Un’automobile senza autista. Droni che consegnano pacchi acquistati in rete. Software che scrivono articoli per giornali o che compilano rapporti in base a una mole di dati elaborati in tempo reale. Sono solo alcuni esempi di una nuova ondata di automazione di alcuni lavori o attività prerogativa fino a una manciata di anni fa degli umani. Per raggiungere l’obiettivo di una nuova generazione di macchine che svolga attività cognitive le imprese e i governi, in particolare quelli di Stati Uniti, Cina, Regno Unito e Germania, investono centinaia di milioni di euro all’anno. Google, ad esempio, ha destinato alla produzione di automobili senza autista qualcosa come trenta milioni di euro nel 2014 solo per il software, arrivando a mettere su strada un prototipo che consente di percorrere alcune delle high way più trafficate della California senza nessun incidente. Il futuro del pianeta vede quindi il lavoro come una «risorsa scarsa» prerogativa di un numero limitato di persone molto qualificate, mentre la maggioranza della popolazione sopravvive con lavoretti, salari al di sotto della soglia di povertà e economia di sussistenza.
Un pianeta dove la distopia dello scrittore di fantascienza Herbert George Wells, narrata ne La macchina del tempo, continua a disturbare il sonno di chi vede nella «società digitale» una nuova Gerusalemme. Soltanto che nel presente ha subito piccole, eppure rilevanti cambiamenti di segno, prefigurando più che una società dell’abbondanza e dell’armonia un inferno in terra. Se nel romanzo dello scrittore inglese, l’ipotetico mondo del futuro dove la macchina del tempo ha trasportato il protagonista vede la vorace tribù dei Morlock produrre il necessario alla vita, mentre la maggioranza degli uomini e donne conduce una vita spensierata all’insegna di un ozio ottundente i sensi e la mente, salvo poi diventare il cibo degli ominidi che vivono nel sottosuolo, nel futuro delineato dalla recente saggistica la maggioranza della popolazione vaga per le metropoli come homeless alla ricerca di qualche lavoretto o attività illegale per sopravvivere, mentre una minoranza di analisti finanziari, professional conduce una vita di intenso lavoro e di smodato lusso. L’immagine emblematica di Occupy Wall Street sulla realtà del 99 per cento di cittadini sempre più impoveriti e sempre più in balia di un feroce capitale finanziario ha quindi un potere evocativo di un presente segnato da disoccupazione di massa, precarietà diffusa, proliferazione delle forme contrattuali che regolano l’accesso al mercato del lavoro e riduzione progressiva dei salari. Sono narrazioni, quest’ultime, che manifestano un rilevante potere performativo. Producono cioè dispositivi normativi, immaginari, vision che orientano le politiche sociali tese a gestire la «risorsa scarsa» del lavoro, come testimoniano le leggi sul workfare inglese, l’italico jobs act, la francese Loi Travail e la tedesca Hartz IV. Fa capolino nelle agende politiche nazionali o sovranazionali l’invito a politiche di sostegno al reddito, oppure di un vero e proprio reddito di cittadinanza. Inviti tuttavia spesso disattesi o trasformati in norme a tutela dei poveri. Va quindi salutata positivamente la provocazione di chi chiede un reddito di cittadinanza proprio per i robot introdotti nelle fabbriche, per i droni che cominciano a popolare i cieli metropolitani. Per le macchine senza autista di Google.
Con soddisfazione l’ingegnere responsabile del progetto di Google ha tenuto a precisare che nell’abitacolo c’erano persone che potevano leggere la loro posta elettronica, telefonare, insomma lavorare senza perdere il tempo necessario a percorrere la distanza che separa l’abitazione e il posto di lavoro. Poi, con altrettanta sicurezza, lo stesso ingegnere sottolineava che le automobili in costruzione non avevano nulla a che fare con i sogni di macchine intelligenti dei faraonici progetti di intelligenza artificiale varati nei ruggenti anni Ottanta e Novanta del Novecento da Stati Uniti e Giappone. I percorsi erano infatti attentamente stabiliti, introducendo variabili ricavabili da una analisi ponderata e statistica della velocità, della distanza media tra automobile e automobile, dei picchi di traffico. Ogni imprevisto era ridotto al minimo, perché una macchina può anche giungere alla destinazione stabilita, ma era impossibile programmarla per fronteggiare situazioni impreviste, variazioni nel percorso, ostacoli inaspettati da aggirare repentinamente. In un sistema integrato di sensori video, il software svolgeva un compito prefissato, ove le variabili da gestire erano comunque limitate. Non erano cioè automobili intelligenti, bensì prototipi di una macchina che apprende, che accumula dati su situazioni non formalizzate, utilizzando le ricerche e i progressi di un campo promettente della computer science, quello delle machine learning, cresciuto dopo i clamorosi fallimenti dei progetti di intelligenza artificiale degli Stati Uniti.
Le macchine senza autista hanno quindi le loro radici in quel settore chiamato machine learning, cioè manufatti tecnologici che sono programmati per apprendere, aumentare la base di dati indispensabile per fronteggiare situazioni inedite. L’intelligenza in questo caso è relegata in quell’ambito che vede la decisione come l’esito di una accorta e sofisticata elaborazione di informazioni. Più che di riproduzione dell’intelligenza umana, siamo in presenza di una simulazione di azioni che solo a posteriori possono essere considerate «intelligenti». Da qui la scelta di parlare di machine learning, cioè macchine «stupide» preposte tuttavia a imparare. L’esempio più noto di una machine learning è la vendita e l’acquisto automatizzato di azioni più o meno rischiose, di prodotti finanziari chiamati derivati. Procedimenti simili di reazioni «intelligenti» sono i suggerimenti per l’acquisto di una merce piuttosto che un’altra in base ai precedenti acquisti fatti on-line. Il sistema integrato con la capacità di apprendere risponde a quella logica «accelerazioni sta» fondata sulla premessa dei limiti del cervello umano nel rispondere velocemente a repentine variazioni dell’habitat sociale nel quale vive. Le machine learning sono quindi il sogno non di macchine intelligenti, bensì della possibilità di automatizzare, ottimizzandoli, processi decisionali. La tecno-struttura sulla quale si fonda considera tuttavia l’animale umano non una mera appendice delle macchine, bensì la presenza necessaria per gestire eventuali distorsioni distruttive del flusso dei dati e come decisore in ultima istanza quando il sistema si affaccia sull’orlo dell’abisso dell’implosione. Il cervello umano interviene cioè quando ci si trova nella condizione di un system error opportunamente segnalato. È dunque potenzialmente, per usare un lessico marxiano, anch’esso capitale fisso. Nelle machine learning è dunque in azione una logica sì accelerazionista, ma comunque evolutiva. Non c’è cancellazione del lavoro vivo, bensì una sua rimodulazione dove saperi tecnico-scientifici entrano in relazione con «conoscenze tacite» – gli usi e costumi di una data società, l’esperienza accumulata sui comportamenti umani – che solo gli umani possono rendere produttive. E questo vale sia per il lavoro vivo qualificato, che per quello ripetitivo, dequalificato. Le machine learning sono sì macchine preposte all’automazione del lavoro cognitivo umano, ma devono anche, in quanto simulazione dei processi decisionali, svolgere una funzione di governance del lavoro vivo contemporaneo.
D’altronde è stato sempre questo il doppio movimento attinente all’intelligenza artificiale: un’astrazione reale dell’attività mentale che ha l’andamento delle montagne russe: salite percorse lentamente, con la sensazione di tornare rovinosamente al punto di partenza, e poi la vertigine entusiasmante di scendere a precipizio verso il traguardo. È dagli anni Cinquanta del Novecento che l’andamento alterna grandi momenti di euforia a rallentamenti prossimi al blocco totale. All’annuncio della produzione di macchine pensanti seguiva la smentita data dalla realtà. Sta di fatto che l’intelligenza artificiale ha compiuto grandi passi in avanti, ma siamo ancora lontani dall’obiettivo di riprodurre l’intelligenza umana.
Certo i computer svolgono una quantità di calcoli a velocità sorprendente e possono gestire una mole di dati che un esercito di umani metterebbe decenni per elaborarli, mentre a un computer portatile serve una manciata di secondi per fare la stessa operazione. Ci sono anche computer che possono diagnosticare malattie e indicare terapie più accurate di tanti medici, ma l’intelligenza è cosa che ancora sfugge a quell’ammasso di circuiti e dispositivi digitali che si è soliti chiamare computer.
Nell’ambizioso saggio L’Algoritmo definitivo (Bollati Boringhieri) il fisico Pedro Domingos introduce la distinzione tra riproduzione dell’intelligenza a partire dalla riproduzione del funzionamento organico del cervello e simulazione dell’attività mentale. Siamo cioè alla famosa teoria di Alan Turing per definire o meno come intelligente una macchina. Se viene rivolta una domanda, quando Turing scriveva le poche pagine sulla macchina computazionale in forma scritta, e la risposta sembra venire da un uomo, bene ci troviamo di fronte alla manifestazione di intelligenza. La machine learning può essere considerata intelligente a partire dall’output che produce, non perché riproduce il funzionamento organico del cervello umano. Domingos manifesta implicitamente anche la finalità politica dei progetti in corso sulle machine learning. I computer, sostiene l’autore, continueranno a vedere crescere, più o meno vorticosamente, la loro capacità di calcolo. Ciò che manca è trovare il modo (un algoritmo) affinché le macchine conquistino l’abilità di apprendere da sole per produrre nuova conoscenza a partire dalla montagna di dati che sono stati e sono quotidianamente raccolti. La ricerca scientifica non si deve quindi concentrare sull’hardware, bensì sul software, cioè sugli algoritmi e programmi informatici perché le frontiere dell’automazione non riguardano più la riproduzione meccanicistica del cervello – ad esempio capire come funzionano le reti neuronali per poi riprodurle con una macchina – bensì simulare i processi cognitivi, tra i quali il più immediato è l’apprendimento.
Per quanto riguarda la società, significa che l’automazione del lavoro manuale è diventata un obiettivo marginale rispetto a quella dei processi cognitivi. Robot che possono essere precisi più di un umano ce ne sono, così come macchine che possono modificare il loro funzionamento rispetto ad alcuni imprevisti. Alcuni imprevisti, sia chiaro. Non li riescono a fronteggiare tutti, nel bene e nel male, come invece è capace l’animale umano. L’algoritmo definitivo di Pedro Domingos dovrebbe prendere decisioni ultime, vitali, strategiche in un ambiente tecno-sociale che vede crescere a dismisura il flusso di dati inerenti le attività produttive e finanziarie del capitalismo. Ma deve anche avere la capacità di modificare i suoi comportamenti se decisioni precedenti hanno avuto conseguenze che hanno messo in pericolo la stabilità del sistema. Un obiettivo che sintetizza proprio nell’espressione machine learning, la macchina che apprende per produrre nuova conoscenza: per la cura del cancro, produrre nuovi farmaci finalizzati alla terapia di malattie debilitanti, svolgere previsioni economiche, gestire processi gestionali complessi, governare il lavoro vivo. E’ dunque la complessità il mostro da domare. In altri termini, l’algoritmo definitivo ha l’umano sullo sfondo. Non la «nuda vita», bensì proprio le caratteristiche fondamentali della specie umana. I processi cognitivi, il linguaggio, le capacità di astrazione.
Un marxista eterodosso affermerebbe che l’algoritmo definitivo serve ad automatizzare l’attività cognitiva sans phrase. Di esempi ce ne sono a mucchi. Dei sistemi esperti per la diagnosi delle malattie molto si sa, dei programmi per fare operazioni in borsa è costellata la crisi del capitalismo contemporaneo, lo sviluppo – attraverso sofisticate elaborazioni delle informazioni – dei Big Data è materia dell’attualità giornalistica, con le declamazioni entusiaste sulle fortune di imprese – Amazon, Google, Facebook, solo per citare le più note – che fanno profitti proprio sulla gestione delle informazioni individuali, facendo carta straccia della privacy e della democrazia.
Pedro Domingos sostiene che la strada verso l’algoritmo definitivo sia lunga e piena di insidie, ma dice anche che ormai è stata presa e difficilmente si potrà interrompere il cammino, visto che il fine ultimo è la formalizzazione matematica dell’attività cognitiva. La posta in gioco, infatti, è la produzione di nuova conoscenza a ritmi più veloci di quelli che può esprimere il cervello umano, anche se diventa collettivo. Perché è nella conoscenza, resa forza produttiva, che l’economia prospera.
L’autore stabilisce nessi, analogie tra lo sviluppo della machine learning con la mappatura del genoma umano. Entrambi servono a svelare il mistero della natura umana, in una prospettiva deterministica e naturalistica, ma entrambi servono per trovare il passaggio per riprodurre l’attività cognitiva. È all’interno del paradigma dell’algoritmo definitivo che il lavoro manuale diventa un fattore marginale, un residuo rispetto alla produzione della ricchezza. Per Domingos è irrilevante il fatto che quel che rimane del lavoro manuale sia ripetitivo, alienante e poco remunerato. Né che gran parte del lavoro intellettuale (è una semplificazione, va da sé) sia sempre più standardizzato, omologato, mortificando creatività e innovazione. La posta in gioco è lo sviluppo di macchine che sanno imparare e che possono, di conseguenza, prendere decisioni più velocemente degli umani. Il lavoro sans phrase è dunque il limite ma anche la fonte della ricchezza nello sviluppo capitalistico. Per questo la conoscenza, la capacità analitica di intervenire in situazioni inedite vanno comunque formalizzate matematicamente, anche se questo non significa che l’arcano dell’intelligenza umana venga svelato. Quel che conta è riuscire ad espropriare alcune capacità cognitive, quelle attinenti l’apprendimento per l’appunto.
Ci sarà un tempo nel quale l’idea della proletarizzazione crescente, descritta da Marx, sarà sottratta a una visione economicistica, come è stato per gran parte del Novecento e ricondotta alla più realistica tendenza a trasformare ogni funzione umana in attività produttiva che risponda alle bronzee leggi del lavoro salariato, anche se formalmente i rapporti di lavoro non sono più quelli codificati durante il lungo Novecento.
L’aumento della disoccupazione, ormai strutturale, non riguarda più quindi solo il lavoro manuale, ma anche quello intellettuale. Dal 2008 in poi, chi è stato cacciato, perché in esubero, sono stati impiegati, programmatori di software, operatori finanziari. Per loro, come a suo tempo per gli operai, è contemplato l’angusto e feroce futuro di precarietà e impoverimento. Anche le recenti controriforme che coinvolgono le università di molti paesi europei servono a ridimensionare la «materia grigia» in circolazione. L’acculturazione, l’accesso alla formazione universitaria, ritenuto diritto universale, è una eccedenza di cui il capitalismo non ha bisogno. O meglio, va governata, cioè resa risorsa scarsa attraverso le barriere d’ingresso all’università, le norme internazionali sulla proprietà intellettuale, le riforme del mercato del lavoro.
Anche in questo caso è introdotta una forte gerarchia, una stratificazione del lavoro vivo (intellettuale, sempre per semplificare) funzionale alle necessità produttive. Da qui la costituzione di bacini di lavoro vivo, eterogenei sessualmente, razzialmente per qualificazione.
Sono anni dove le prospettive di stagnazione, crisi, declino del capitalismo occupano il palcoscenico della discussione pubblica. La leva da usare, ancora una volta, è un governo sempre più stringente del lavoro vivo. Anche in questo caso le montagne russe sono l’immagine che meglio si addice per rappresentare la difficoltà, da parte del pensiero dominante, di domare la bestia dello sviluppo capitalistico. Ogni volta che il Prodotto interno lordo cresce di qualche decimo di punto in percentuale; o quando veniva quantificata la crescita dell’occupazione in poche decine di migliaia di unità viene annunciata una luce in fondo al tunnel della crisi. La doccia fredda arriva ben presto e stagnazione, crisi, declino tornano ad essere la triste realtà dove vivere. Se siamo in presenza di una lunga e contraddittoria transizione a una società postcapitalistica, come talvolta scrivono economisti e giornalisti, è groviglio non facile da sbrogliare. Paul Mason nel suo noto Postcapitalismo (Il Saggiatore) sostiene che la sostituzione del lavoro umano da parte delle macchine è solo un elemento che caratterizza il capitalismo contemporaneo. L’altro elemento, e per l’inviato inglese ben più importante, è che la macchina digitale crei le condizioni di una economia della condivisione non basata sul regime del lavoro salariato. Un ottimismo, il suo, che serve poco a fare i conti con le condizioni di vita di una parte rilevante della popolazione, ma che si fa forte della convinzione che la sharing economy, così come un’automazione radicale, garantisca il ritorno di una crescita economica senza essere costretti a passare sotto le forche caudine della precarietà. E’ in questa lunga transizione che il reddito di cittadinanza diventa per Mason un mezzo idoneo per compensare la perdita di diritti sociali di cittadinanza, compressione dei salari e la violenza di una governance del mercato del lavoro che costringe uomini e donne ad accettare come naturale le condizioni di illibertà e di sfruttamento vigenti.
Se quella di Paul Mason può essere considerata una posizione che fa peccato di utopia, quella degli economisti mainstream rigorosamente liberisti può essere catalogata come un mantra tossico, visto che ripetono che basta che gli spiriti animali dell’innovazione tecnologica siano lasciati liberi di sciamare nella realtà.
E, questa la posizione di Alec Ross, consigliere per l’innovazione della seconda amministrazione Obama, il quale sostiene che un nuovo circolo virtuoso dell’innovazione è già in essere e che porterà una nuova era di prosperità, a patto però che le nuove industrie del futuro troveranno il contesto politico adeguato per svilupparsi liberamente (Il nostro futuro, Feltrinelli), così come è accaduto con Silicon Valley negli anni Ottanta e Novanta del Novecento. La speranza, in questo caso, è che a livello mondiale si imponga una nuova tecnologia che traini l’economia mondiale, tirandola fuori dalla stagnazione che la contraddistingue da oltre dieci anni.
Ma creare una nuova Silicon Valley non è una semplice operazione da laboratorio sociale, come anche lo stesso Ross riconosce.
Ci sono infatti voluti oltre quarant’anni affinché quella striscia di terra passasse da regione agricola a centro nevralgico della tecnologia digitale. Di mezzo, la grande crisi del ‘29, il New Deal, una guerra, la presenza di una prestigiosa università (Stanford), la vicinanza di San Diego, scelta dalla marina statunitense per produrre navi da guerra, sottomarini nucleari dagli anni Sessanta; e di altre due grandi metropoli: San Francisco, da sempre simbolo di un vivere metropolitano anticonformista; e Los Angeles, cioè Hollywood, che oltre che capitale del cinema è da sempre il contesto produttivo dove applicare nuove tecnologie che venivano «inventate» altrove. Pensare che basti investire miliardi di euro e tutto germogli come in un prato ben curato significa considerare, come fanno appunto i neoliberisti light come Ross, i rapporti sociali come una «esternalità» dell’attività economica e non il suo indispensabile habitat.
Questa attesa messianica di una nuova ripresa economica si nutre di un senso comune che sfugge a ogni verifica della realtà. È come accaduto con la «scoperta» che la terra non era piatta e che non girava attorno al sole: per secoli, dopo Galileo Galilei, milioni di uomini e donne hanno continuato a credere che il pianeta fosse piatto. Il neoliberismo si nutre cioè di superstizioni e un senso comune che sfugge a ogni verifica della realtà e in una attesa messianica di miracolo che salvi un modello di sviluppo tuttavia giunto al capolinea.
Della necessità di cambiare rotta ne sono invece convinti anche studiosi ed economisti non sospettabili, i quali da anni segnalano la necessità di un ritorno a politiche sociali altrimenti il capitalismo è destinato a una fine ingloriosa. È quanto emerge da una intervista della economista di origine italiana Mariana Mazzucato curatrice con Michael Jacobs del volume collettivo Rethinking Capitalism: Economics and Policy for Substainable and Inclusive Growth (Wiley Blackwell).
Il volume, oltre ai saggi dei due curatori vede i contributi del premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz, di Andrew G. Haldane, direttore del centro ricerche e statistiche della Banca di Inghilterra, di William Lazonicks (considerato uno dei massimi studiosi di matrice schumpeteriana), di Colin Crouch, sociologo economico noto per i suoi studi sul regime postdemocratico sviluppato dal neoliberismo, e molti altri. Autori certo non sospetti di anticapitalismo militante, ma che da alcuni anni denunciano come la crescita delle disuguaglianze sociali, il potere assoluto della finanza e l’inquinamento ambientale bloccano lo sviluppo economico, ma stanno inoltre mettendo in pericolo lo stesso capitalismo. Il decalogo proposto per fermare questa corsa verso il baratro ha come baricentro l’investimento degli stati nazionali nella ricerca scientifica e nella formazione e una indispensabile estensione dei diritti sociali di cittadinanza.
Sono anni che Mariana Mazzucato propone questo punto di vista, producendo una critica corrosiva verso la retorica neoliberista che considera la ricerca scientifica come un settore. Nel suo libro più noto, Lo Stato investitore (Laterza), ha inoltre ricordato che senza gli investimenti statali nella ricerca non avremmo il personal computer, Internet, l’iPhone, l’iPad e gli smartphone. Ha ribadito questa tesi in contesti dove il neoliberismo è di casa – Stati Uniti, Inghilterra, Unione europea – ma anche di fronte a platee «progressiste» come il Labour party inglese o il partito dei lavoratori brasiliano.
L’investimento nella formazione e nella ricerca è però un investimento a lungo termine, per accumulo e successiva diffusione della conoscenza tecnico-scientifica. L’innovazione, infatti, è la combinazione inedita e tuttavia finale di conoscenze date. Allo Stato, questa la tesi della Mazzucato, il compito di creare le condizioni di creare e diffondere nuove conoscenze – magari attraverso una politica di limitazione del regime della proprietà intellettuale -, favorire la formazione di forza-lavoro qualificata, lasciando tuttavia mano libera alle imprese di perseguire i propri obiettivi.
C’è però da dire che di innovazione non c’è ne è molta all’orizzonte. Quella che viene presentata come tale è il miglioramento di tecnologie esistenti. Siamo cioè di fronte a innovazioni incrementali per uso o per apprendimento. Anche nella tanto sbandierata «Internet delle cose» o nella radicale automazione del lavoro manuale o di alcune operazioni cognitive il cuore è costituito dalla tecnologia digitale.
Nel saggio di Alec Ross tutto questo viene relegato sullo sfondo. Con uno stile apodittico in difesa del libero mercato, Ross afferma infatti che la «rivoluzione del silicio» ha ancora molta spinta propulsiva da esprimere.
Le imprese del futuro riguardano la moneta elettronica, con buona pace degli attivisti libertari che la vedono come uno strumento per affrancarsi dal potere dello stato e del capitale. I Bitcoin nelle loro diverse versioni hanno smesso di essere una realtà di nicchia per fare ingresso nel grande business della Rete: possono servire a garantire sicurezza nelle transazioni economiche e possono essere usate per rendere governabile il flusso di capitali generato dalla finanza. Sono cioè uno strumento «indigeno» di stabilizzazione del capitale finanziario senza che lo stato nazionale intervenga nel governo della moneta o che qualche organismo internazionale definisca regole agli operatori economici. La sicurezza è inoltre parola chiave per decodificare la traiettoria che prenderà l’innovazione. Ross allude frequentemente alla cybersicurezza come nuova miniera d’oro per le imprese. Nel capitalismo digitale, infatti, il flusso di informazione e di capitali deve essere continuo, evitando che qualche cracker si appropri di «dati sensibili». Serve anche a garantire la privacy, che diviene anch’essa una merce da vendere dietro compensi. Il tutto all’interno di una nuova divisione internazionale del lavoro che vede le imprese statunitensi, israeliane e inglesi fare la parte del leone nel coordinare la cybersicurezza a livello globale, mentre i lavori sempre più standard nell’elaborazione dei dati possono essere delegate a software house e imprese dei paesi cosiddetti emergenti.
Con una fede cieca nel progresso, Ross è convinto dunque di vedere nello sviluppo dei Big data l’«evento» che farà ripartire l’economia mondiale. Allo stato nazionale – qui si riferisce ovviamente agli Stati Uniti – il compito di armonizzare l’appropriazione da parte delle imprese di dati individuali, garantendo però la salvaguardia di alcuni diritti individuali.
Oltre ai Big data, il futuro all’insegna dell’abbondanza sarà garantito anche dalle biotecnologie. Dopo la mappatura del Dna, occorre imparare a manipolarlo per curare malattie più o meno gravi. Basta avere fede nella scienza e non mettere ostacoli in base a superstizioni e una visione regressiva dell’etica.
In una fideistica fiducia nel progresso, Ross è inoltre convinto che malattie debilitanti come l’Alzheimer, il cancro e molte altre potranno prima o poi essere curate. Da qui l’invito a investire nella ricerca, ma soprattutto l’invito a trasformare i suoi esisti in prodotti da commercializzare. L’industria chimica e farmaceutica potranno così prosperare, mentre la ricerca scientifica in senso stretto può diventare attività produttiva, grazie all’apporto di venture capitalist e all’intraprendenza imprenditoriale di ricercatori e scienziati.
Un problema tuttavia emerge. Farmaci, analisi del Dna costano molto sul mercato: per una realtà sociale globale segnata da forti diseguaglianze sociali c’è il rischio – già adesso realtà – che sarà un settore destinato a quell’uno per cento della popolazione globale che si appropria del 75 per cento della ricchezza prodotta. Le biotecnologie possono dunque diventare una industria pensata e sviluppata per i ricchi. Al resto dell’umanità farmaci generici e sanità di bassa qualità. Così quello che viene spacciato come il nuovo eden del capitalismo riproduce i rapporti sociali di produzione dominanti, cioè quella «esternalità» dove il neoliberismo ha attinto per appropriarsi dell’innovazione prodotta socialmente o che ha voluto trasformare in settore produttivo – la cura del sé, la produzione di conoscenza – mentre il flusso di capitale finanziario prova a plasmare la realtà all’insegna dell’individuo proprietario.
Anche se il saggio di Ross è utile per capire lo stato dell’arte nella trasformazione della produzione di conoscenza in settore produttivo, è altrettanto povero di indicazioni su come il compimento della rivoluzione del silicio possa determinare l’uscita dalla crisi. In primo luogo, la nuova rivoluzione della macchine si basa su miglioramenti della tecnologia esistente senza aumentare l’occupazione. Inoltre, rimuove il ruolo della finanza e della crisi nel ridisegnare la geografia dell’economia mondiale. Un processo autoritario e violento: sul piano nazionale con le politiche di austerità; con la guerra a livello internazionale, tornata così ad essere la continuazione delle politiche di potenza con altri mezzi.
Finanza, automazione del lavoro intellettuale e cognitivo sono dunque componenti di un sistema jobless growth: un sistema cioè dove si è interrotto il circolo virtuoso che vedeva il travaso di occupati da un settore in declino ad un altro settore emergente. La disoccupazione è certo strutturale e di massa, sebbene la diffusione di rapporti precari di lavoro creino una paradossale e inedita “piena occupazione precaria” con salari in costante diminuzione. Se non fosse irriverente si può dire che siamo in presenza di un esercito industriale di riserva dove la figura egemone è l’«intermittente». Più che discettare sulla stagnazione, va quindi messa all’ordine del giorno l’incapacità del capitalismo di essere un progetto di società percorribile. Non siamo cioè alla sua fine, ma al fallimento del suo progetto di società. E quel che appariva un affresco «arcaico» di relazioni sociali – pochi ricchi, tanti poveri – rivela, in assenza di una critica politica puntuale dell’economia politica contemporanea, una facile capacità di rappresentare tale fallimento. La sostituzione del lavoro umano con le macchine ha oltrepassato ormai irreversibilmente le mura delle fabbriche e ha investito anche i white collars e, come cripticamente sono chiamati, gli analisti simbolici, cioè coloro che manipolano contenuti, dati, informazioni, sapere, conoscenza sans phrase.
Nello stesso periodo nel quale venivano annunciati i prototipi di automobili automatizzate o di siti che sfornano report e articoli, si sono quindi moltiplicati articoli, saggi, ricerche sul rischio di un aumento esponenziale della disoccupazione tanto nel Nord che nel Sud del pianeta: una prospettiva che atterrisce anche le teste di uovo che si riuniscono a Davos ogni anno per parlare dello stato dell’arte del capitalismo.
La disoccupazione provocata dall’automazione del lavoro cognitivo – espressione anch’essa da usare con cautela, ma che ha il pregio di sintetizzare le tendenze in atto – alimenta infatti il timore sulla tenuta del capitalismo e della democrazia come dispositivo politico adeguato all’economia di mercato. Nell’ultima riunione a Davos ha fatto molto discutere la presentazione di alcune previsioni del mercato del lavoro negli Stati Uniti o di analisi dell’International Labour Organization che segnalano che nei prossimi decenni gran parte del lavoro negli uffici sarà automatizzato, provocando la perdita di centinaia milioni di posti di lavoro su scala globale. L’analisi sul report The future of Jobs, del direttore del forum di Davos, Kaus Schwab sembra una riedizione delle fosche previsioni sulla fine del lavoro manuale che tanto appassionò studiosi come Jeremy Rifkin agli inizi degli anni Novanta. Soltanto che allora lo studioso americano indicava nella crescita del terziario un fattore di riassorbimento della disoccupazione operaia, anche se all’insegna della diffusione di imprese no profit. In questa quarta rivoluzione industriale, così definita da Schwab, l’automazione del lavoro manuale avrà una accelerata esponenziale, riducendo la percentuale di classe operaia industriale a una quota residuale tendente allo zero della forza-lavoro globale, mentre la maggioranza di nuovi disoccupati riguarderà il lavoro d’ufficio. Come ogni analisi fondata su proiezioni nel futuro di tendenze legate alla contingenza, le approssimazioni e la semplificazione sono portate all’acme.
E’ indubbio che l’innovazione tecnologica legata al silicio provoca disoccupazione strutturale, ma più che di una «società post-lavorista» siamo in presenza di trasformazioni profonde nei rapporti sociali di produzione. Più che di fine del lavoro, è infatti preferibile parlare di una generalizzazione del rapporto di lavoro fondato sulla precarietà. Klaus Schwab annota puntigliosamente che la crescita economica di alcuni paesi come la Cina, l’India, il Brasile, per non citare quelle che in altri decenni sono state chiamate le tigri asiatiche, ha visto la crescita di una classe operaia numerosa, ma l’economista sottolinea il fatto che sono dati legati a una contingenza destinata a essere annullata dalla diffusione di sistemi automatizzati nella produzione di merci. Così la classe operaia su scala globale può crescere nel breve periodo, ma è destinata ad essere residuale nei tempi lunghi dello sviluppo capitalistico.
Secondo la teoria economica tutto ciò ha una spiegazione. Lasciandosi alle spalle una concezione lineare dello sviluppo capitalistico è infatti destinata ad alimentare la sequela di opinioni disordinate, e mai messe a verifica, la tesi secondo la quale un paese emergente segua le orme già calcate da altri paesi. C’è quindi da supporre che la world factory cinese abbia si visto una industrializzazione che ricorda quella dei paesi occidentali, ma è altrettanto evidente l’intenzione dei dirigenti politici di questa strana forma di capitalismo gestito dallo Stato di inoltrarsi su strade che li conducano il più rapidamente possibile sul sentiero della «società della conoscenza». Nessuna però lunga marcia, ma un veloce percorso che consenta alla Cina di dotarsi di un sistema integrato digitale che oltre le fabbriche venga introdotto anche in quei lavori appunto cognitivi.
Nel rapporto citato, ma ce ne sono altri provenienti dagli Stati Uniti, emerge con forza che l’automazione cancella posti di lavoro proprio negli uffici. Finora ad essere colpiti sono i lavori di front office, cioè di quelle mansioni che hanno a che fare con il rapporto con il pubblico. Senza inoltrarsi nella ragnatela dei dati statistici, tutte le attività più ripetitive hanno conosciuto processi di automazione. Le attività delle banche, ad esempio, si concentrano sempre più nel back stage (operazioni e promozioni finanziarie, concessioni di credito alle imprese o ai singoli), mentre gestione dei conti, operazioni di trasferimento di denaro sono delegate agli stessi clienti. Lo stesso si può dire per molte operazioni relative alla pubblica amministrazione, che dopo un periodo di outsourcing a imprese private, sono state standardizzate e devono essere compiute ormai on line. Per gli appassionati del regista britannico Ken Loach il discorso è fin troppo chiaro. Per chi non ha visto il suo illuminante film Io, Daniel Blake, basta citare l’episodio della compilazione da parte del protagonista degli infiniti e kafkiani moduli per il sussidio di disoccupazione o per l’indennità di malattia. È Daniel Blake che deve farlo: agli impiegati del service spetta il compito di sorvegliare e punire chi non rispetta le regole. È questa «delega» ai consumatori, agli utenti di svolgere alcune attività di competenza dei white collars il corollario necessario dell’automazione che ha riguardato il settore dei servizi. Nel saggio Cyber-Proleriat (Pluto press) lo studioso canadese Nick Dyer Witheford descrive il vortice che caratterizza l’economia contemporanea. Partendo da una tripartizione dell’economia in produzione, distribuzione e circolazione delle merci, Witheford assegna alla finanza un ruolo di supplenza ai mancati profitti, ma anche di attivazione di un vero e proprio vortice che in un andamento a spirale interrompa la ricorrenti fasi di stagnazione economica. Ma l’aspetto più interessante della sua analisi sta nell’individuare nelle macchine informatiche lo strumento per comprimere il tempo tra produzione e vendita di una merce alla luce di una dilatazione
spaziale, geografica della produzione. Ma c’è compressione temporale anche in quelle attività di intermediazione e commercializzazione della merce. Il vortice evocato da Whiteford è alimentato con l’automazione del lavoro nei servizi. I sistemi informatici sono infatti funzionali a ridurre il tempo che intercorre dalla produzione alla vendita della merce, intensificando la produttività (cioè lo sfruttamento del lavoro vivo) e ridefinendo tutte le mansioni che riguardano la postproduzione. Il total quality management, il just in time sono solo due delle metodiche che riguardano la produzione industriale. Per quanto riguarda i servizi, invece, l’automazione investe tutte le attività intermedie, appunto di front office. Interi settori sono stati investiti da livelli di automazione e di «attivazione» dell’utente finale nello svolgere alcune operazioni attraverso sistemi informatici integrati. Pagare una bolletta, gestire il proprio conto bancario sono ormai operazioni in gran parte delegate agli utenti finali. Ma lo stesso sta avvenendo in quello che viene chiamato il platform capitalism. Amazon, Airbnb sono i casi più studiati di come l’automazione riguardi ormai anche i white collar, così come le applicazioni attivabili con uno smartphone si basino sull’assenza di impiegati. La proliferazioni di app si colloca certo in una situazione dove la Rete è diventata una seconda natura, visto che gran parte delle attività umane è svolta attraverso di essa. Ma le piattaforme digitali coinvolgono quasi sempre imprese che operano a livello globale: il vortice descritto da Whiteford per rappresentare il capitalismo contemporaneo ha nella costituzione e governo di bacini di forza-lavoro una delle condizioni necessarie affinché non risulti distruttivo per il suo sviluppo. Sono bacini che riguardano figure lavorative diversificate per competenze, appartenenza di genere, razziale. Ci sono i professional, ma anche la moltitudine di lavoretti della cosiddetta Gig-economy.
L’automazione del lavoro cognitivo ha dunque riguardato prevalentemente mansioni a basso contenuto di specializzazione. A spaventare i sonni dei partecipanti al forum di Davos è però l’impoverimento del ceto medio, cioè quel settore sociale – uno strato sociale sempre collocato nel divenire classe – che ha garantito stabilità sociale. La tematica del ceto medio impoverito trova qui la sua conferma.
Jaron Lanier, funambolico progettista di realtà virtuale e ormai ascoltato guru della network culture, sostiene che il capitalismo sta creando le condizioni della sua deflagrazione (La dignità ai tempi di Internet, Il Saggiatore). Per questo ritiene opportuno un reddito di cittadinanza, in quanto strumento politico per fronteggiare una crisi di sistema. Novello compagno di strada dei movimenti sociali, Lanier usa toni apocalittici, da fine di una civiltà per invitare a rallentare i processi di automazione. Cita la crescita dei working poor per illustrare l’eutanasia del ceto medio, pilastro finora irrinunciabile del capitalismo made in Usa. Al di là della capacità persuasiva o meno delle sue tesi, l’aspetto più rilevante che emerge nel suo grido di allarme per le sorti del capitalismo è la convinzione che gli spiriti animali del mercato vanno domati e tenuti sotto stretta sorveglianza.
Gli Stati Uniti, ma quel che dice Lanier vale sotto molti aspetti anche per l’Europa, sono ormai un paese di lavoretti, di magri salari e di povertà diffusa. La sua sembra più una ritirata di fronte a una economia politica della povertà ormai diventata il mantra di ogni intervento politico. Può essere chiamata Gig economy, oppure società postlavorista, ma è un dato di fatto che la piena occupazione ha la forma di un Behemoth che tutto avvolge in un clima di rancore, risentimento e rabbia. Eppure questa è una lettura parziale. Come evidenziato per le machine learning, il sistema di macchine ha il duplice ruolo di gestire il processo lavorativo, ma anche di governare i bacini di forza-lavoro.
In tempi recenti, oltre alla sbandierata sharing economy, anticamera di una auspicata società postcapitalista, è molto usata l’espressione di capitalismo delle piattaforme. Si tratta di tutte quelle attività produttive che si svolgono in Rete. Amazon, Google, Airbnb, Facebook ne sono i marchi più noti. Finora si tratta di attività economiche basate sullo scambio di gratuità dell’accesso e di alcuni software per stare in Rete e cessione dei propri dati personali. Come è stato evidenziato recentemente da Ned Rossiter in Software, Infrastructure, Labor. A media Theory of logistical nightmare (Routledge) e Giorgio Grappi nel saggio Logistica (Ediesse) anche la logistica va inserita a pieno titolo nel capitalismo delle piattaforme, anche se presenta un business model diverso e alla lunga vincente, secondo Evgenj Morozov, rispetto a quelli di Google o Amazon. Sta di fatto che in entrambi i casi assistiamo alla formazione e alla governance di bacini di lavoro vivo a livello globale. Bacini dove proliferano forme contrattuali (un singolo può passare senza soluzione di continuità dallo statuto di lavoratore indipendente, free lance, a lavoratore dipendente, a tempo determinato) e dove convivono alta specializzazione e dequalificazione, benefit e copertura sanitaria a privatizzazione del welfare state. È questo l’esito dell’automazione del lavoro sans phrase. La scomposizione delle classi sociali, più che alludere alla società dei liberi e eguali, svela la difficoltà di immaginare un Politico adeguato a questa situazione. Ciò che il pensiero critico è riuscito a mettere a fuoco è il reddito di cittadinanza. Nell’era del dominio del lavoro salariato, che rende il lavoro risorsa scarsa per continuare a riprodurre i rapporti sociali dominanti, può aiutare ad agglutinare, mettere in relazione figure lavorative eterogenee. Ma guai a pensarlo come un intervento di ingegneria sociale e politica. Deve essere un significante pieno di contenuti, di forme di vita, di relazioni sociali, esprimendo la ricchezza della cooperazione produttiva. Deve cioè essere parola d’ordine politica che i bacini del lavoro vivo facciano vivere nel rifiuto del regime del lavoro salariato. Solo così si potrà parlare di società postcapitalista. O meglio di quel regno della libertà che volge definitivamente le spalle al lungo inverno del regno della necessità.
Tratto da Quaderni per il Reddito n°7 – Marzo 2017
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