movimenti sociali. L’apertura di un dibattito intorno a questi temi è stata possibile anche perchè la parola d’ordine del reddito, nelle declinazioni che vanno dal recupero del potere d’acquisto dei salari alla rivendicazione della continuità di reddito per i lavoratori intermittenti, ha fatto da sfondo a molte mobilitazioni degli ultimi anni. Questo dato ha contribuito, in alcune circostanze, a costruire un atteggiamento culturalmente più fluido, a sinistra, rispetto al tema reddito/lavoro ed ai nessi che si stringono o si allentano intorno a questi due termini ed ha consentito l’elaborazione di leggi, proposte di legge regionali, o di semplici discussioni intorno al tema di un diritto al reddito destinato non solo ai soggetti “svantaggiati” o agli “inabili al lavoro” (come è nell’orizzonte dell’assistenza sociale) ma a tutti coloro (dagli studenti universitari fino alle lavoratrici ed ai lavoratori precari) subiscano la precarizzazione delle proprie condizioni di vita. Questo tratto della “fluidificazione dei linguaggi”, sebbene non lo si possa dare per acquisito, come testimonia il dibattito estivo (che ha contrapposto in un vecchio schematismo “redditisti” e “salarisiti”) svoltosi sulle pagine de il manifesto, ha rappresentato l’elemento politico più interessante di queste esperienze. Si tratta, inoltre, a prescindere dal giudizio che si può riservare a misure regionali di questo tipo, di sperimentazioni che contribuiscono ad arricchire il dibattito sul welfare locale che non sembra brillare in quanto a proposte e progetti complessivi.
Ma c’è ancora un elemento che vale la pena considerare nel ragionamento sul ripensamento del welfare. In tutt’ Europa, infatti, la spesa sociale è finanziata per il 60% dai contributi e per il 37% dalle tasse. In Italia le percentuali sono rispettivamente del 58,6% e del 39,8%. È noto che i giovani lavoratori, perlopiù con contratti intermittenti, generano un flusso di contributi sociali inferiore a quello delle generazioni precedenti. Si tratta di un problema di sostenibilità della spesa che finanzia il welfare ben più grave di quello derivante dai fenomeni demografici. Allora è dalla lotta alla precarietà, da un lato, e da possibili forme di sostegno al reddito che inglobino contributi sociali e previdenziali, dall’altro, che bisognerebbe ricominciare il ragionamento su un nuovo welfare, accantonando un attimo il solito e ricorrente tema dei tagli alle pensioni.
Cristina Tajani – Università di Milano e Camera del Lavoro Metropolitana Milano
Stefano Lucarelli – Università di Bergamo