La prospettiva del reddito di cittadinanza viene legata all’analisi dei bisogni di una figura produttiva emergente, quella dei lavoratori precari. Il superamento della società salariale, reso evidente dall’avvento della produzione postfordista, rende urgente un ripensamento alla radica della funzione e della natura del welfare state.
Reclaim the money. It’s time to go. La rivendicazione di un reddito di cittadinanza si inscrive nel quadro di quelle rivendicazioni che, dagli anni Sessanta, hanno iniziato a legare la prospettiva di lotta al radicale rifiuto del lavoro salariato. Certo, molte cose sono cambiate rispetto a quegli inizi. Il modello di produzione fordista, tutto interno ad una dinamica di fabbrica, alla catena di montaggio, è divenuto via via marginale rispetto alle nuove forme di organizzazione del lavoro. Il post-fordismo, che ha preso il posto del modello centrato sulla fabbrica, ha uno sviluppo fortemente dipendente dalla capacità di creare cooperazione: cooperare meglio vuol dire competere meglio.
Da questo contesto di trasformazioni è emersa una nuova “figura operaia”, un nuovo tipo di forza lavoro: il precario, l’operaio “a tempo determinato”. A differenza del lavoro a tempo indeterminato di tipo fordista, per i precari non ci sono contratti collettivi di riferimento, ma contratti generici legati all’occasionalità, dipendenti dalle esigenze dell’offerta di lavoro delle imprese e delle variabili di bilancio. I contratti precari inquadrano una forza lavoro “generica”, che cambia spesso settore e mansione. Contratti generici per qualità generiche messe al lavoro.
Proprio la “genericità” è un carattere specifico di questa situazione: in essa si racchiude tutta la realtà sociale di questo lavoro fatto di saperi organizzativi e specialistici, di capacità di adattamento, di attitudini creative e desideri, tutto ciò che il capitalismo postfordista mette in produzione. Si vede, analizzando le condizioni lavorative e produttive dei precari, che dietro la genericità dei contratti a tempo determinato si cela lo sfruttamento di queste capacità sociali. “Generiche”, per definizione, sono le stesse qualità sociali dei soggetti, nel senso che sono comuni a tutti, come la capacità di comunicare, di organizzare la propria attività in relazione ad altri, di pianificare il proprio lavoro in riferimento a quello altrui, eccetera.
Nel momento in cui le sue capacità lavorative coincidono con la sua soggettività sociale, il precario, pur massimamente flessibile nel rapporto con la sua prestazione lavorativa, si trova in produzione a ciclo continuo. Il lavoro cortocircuita con la vita sociale. Ogni volta che il precario esce dal suo “tempo di lavoro” per entrare nel tempo di vita, il tempo delle sue relazioni e della sua soggettività, egli si “ricarica” di queste qualità sociali: il paradosso dell’economia postfordista è che, proprio in questo momento, il lavoratore precario è considerato improduttivo, e la sua libera e autonoma attività sociale non viene retribuita. In questa dinamica contraddittoria prende consistenza il ragionamento sulla questione del reddito garantito.
Prendendo atto dall’attuale crisi del sistema del welfare state, troppo legato al rapporto di lavoro fordista per essere una risposta sufficiente ai problemi posti dalle forme di lavoro “flessibile”, si sono delineati, in riferimento a possibili politiche di sostegno sociale “postfordiste”, due campi di lotta teorico-politica: sono due posizioni tra loro opposte rispetto alla considerazione delle cause, delle soluzioni proposte e delle modalità concrete di erogazione del reddito, dunque divergenti rispetto alle rispettive prospettive strategiche.
– La posizione neoliberista approda ad un reddito minimo di sussistenza. In questo caso il legame con il lavoro diviene centrale perché la sfera lavorativa viene assunta come regola della vita sociale, anche se “in negativo”, in maniera privativa: chi non lavora è fuori dalla società, il reddito “minimo” può essere concesso solo a coloro che sono rimasti “fuori”. Il reddito minimo è una forma di sussidio di disoccupazione, assegnato a quei soggetti che l’economia decreta essere esterni alla produzione, ai margini del lavoro e della società. Il ragionamento intorno ad ipotesi di questo genere concepisce l’erogazione di reddito come una politica di pura assistenza pubblica, tale da porre un argine agli effetti socialmente deleteri del processo economico. Nella prospettiva neoliberista il reddito si riduce ad un minimo vitale col quale compensare le contraddizioni aperte dalle politiche neoliberali e rafforzare il controllo sociale sui ceti più marginali, inseriti negli schedari della social security.
– Una posizione alternativa è fatta propria dalle situazioni politiche più radicali e antagoniste: essa pone la necessità dell’introduzione di un reddito di cittadinanza universale sganciato dalla prestazione lavorativa. Questa posizione fa forza sui contenuti delle nuove forme di lavoro, sempre più orientate verso una condizione di generalizzata precarietà. Allo stesso tempo questa prospettiva legge nel lavoro precario contenuti di tipo sociale e relazionale: il valore prodotto deve quindi sempre più essere ricercato dentro le forme spontanee della cooperazione e della creatività sociale. A fronte di questa cooperazione diffusa si pensa a un reddito che sia indipendente dalle forme specifiche del lavoro, che sia generalizzato al punto da non prevedere alcun vincolo alla sua erogazione, né di età, né di sesso, né di etnia: si tratta di un reddito di cittadinanza incondizionato e indipendente dalla prestazione lavorativa.
Per discutere della validità di queste proposte bisogna valutare le linee strategiche sulle quali ci si intende muovere. Per ciò che ci riguarda non è possibile discutere di reddito garantito altrimenti che come misura necessaria per i soggetti precarizzati. La condizione della forza lavoro precaria è l’asse centrale dal quale il discorso sul reddito garantito non può essere disgiunto: essa è il punto di riferimento del giudizio politico che si dovrà dare alle differenti soluzioni di reddito finora avanzate nel dibattito. Quali conseguenze avrebbero queste misure sulla questione del lavoro precario una volta che esse fossero tradotte in reali dispositivi d’erogazione di reddito sociale? Questa è la prima domanda che ci dovremmo porre.
L’esistenza di forza lavoro precaria ribalta le prospettive sulle quali si è sviluppato fino ad oggi il dibattito sulle garanzie sociali, dibattito che ha sempre strettamente legato l’accesso ad esse in rapporto al fattore centrale della partecipazione al lavoro. La pensione per chi ha terminato il lavoro, la cassa integrazione per chi è sospeso dal lavoro, la scuola per chi deve prepararsi al lavoro: tutta la società fordista è stata regolata sul parametro dell’inevitabile partecipazione al lavoro. L’esistenza strutturale della forza lavoro precaria dimostra nella pratica che questo assunto di centralità è improprio ed è causa di prospettive fortemente forvianti. E’ impensabile considerare le garanzie sociali al di là di questa condizione reale che vivono i milioni di precari, è impensabile l’accesso alle garanzie sociali a partire dalla partecipazione continuativa al lavoro: i risultati non potrebbero che essere aberranti.
Oggi la questione dell’inclusione ed esclusione dalla società sul parametro universale della partecipazione o meno al lavoro è superata nei fatti. Il precario è sempre dentro e, potenzialmente, fuori, incluso ed escluso nello stesso momento. L’esclusione è per il proletario precarizzato una minaccia sempre presente, anche quando il reddito da lavoro gli è al momento garantito: l’esclusione, infatti, potrebbe tornare ad essere per lui una dura realtà nel momento in cui il rapporto con questo reddito venisse ad interrompersi e il contratto di lavoro non gli fosse rinnovato. Fino a quando al precario non sarà garantito un reddito indipendentemente dai periodi di attività o inattività lavorativa, l’esclusione resterà per lui una realtà cogente. Il fatto che non si proceda in maniera ferma e netta verso la soluzione di un reddito garantito sganciato dal lavoro e che, quindi, si perpetui l’attuale clima di incertezza e paura è dovuto alla persistente strategia economico-politica che lega l’accesso alle garanzie sociali alla partecipazione al lavoro. Si tratterebbe, invece, di pensare lo sviluppo della società al di là del paradigma del lavoro. L’esclusione di cui il precario è vittima è conseguenza della vigenza del parametro del lavoro quale criterio per la redistribuzione del reddito.
Dunque, il precario è un perenne escluso. Ma è anche l’attore principale dei processi di produzione postfordisti. Il precario, al di là delle vessazioni economiche e sociali che subisce, è un soggetto ricco. I processi del lavoro coinvolgono questa forza lavoro in quanto capace di relazione e di gestione delle situazioni, in quanto soggetto comunicante, in quanto capace di trovare soluzioni cooperando. I precari sono ricchi di qualità sociali.
Il reddito di cittadinanza rappresenta, in effetti, per i precari sia una garanzia sociale adeguata all’attuale livello dei rapporti di lavoro – che serve a metterli al riparo dal rischio che l’inoccupazione si trasformi in indigenza e a preservarli dal ricatto di dover cedere la propria prestazione al ribasso del salario -, sia il riconoscimento delle qualità sociali che i precari mettono in produzione e che costituiscono la qualità specifica della loro forza lavoro – riconoscimento delle qualità sociali di cui essi sono portatori.
L’erogazione di reddito in forma di denaro non è sufficiente, però, per inquadrare la questione delle garanzie per il lavoro “postfordista”. Questa figura emergente del lavoro ha bisogni comuni, comuni a tutti i precari. Bisogni che mostrano essi stessi un carattere immediatamente sociale nel senso che essi si riferiscono ad esigenze della vita sotto l’aspetto specificamente sociale e relazionale. Sono, cioè, bisogni primari del vivere associato come la mobilità (esigenza fondamentale per una forza lavoro ampiamente dispersa sul territorio e in movimento, dove possibilità di movimento vuol dire minore dispersione di tempo), la formazione (perché il sapere è divenuto centrale negli attuali processi, dunque, esservi escluso comporta una penalità altissima, quella di rimanere al di fuori dalla vita sociale e produttiva), l’informazione (perché essa vuol dire possibilità di usufruire delle offerte presenti nella cooperazione sociale, vuol dire possibilità di allargare la cooperazione sociale), la socialità (all’incontro fisico e virtuale, perché la costruzione di reti sociali è divenuta un supporto indispensabile sia per la ricerca di commissioni, oltre che per la costituzione delle équipe di produzione autonome), l’abitare (diritto alla casa come possibilità per tutti di disporre di uno spazio per la realizzazione e l’organizzazione della propria vita). Accanto alla rivendicazione diretta di un’erogazione monetaria, quindi, dovrà essere presa in considerazione anche una forma di erogazione non monetaria, che preveda il libero accesso ai servizi primari per la vita collettiva.
Nell’esperienza quotidiana di lavoro e di vita i precari stanno scoprendo praticamente il carattere primario di questi bisogni comuni, di quei bisogni che rimandano alla riproduzione della vita comune, non meno di quanto il capitale abbia scoperto quale suo principio di crescita l’accumulazione di “tempo sociale”, che ora si ripropone al soggetto come miseria ed esclusione.
I bisogni comuni sono l’elemento che unisce la trama frammentata dei contratti individualizzati. E’ qui che, in riferimento al carattere “comune” della produzione e dei bisogni primari, si tratta di capire le differenze che sussistono tra l’introduzione “funzionale” di un generico sussidio di disoccupazione e la prospettiva “strategica” del reddito di cittadinanza.
Il sussidio, come effetto immediato ed evidente, produrrebbe l’instaurarsi di relazioni di assistenza per il soggetto che ne usufruisce. Relazioni di subordinazione sia nei confronti del mercato, in quanto vittima sacrificale al regime di concorrenza, che dello Stato, in quanto ridotto a oggetto d’assistenza pubblica. Esso fa parte di una strategia che vorrebbe definire tutta l’economia e la società su base poliziesca, una misura contigua a un certo modo di gestire il rischio attraverso la sorveglianza e il controllo diffuso. Il sussidio neoliberale redistribuisce denaro (poco) per mantenere invariato il sistema che crea squilibri e marginalità diffusa.
Ben diverso è il concetto di reddito di cittadinanza. Questa forma di reddito favorirebbe, invece, la definizione di una base di lotta comune ai precari, generale quanto lo sono divenuti il loro lavoro e il loro sfruttamento. Il reddito di cittadinanza esige il riconoscimento qualitativo della produttività diffusa, generale, comune. Esso permette la ricostruzione di un legame comune tra i precari, un legame al momento lacerato e soggiogato dai rapporti di concorrenza e dal cinico individualismo che essa produce. Si arriverebbe, in questo caso, a una redistribuzione dei beni e servizi socialmente prodotti che si coniuga strettamente con una prospettiva di costruzione di un soggetto collettivo del lavoro precario e di superamento per tutti della condizione di passività di fronte alla minaccia di marginalizzazione economica e sociale.
Reddito per tutti, quindi, lavoro o non lavoro. Massima estensività, quindi per tutti, massima intensità, quindi tanto. Il nostro scopo è la riconquista del tempo. Siamo tutto salvo che inattivi e proprio perché siamo attivi non abbiamo tempo di lavorare. Il nostro scopo è costruire percorsi in grado di trasformare i rapporti di forza esistenti.
Tratto da Infoxoa N° 19 – 2005