Con l’apertura della campagna elettorale – nel pieno della stagione estiva, con il solito ed immancabile refrain “non si trova più forza-lavoro” (o, ancor più precisamente sarebbe meglio, moderni schiavi felici e disponibile a farsi sfruttare per qualche mancetta mascherata da “retribuzione salariale”) – l’attacco al reddito di cittadinanza è diventato uno dei temi fondamentali della propaganda mediatica, su cui i leader politici si cimentano nel corso dei salotti televisivi diventati veri e propri megafoni al servizio di questa o tal altra coalizione in gara, cercando di veicolare de facto quel pensiero unico consolidatosi negli anni, senza più alcuna distinzione ideologica seppur fittizia tra “destra” e “sinistra”, con giornalisti compiacenti e gaudenti del gioco di spalla offerto al front runner della coalizione di turno, nel vedere distruggere quel poco di buono (sebbene maldestramente realizzato) che avevano varato i governi a guida pentastellata. Insomma, dobbiamo dirlo, questa schiera di anchorman\anchorwoman ci fa rimpiangere le vecchie asettiche tribune elettorali trasmesse dal servizio d’informazione pubblico della cd. “prima repubblica” (il che è quanto dire).
Altrimenti detto, assistiamo in modo perverso e strumentale ad una campagna di disinformazione politica volta a massacrare ogni ipotesi di accesso al reddito non mediato dal lavoro salariato, sebbene quest’ultimo oltre ad essere sempre più precarizzato ed impoverito (basse retribuzioni e tutele azzerate) non lascia speranza alcuna di futuro per le nuove generazioni. Cosicché gli attacchi al Reddito di Cittadinanza sono diventati, ancor più di prima, il cavallo di battaglia delle forze politiche convergenti nell’ideologia neoliberista, sia che esse provengano dalla logica populista (alla Orban) o dalla destra mercatista sia che muovono dalla tradizione liberal-socialdemocratica, più prona alla dittatura governamentalista degli apparati burocratici di Bruxelles.
Una delle poche voci che si è sollevata, anche in questi giorni, contro le narrazione mainstream sul reddito di cittadinanza è stata quella di Chiara Saraceno, sociologa e Presidente del “Comitato scientifico di valutazione del Reddito di cittadinanza”, facendo una vera e propria operazione-verità sull’importanza valoriale del risultato (1 milione di fuoriusciti dalla condizione di povertà assoluta) e sul perché e su cosa non ha funzionato nella gestione della misura di contrasto alla povertà.
Uno dei principali problemi individuati è connaturato alla forzata ambivalenza della ratio giuridica attribuita dal compromesso legislativo all’atto dell’introduzione dell’istituto, sottoposto successivamente a tutta una serie di modifiche ed integrazioni normative che hanno disseminato condizionalità crescenti, come vere e proprie trappole per rendere più tortuosa e restrittiva l’attribuzione della misura. In ogni caso, poiché l’obiettivo era sic et simpliciter il restringimento dell’intervento sociale – così come si evince dall’articolo della Saraceno sul settimanale L’Espresso del 31 luglio scorso -, gli effetti posti in essere con le vari parziali regolazioni esecutive susseguitesi non hanno né riformato seriamente quelle che dovrebbero essere le politiche sociali (necessarie a contrastare l’emarginazione e l’esclusione) né sortito l’introduzione di alcun sistema da annoverare fra le politiche attive del lavoro. Ciò che rimasto in piede – e per fortuna! (pandemia docet!) – è il RdC tout court: da un lato, configurato come strumento residuale di lotta alla povertà assoluta, fondamentalmente erogato in favore di chi non è occupabile; dall’altro, assimilato ad uno strumento di politica attiva del lavoro, ma senza alcun supporto organico strutturale e, soprattutto, senza mettere mani ad una nuova regolazione generale degli ammortizzatori sociali in senso universalistico.
In altri termini, a far funzionare l’altro corno del reddito di cittadinanza, in quanto misura attiva del mercato, indirizzata a chi in linea di principio è da considerare “occupabile”, avrebbe dovuto essere la struttura regionalizzata (peraltro negli anni indebolita nelle funzioni di collocamento, compito istituzionale prima ad essa demandato) dei Centri per l’impiego a dover gestire la pianificazione, attraverso il “patto occupazionale”: quello sottoscritto dalla metà dei percettori del reddito che avevano dichiarato la loro disponibilità al lavoro. Ma da questo punto di vista – così come scrive la Saraceno nell’articolo succitato, “al netto di uno scarso attivismo del Centri per l’impiego (Cpi) e di una domanda di lavoro (regolare e con una remunerazione decente) spesso carente” – l’azione dell’operatore pubblico in soccorso di chi è stato definito “occupabile” è risultata assolutamente inefficace se non assente. In quanto all’inazione dei soggetti pubblici individuati dalla normativa sul RdC vanno segnalati pressoché tutti i Comuni, rimasti totalmente inoperosi in ordine alla possibilità d’impiego dei percettori sul fronte dei lavori di pubblica utilità. Insomma, de facto possiamo dire che l’immobilismo e la totale indifferenza registratasi ai vari livelli della pubblica amministrazione (dal ceto politico a quello burocratico), hanno pressoché reso impraticabile la misura come strumento attivo della politica del lavoro.
D’altro canto con la dinamica occupazionale strutturata sulla richiesta di basse qualifiche, prevalentemente articolate su una temporalità contrattuale caratterizzate da brevissimi termini di scadenza – «quasi il 69 per cento (segnala la Saraceno) non superava i 3 mesi e più di un terzo durava meno di 1 mese» – come è possibile immaginare l’uso della misura reddituale in funzione attiva delle politiche del lavoro?
Per fortuna bisogna evidenziare che, sul piano del contrasto alla povertà, la macchina assistenziale dell’Istituto previdenziale ha retto l’impatto dell’utenza, con disaggi interruttivi nell’ordine di un lasso di tempo fisiologico, le cui cause sono da attribuire – nella fattispecie – a dispositivi legislativi (come la ripresentazione della domanda dopo 18 mesi) decisamente vessatori (come il limite massimo del contante o la carta identificativa del “marchio di povertà”) nei confronti degli aventi diritto.
Certo a fronte di quel che si prospetta all’indomani dell’imminente suffragio universale, le nuove politiche sociali sicuramente non saranno improntate, seppur nella logica dell’assistenzialismo residuale di mera sussistenza, sulle stesse direttrici di quelle vigenti. Anzi abbiamo la piena certezza che solo una resistenza sociale potrà fermare la volontà abolitrice manifestata da questa compagine reazionaria e conservatrice che si accinge alla guida del paese. Anche perché non ci aspettiamo nessuna vera opposizione politica che emergerà nello spazio di rappresentanza, dopo il 25 settembre, in difesa del Reddito di cittadinanza. Infatti, sia il Partito democratico sia il sindacalismo confederale, chi in modo sotterraneo chi in modo palese, hanno da sempre osteggiato misure di accesso al reddito che non fossero mediate dalla condizione “fondamentale” del lavoro salariato.
Questo mantra vetero-lavorista è mantenuto alto financo oggi, come mera apparenza, nel vessillo dagli eredi di quella che fu la sinistra istituzionale novecentesca, nell’epoca in cui gli investimenti di produttività sono finalizzati a tecnologie sostitutive di lavoro vivo; oppure, laddove resiste ancora il lavoro salariato, il processo estrattivo di valore è basato essenzialmente sull’impoverimento delle condizioni di vita, legittimato in nome delle “regole naturali” del mercato, per cui l’abbondanza dell’offerta di una merce (la forza-lavoro) abbasserebbe il prezzo in favore di una domanda sempre più esigua. Tutto ciò rende possibili la selvaggia ricattabilità servile, come strumento fondante di un mercato che ha legalizzato la precarietà esistenziale delle persone (leggi: Jobs Act).
Ancora oggi, in cui il postfordismo ha reso ancor più astratto il processo della produzione e del tutto casuale ed indifferente l’impiego della forza-lavoro, il movimento sindacale confederale tradizionale si trova abbarbicato sulla punta estrema dell’albero del culto lavorista e della centralità del salario. Da questo punto di vista è emblematico quanto ci racconta Chiara Saraceno nell’intervista rilasciata a MicroMega (: «Quando, a metà degli anni Novanta – dice – , proponemmo alla Commissione di indagine sulla povertà e l’emarginazione guidata da Pierre Carniti uno strumento che sarebbe poi diventato il “reddito di inserimento sperimentale”, ricordo che l’allora segretario della Cgil, Bruno Trentin, coniò lo slogan non una lira senza un’ora di lavoro». E questa è la cultura “di sinistra”.
Ecco così spiegate le ragioni della mancata riforma degli armonizzatori sociali che, come in una camicia di Nesso, ha imprigionato il ministro Orlando, ostaggio del confederalismo classico che si oppone strenuamente perfino al salario minimo legale e ad ogni regolamentazione dei rapporti tra le parti sociali in materia contrattuale, gelosamente custoditi come rendite di posizioni acquisite dai sacerdoti guardiani del tempio, ovvero del controllo autoritario sul lavoro sociale. Strumentalmente dicono che l’introduzione del salario minimo farebbe abbassare le retribuzioni, secondo il principio dell’armonizzazione delle compatibilità dei fattori capitale e lavoro. È stata proprio questa logica contrattuale che ha portato all’immiserimento generalizzato delle condizioni di vita sociale, a cominciare dall’arretramento delle tutele conquistate grazie alle lotte delle generazioni conflittuali del passato (basti ricordare la disdetta della scala mobile).
Sostanzialmente diciamo alle centrali del confederalismo sindacale: dato un salario minimo legale cosa impedisce stipulare accordi di categoria che oltrepassano la soglia legislativa della retribuzione base ?