Premessa
1) Che in materia di welfare fosse arrivata l’ora di cambiare registro era esigenza avvertita da tempo, da tutti o quasi. Il modello di sviluppo sul quale, nel corso di tutto il secolo scorso, avevamo innestato il nostro welfare (schiacciato su pensioni e sanità) appariva oramai arrivato al capolinea e l’esistenza di cinque milioni di persone sotto la soglia di povertà stava lì a dimostrarlo alle forze politiche di qualsiasi colore.
Il Governo di centrosinistra aveva risposto a questa indeclinabile necessità sociale con il Rei (il Reddito di inclusione di cui al d.lgs 15 settembre 2017, n. 147). Il Governo 5Stelle-Lega con il RDC (il Reddito di cittadinanza introdotto con il dl del 28 gennaio 2019, n. 4 conv. con modificazioni dalla legge del 28 marzo 2019, n. 26). Si tratta, in entrambi i casi, di modelli molto lontani dall’idea del “reddito di cittadinanza” strictu sensu che è invece una misura universalistica ed indirizzata a garantire il cd. ius existentiae: perciò non una misura contro la povertà ma una misura individuale, erogabile a tutti, a prescindere dalla prova dei mezzi. Pur avendo ampliato di molto l’entità delle somme impiegate e la platea dei potenziali fruitori il Reddito di cittadinanza (RDC), di cui alla legge n. 26 del 2019, appare ispirato a quello che con un ossimoro si potrebbe definire l’universalismo selettivoche mira ad un equilibrio tra esigenze contrapposte: tutelare per tempi adeguati i più poveri e stimolarne le responsabilità.
Lo strumento delineato appare perciò fortemente condizionato:
a) dal punto di vista dei soggetti protetti, da cui ha escluso i più poveri tra i poveri (rappresentati dagli immigrati, i senza fissa dimora ed i poveri senza tetto, le famiglie più numerose);
b) dal punto di vista del reddito di partenza e del quantum, erogato solo per un certo importo differenziale;
c) dal punto di vista della titolarità della prestazione (essenzialmente in capo al nucleo familiare);
d) dal punto di vista della soggezione ad obblighi di fare di ampia latitudine.
2) Il tema delle sanzioni (penali ed amministrative) che qui si esamina occupa un ruolo strategico nella regolamentazione del RDC, sia riguardo alla genesi sia riguardo al mantenimento del beneficio erogato; nonostante il clamore mediatico sulla normativa ad oggi non è stata dedicata la dovuta attenzione a questa parte della disciplina (apprestata negli artt. 7, 7-bis e 7-ter) attraverso cui il legislatore ha inteso assicurare il raggiungimento delle complesse ed articolate funzioni assegnate al RDC (delineate nell’art. 1), con l’intreccio delle due anime individuabili nella sua regolamentazione: l’anima assistenziale (del soccorso contro la povertà) e quella lavoristica (del workfare o politiche attive del lavoro).
D’altra parte la disciplina sanzionatoria del lavoro e della previdenza ed assistenza sociale − pur volta ad assicurare le indeclinabili esigenze di effettività presenti nella materia − registra da sempre un sostanziale disinteresse da parte della dottrina giuslavorista, scontando, per di più, a livello della competenza processuale, un rifiuto ostinato da parte del suo stesso giudice naturale.
I giudici del lavoro, infatti, declinano di prenderne cognizione (già a livello tabellare in quasi tutti i tribunali di primo grado), nonostante che sul piano sostanziale tale disciplina riguardi certamente le materie del lavoro, della previdenza ed assistenza (di cui agli artt. 409 e 442 cpc), e che, dopo il d.lgs 1 settembre 2011 n. 150, i relativi atti d’irrogazione vengano impugnati in giudizio attraverso il rito del lavoro e non più col rito della legge n. 689 del 1981; rifiuto da ritenersi ingiustificato a lume dell’ordinamento, in quanto la sostanza di lavoro-previdenza-assistenza azionata col rito speciale del lavoro richiederebbe la conoscenza altrettanto specializzata dei giudici del lavoro, come dimostra il fatto che nei gradi di impugnazione le relative cause vengano trattate dalle sezioni specializzate del lavoro almeno in diverse le Corti d’appello; come pure accade sempre in Corte di cassazione.
Per quanto concerne la materia sanzionatoria delineata dalla legge n. 26 del 2019 occorrerà quindi verificare come verranno devolute le relative cause e se i giudici del lavoro porranno fine a questa situazione di disimpegno; anche in considerazione del fatto che la stessa materia sanzionatoria è intrecciata al recupero delle somme erogate (materia l’una e l’altra di competenza Inps).
3) Va anche premesso che la corretta gestione dei sistemi universalistici di assistenza – in quanto fondati su meccanismi redistributivi e sulla solidarietà generale − è generalmente affidata ad interventi di controllo e di sostegno appoggiati su istituzioni pubbliche autorevoli e sostenuti da un’etica pubblica condivisa e praticata.
Questa esigenza è particolarmente avvertita nel contesto italiano dove i controlli pubblici e sociali sono da sempre carenti ed ineffettivi, mentre è debole lo spirito civico essenziale per sostenerli. Era necessario perciò che la legge su RDC delineasse chiaramente a monte la correlazione operativa tra tutele del reddito e politiche di attivazione e predisponesse a valle stringenti previsioni sulla condizionalità dei benefici ossia sui motivi di decadenza dal beneficio e sul sistema di controllo e sanzionatorio.
La legge n. 26 del 2019 − a presidio della vastità ed invasività dei requisiti, degli obblighi e dei controlli istituiti con la legge − si affida, invece, ad un sistema di sanzioni articolato in conseguenze di natura penale, amministrativa, civilistica e disciplinare, con le quali si punisce sia la mancanza delle condizioni di accesso e di mantenimento del beneficio economico, anche sotto il profilo della misura percepita, sia la mancata adesione agli strumenti di partecipazione attiva dettati dalla legge per il funzionamento del sistema di accesso al lavoro o di inclusione sociale.
4) Si tratta di previsioni che riflettono la funzione assegnata al RDC per come è andata delineandosi nel passaggio dalla fase elettorale e della proposta alla sua definitiva approvazione. Pensato in origine dai 5Stelle come un beneficio alternativo all’impiego (in un’epoca in cui lavorare è sempre più difficile a causa della rivoluzione tecnologica), il reddito è stato trasformato in una misura che deve aiutare il disoccupato a sostenersi mentre non ha un lavoro ed a trovarne velocemente un altro (ovviamente ammesso che il lavoro ci sia e che qualcuno lo crei).
Da qui l’insistenza sulla condizionalità, sulle cd. norme “anti-divano”, l’enfasi sul patto per l’impiego e sui navigator. Da qui soprattutto la severità delle sanzioni irrogate dalla legge; “simpaticamente” definite da qualcuno “anti-furbetti” senza la dovuta considerazione che merita invece la gravità dei problemi sociali sottesi al mondo della povertà (di cui la stessa legge sottolinea la multidimensionalità) e allo stesso mondo del lavoro.
1. Gli illeciti penali
1.1 Il reato di falso inteso all’ottenimento del RDC
L’art. 7, commi 1 e 2, introducono allo scopo due nuovi delitti, che si possono intitolare: il primo come il reato di falso inteso all’ottenimento del RDC; ed il secondo come reato di falso inteso al mantenimento del RDC.
Il primo reato, commesso da chi «al fine di ottenere indebitamente il beneficio» rende o utilizza dichiarazioni o documenti mendaci, anche omettendo informazioni dovute, è punito con la reclusione da due a sei anni.
Viene delineata una fattispecie amplissima, che sembra comprendere ogni sorta di falsità e di omissione relativa ai requisiti per l’accesso al RDC, e che dovrà essere riportata dentro limiti di concreta offensività recuperando la giurisprudenza in materia di falsità innocua e grossolana.
Si tratta di un delitto la cui soglia di consumazione è anticipata alla mera condotta, che si realizza con l’utilizzazione di dichiarazioni o documenti mendaci, anche omissive. Non si richiede l’erogazione della misura che invece rileva dal punto del dolo specifico ossia della direzione dell’elemento soggettivo (al fine di).
Viene comminata senza dubbio una pena assai elevata, utilizzata dal legislatore a scopo deterrente al fine di dissuadere dalla commissione di condotte frodatorie (di lavoro nero e di evasione fiscale) che potrebbero comportare l’accesso alla misura da parte di soggetti che non ne hanno diritto.
L’eccesso punitivo espresso nella misura della sanzione pone però evidenti problemi di costituzionalità. Anche a voler tralasciare qualsiasi confronto, in considerazione della loro natura contravvenzionale, con la lievità delle sanzioni comminate ai datori di lavoro (per lo più pecuniarie e al limite alternative, nonché facilmente oblazionabili), poste a protezione della tutela della salute dei lavoratori dal TU n. 81 del 2008, occorre rilevare come per il gravissimo delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro previsto dall’articolo 603-bis cp, a fronte di una pena detentiva massima di sei anni di reclusione, sia prevista sempre riguardo al datore di lavoro una pena edittale minima di un anno e dunque della metà rispetto al reato considerato.
E sempre più lieve da quella in oggetto è la pena comminata dall’art. 2621 cc per il reato di falso in bilancio (da 1 a 5 anni di reclusione) per amministratori e/o dirigenti della società che espongono in bilancio dati non reali allo scopo di creare un vantaggio per sé o altri.
Procedendo poi ad un confronto più omogeneo anche sul piano soggettivo, si può notare come per il reato di falso commesso dal privato (falsità in scrittura privata commessa al fine di procurare a sé o ad altri un vantaggio ingiusto) l’art. 485 cp commini la pena da a sei mesi a tre anni (quale che sia il fine per cui viene commesso).
Ed anche qui il confronto è impari, posto che per il reato di falso in oggetto la pena risulta quadruplicata nel minimo e raddoppiata nel massimo.
Le considerazioni svolte, e soprattutto la differenza di pena tra il minimo edittale previsto per la fattispecie ordinaria di falso e per quella in questione, potrebbero portare ad individuare uno iato sanzionatorio in contrasto con i principi di eguaglianza, proporzionalità e ragionevolezza (art. 3 Cost.), e con il principio di rieducazione della pena (art. 27 Cost.), in applicazione della recente giurisprudenza costituzionale sul sindacato della pena (da ultimo Corte cost., sent. n. 40 del 23 gennaio 2019) che ha dimostrato di prendere sul serio il principio della proporzionalità della pena quale limite alla discrezionalità delle scelte legislative, dando corso ad un orientamento che consente di ridefinire i limiti edittali pur in assenza di un’opzione costituzionalmente obbligata.
È difficile poter considerare proporzionata o ragionevole una pena di tali dimensioni anche nel minimo, comminata a chi abbia omesso di rendere una dichiarazione senza nulla ottenere dal punto di vista patrimoniale. L’entità della pena appare infatti svincolata dalla reale entità del fatto e si giustifica come pena esemplare ed espressione di un rigorismo sanzionatorio sproporzionato e teso ad ottenere consenso.
Mentre non si può pretendere che un sistema sanzionatorio di carattere esclusivamente afflittivo e repressivo risolva i molti problemi di effettività di cui risenta la materia del lavoro e della assistenza sociale diritto del lavoro, a dispetto delle politiche di emersione perseguite negli ultimi anni il legislatore qui ha usato la clava penale.
La minaccia di una pena esemplare può essere però un’ulteriore spinta per aumentare il lavoro nero in atto; perché sia i lavoratori sommersi che i loro datori sono interessati a nascondere il rapporto di lavoro irregolare, ed i lavoratori che percepiscono il reddito di cittadinanza non hanno alcun interesse ad emergere.
È difficile pensare che si riuscirà a stanare e punire il vero lavoro nero. E non sono certo credibili le minacce di punizioni esemplari per i “furbetti” proferite dai due vicepresidenti del Consiglio. Siamo piuttosto al governo penale dei poveri; si arriva a minacciare una sanzione fino a sei anni di reclusione salvo aggravanti per una prestazione non dovuta che mediamente arriva secondo le stime dell’Inps a € 4000 all’anno; e fino a tre anni, salvo aggravanti, per un ritardo nella comunicazione di una variazione reddituale che può comportare un indebito anche soltanto di € 40.
1.2 Il reato di falso per mantenere il RDC
Al secondo comma, l’art. 7 punisce l’omessa comunicazione delle variazioni del reddito o del patrimonio, anche se provenienti da attività irregolari, nonché di altre informazioni dovute e rilevanti, ai fini della revoca o della riduzione del beneficio entro i termini di cui all’articolo 3, commi 8, ultimo periodo, 9 e 11. In questo caso la condotta è punita con la reclusione da uno a tre anni.
Questo reato meno grave presuppone il godimento e la legittima concessione del beneficio – anche in ordine alla misura − in base a documenti e requisiti regolari. E punisce soltanto le omissioni di informazioni in corso di godimento e che incidono quindi sulle condizioni di mantenimento del beneficio; anche soltanto in relazione al quantum.
La falsità commessa in corso di godimento del RDC è ritenuta quindi meno grave dal legislatore fino al punto di dimezzare la pena.
A leggere bene la norma penale del secondo comma dell’art. 7, emerge che essa punisce con lo stesso trattamento due illeciti (l’omessa comunicazione delle variazioni del reddito o del patrimonio) che riguardano tipi di condotte diverse:
a) l’omessa comunicazione da parte del lavoratore di un’attività di lavoro regolare anche quando già denunciata dal datore di lavoro all’Inps;
b) l’omessa comunicazione di un’attività di lavoro irregolare sempre da parte del lavoratore. In relazione alla prima condotta, va rilevato come l’articolo 3 comma 8 della stessa legge abbia introdotto l’obbligo del lavoratore di denunciare all’Inps la propria attività di lavoro «in ogni caso». Comunque dice la norma, anche se già denunciata dal datore, quindi il lavoratore subordinato regolare ha oggi un obbligo in più, penalmente sanzionato, dovendo comunicare la propria assunzione all’Inps; e l’omessa comunicazione costituisce un reato penale punito fino a tre anni di reclusione quando percepisce il reddito di cittadinanza (anche come componente del nucleo familiare).
Ma la norma, come si diceva, prevede lo stesso obbligo anche a carico di chi lavora in nero, dal momento che introduce l’obbligo di comunicare all’Inps le proprie variazioni del reddito o del patrimonio «anche se provenienti da attività irregolari».
Si tratta dell’obbligo di autodenuncia del lavoro in nero penalmente sanzionato.
Qui la norma sembra piuttosto velleitaria: dal momento che se il lavoratore adempie all’obbligo di autodenuncia della propria attività di lavoro (in nero o in chiaro) evita sì di incorrere nella pena da uno a tre anni e però sicuramente incorre nella perdita o nella riduzione del RDC, ed ovviamente anche nelle correlate contestazioni di natura fiscale e contributiva.
Anche questo assetto normativo pone problemi di ragionevolezza ex artt. 3 e 27 Cost.; non si comprende infatti come si possa punire con la stessa pena chi nasconda lo svolgimento di un’attività di lavoro in nero e chi invece lavora in regola e non comunica una notizia che la P.A. e lo stesso Inps già conosce (in barba alla informatizzazione della P.A. ovvero al sistema integrato di banche dati, piattaforme digitali ed alla interoperabilità a cui la legge fa sovente riferimenti formali).
La criminalizzazione dell’omessa comunicazione di un dato relativo ad una situazione di attività di lavoro regolare − che la P.A. già conosce − appare un unicum all’interno dell’ordinamento. Una gratuita superfetazione penalistica che va contro il carattere di residualità necessaria e di offensività della fattispecie; tanto che si potrebbe parlare in questo caso di una sanzione senza disvalore e senza illecito penale, rispetto ad una fattispecie per la quale sarebbe già consona la sanzione della decadenza dal beneficio o la riduzione del RDC oltre alla restituzione dell’indebito.
Va sottolineato inoltre che la norma punisce anche soltanto il ritardo nella comunicazione; posto che sanziona con la stessa pena non solo l’omissione ma anche aver effettuato la comunicazione in violazione dei termini (previsti dall’art. 3, commi 8, ultimo periodo, 9 e 11).
Qui c’è da registrare un evidente difetto di coordinamento tra decreto legge e legge, perché il comma 8, ultimo periodo, dell’art. 3, introdotto dalla legge di conversione recita: «L’avvio dell’attività di lavoro dipendente è comunque comunicato dal lavoratore all’Inps secondo modalità definite dall’Istituto, che mette l’informazione a disposizione delle piattaforme di cui all’articolo 6, comma 1», senza tuttavia prevedere alcun preciso termine; salvo che non si sostenga la tesi che sul punto la norma penale abbia voluto fare riferimento alle modalità stabilite dall’Inps, ma con insuperabili problemi di tassatività e di legalità trattandosi di elementi della fattispecie penale.
La carenza normativa è in realtà inspiegabile, perché un analogo obbligo di comunicazione è previsto dal comma 9 in caso di variazione della condizione occupazionale per l’avvio di un’attività di impresa o di lavoro autonomo. Ed in tali casi la legge prevede che la variazione dell’attività sia comunicata all’Inps entro 30 giorni dall’inizio della stessa attività. Termine che nel caso del lavoratore subordinato la legge si è invece dimenticata, con il rischio della totale inoperatività del precetto penale.
Anche in relazione a questo reato di falsità per mantenimento della misura risalta la severità della sanzione penale detentiva. È il primo caso, nell’ambito dell’assistenza sociale e della previdenza, che l’omessa comunicazione di dati reddituali o relativi a condizioni personali da parte del beneficiario di una prestazione economica viene perseguita con la previsione di una fattispecie incriminatrice ed una sanzione penale ad hoc. Nel variegato territorio del “diritto penale del lavoro” il legislatore ha oltrepassato la tradizionale barriera soggettiva arrivando alla costruzione di una fattispecie delittuosa che si dirige anche al lavoratore e, addirittura, anche se regolare.
La normativa penale fin qui analizzata non punisce invece (né nel primo né nel secondo comma) il comportamento di chi, in sede di richiesta del RDC, commetta il falso per ottenere indebitamente non la prestazione in sé (di cui ha requisiti documentati) ma per ottenerla in misura maggiore rispetto a quella a cui avrebbe titolo. E commetta quindi lo stesso falso non per mantenere una misura maggiore ma per averla in sede di prima determinazione. In questo caso si applica la previsione del comma 6 dell’art. 7 che prevede testualmente il medesimo comportamento come illecito amministrativo sanzionandolo con la sola decadenza.
Anche su questo punto pare sussistere un difetto di proporzionalità evidente: quale differenza può giustificare mai una diversità di trattamento così elevata tra chi riceve una misura maggiore per effetto di un falso commesso in sede di prima attribuzione e chi allo stesso scopo commette il falso in sede di mantenimento del RDC? Al primo la legge commina solo la sanzione amministrativa della decadenza, al secondo la revoca e fino a tre anni di reclusione.
Il datore di lavoro non sarà invece toccato da alcuna delle previsioni in discorso; posto che la condotta incriminata non consiste nel lavorare, ma nell’omettere la comunicazione dei dati, il datore di lavoro che, sapendo della percezione del reddito, offre e riceve un lavoro in nero, e magari si avvantaggia della situazione che sta a monte, non partecipa alla realizzazione della condotta tipica che si realizza col mendacio e non con la prestazione di lavoro irregolare.
Difficile dire se il timore delle sanzioni penali porterà ad una riduzione del lavoro nero, ad una maggiore emersione dalla irregolarità e ad una più efficace attività di contrasto al lavoro nero, recidendo il rapporto che lega il lavoratore al datore. Se per timore di incorrere nei controlli previsti dalla legge il datore di lavoro eviterà di assumere in nero un lavoratore che percepisca il reddito; o se eviterà di continuare il rapporto in nero in essere, irregolare o sottopagato.
Qualcuno ha detto che il RDC è stato introdotto per combattere il lavoro nero. Ma queste previsioni confermano che più che il lavoro questa disciplina ha di mira il lavoratore (in nero o in chiaro).
Il legislatore sembra annettere una funzione salvifica allo strumento penale nei confronti di soggetti connotati da una estrema condizione di debolezza, in linea con il cattivismo tipico di questi tempi, in cui si preferisce infierire sugli indifesi anziché colpire i loro aguzzini; si ipotizzano multe per chi salva in mare le persone in pericolo; si introduce il reato di accattonaggio quando si proclama di aver sconfitto la povertà; si allungano i tempi di permanenza nei centri di trattenimento degli stranieri; e si sceglie di criminalizzare la povertà. Ma è illusorio pensare che il lavoro nero si possa combattere inasprendo le sanzioni nei confronti dei lavoratori.
Anche per questa fattispecie dell’omessa o ritardata comunicazione delle variazioni reddituali e patrimoniali l’esagerazione punitiva sembra palese; e potrebbe produrre effetti contrari a quelli che la norma vorrebbe conseguire e promuovere (la tempestiva acquisizione delle notizie e la conformazione del beneficio erogato alle reali condizioni dei beneficiari). È probabile che se un beneficiario del RDC si accorga di aver sforato un termine potrebbe essere indotto a non comunicare più nulla nel momento in cui sa di rischiare non solo la perdita del trattamento ma anche un processo penale con una pena fino a tre anni di reclusione anche soltanto per la comunicazione in ritardo. Tanto vale non comunicare più nulla. Diversamente potrebbe essere indotto a rinunciare alla misura come appunto in molti stanno già facendo.
2. Gli illeciti amministrativi
Gli illeciti amministrativi cui la legge si riferisce parlando di «sanzioni diverse da quelle penali» (comma 10 dell’art. 7) si muovono soprattutto ai fini del rafforzamento degli obblighi assunti dal beneficiario sul versante dell’inserimento lavorativo e sociale; ma non trascurano nemmeno di sanzionare con la stessa decadenza anche il mendacio o l’omissione dei dati rilevanti ai fini del godimento della misura. Essi prevedono come sanzione la decadenza dal RDC o la decurtazione di una o più mensilità.
La decadenza dal godimento del RDC punisce il mancato rispetto degli obblighi dichiarativi, di sottoscrizione, di partecipazione, di adesione, e di accettazione dell’offerta di lavoro. Ma non solo, poiché anche sotto questo versante è richiamata la fattispecie di chi non effettua le comunicazioni relative al lavoro svolto oppure effettua comunicazioni mendaci che producono un beneficio economico maggiore rispetto a quello dovuto oppure di chi non presenta una DSU aggiornata in caso di variazione del nucleo familiare ai sensi ai sensi dell’articolo tre comma 12. Diversa è invece la sanzione dedicata alla mancata presentazione alle convocazioni, alla mancata partecipazione alle iniziative di orientamento ed al mancato rispetto degli impegni previsti nel Patto per l’inclusione. In tali casi si applica – in mancanza di un giustificato motivo – la misura della decurtazione di una mensilità o di due mensilità a seconda della reiterazione degli inadempimenti per una sola o per una seconda volta; mentre alla terza condotta inadempiente segue la decadenza.
Il legislatore in prima battuta quindi giudica meno grave la condotta di chi si sottrae agli adempimenti lavoristici rispetto a chi invece non presta le dichiarazioni o non accetta l’offerta congrua di lavoro che si ha l’obbligo di accettare.
3. La revoca
La severità e gravità della disciplina sanzionatoria apprestata dal legislatore non potrebbe essere colta in tutta la sua entità senza fare menzione della normativa dedicata alla revoca del RDC.
L’apparato sanzionatorio penale è infatti accompagnato dalla previsione di una serie di provvedimenti di secondo grado diretti ad incidere sul godimento della prestazione già concesso.
Anzitutto l’art. 7, comma 3, prevede la immediata revoca con efficacia retroattiva in caso di condanna definitiva o di patteggiamento per i reati previsti dal medesimo comma (ovvero per i reati di cui ai commi 1 e 2 e ma anche per tutti quelli previsti dagli artt. 270-bis, 280, 289-bis, 416-bis, 416-ter, 422 e 640-bis cp nonché per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto art. 416-bis ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo). La revoca non consegue però di diritto come effetto penale della condanna dovendo essere disposta dall’Inps. Negli stessi casi inoltre la legge prevede pure che il beneficiario sia tenuto alla restituzione di quanto indebitamente percepito.
E poi prevista al quarto comma un’altra ipotesi di revoca immediata del beneficio con efficacia retroattiva disposta in sede amministrativa nel caso in cui, dice la norma, «si accerti la non corrispondenza al vero delle dichiarazioni e delle informazioni poste a fondamento dell’istanza ovvero l’omessa successiva comunicazione di qualsiasi intervenuta variazione del reddito, del patrimonio e della composizione del nucleo familiare dell’istante». Si tratta sempre di una revoca immediata adottata dall’Inps, non condizionata all’esistenza del reato (e quindi a prescindere dalla pendenza di un processo e dal dolo), ma soltanto all’accertamento dell’illecito consistente nel mendacio o nell’omissione. È sufficiente quindi che esista il comportamento oggettivo descritto dalla norma; e tuttavia deve pur sempre trattarsi di una falsità o di una omissione che abbia riflessi sul diritto o sulla misura del reddito di cittadinanza.
La legge prevede in sostanza due ipotesi di revoca: una conseguente a condanna penale, l’altra legata all’esistenza oggettiva di un mendacio.
Quanto agli effetti della revoca va rilevato che essa colpisce il beneficio in sé e per sé; e di riflesso tutti i beneficiari componenti del nucleo familiare. Non è prevista soltanto una riduzione dell’importo in relazione alla quota imputabile al singolo responsabile condannato in sede penale. Siamo quindi dinanzi ad un provvedimento sanzionatorio di natura collettiva. Del resto ad oggi la quota di spettanza del beneficio per ciascun componente del nucleo non è neppure stata determinata ed è rimessa alla emanazione di un decreto interministeriale da approvarsi entro sei mesi dall’entrata in vigore delle nuove misure dunque entro il 28 luglio 2019 (solo la pensione di cittadinanza è divisa in base alla legge in vigore in parti uguali tra i componenti del nucleo).
Anche a voler considerare come amministrativa la revoca (sempre disposta dall’Inps) che consegue a condanna penale, appare chiaro che nell’una e nell’altra ipotesi questa disciplina deroghi a quella generale stabilita dalla legge n. 689 del 1981, soprattutto laddove non richiede l’accertamento della responsabilità personale ai fini dell’ irrogazione della revoca o della decadenza dal beneficio rispetto ai componenti del nucleo familiare beneficiario che avrebbero diritto al mantenimento del reddito e non siano responsabili di alcun illecito.
Occorre ricordare infatti che in base alla legge suindicata ai fini della responsabilità amministrativa è richiesta la capacità di intendere e di volere al momento del fatto, la maggiore età, l’elemento soggettivo; e come tale responsabilità sia una forma di responsabilità personale, per cui ciascuno risponde della propria azione o omissione (tant’è che è intrasmissibile agli eredi) salvo la solidarietà nelle specifiche ipotesi previste dall’articolo 6 (per il proprietario della cosa, per la persona rivestita di autorità e direzione, vigilanza, per l’imprenditore).
E dunque in base alle regole generali non solo l’illecito deve essere rapportato alla condotta materiale dell’autore, ma deve riflettere anche una sua partecipazione psicologica essendo necessario il dolo o la colpa. Ed allora non si capisce da dove tragga fondamento la responsabilità collettiva delineata nella norma, in cui affinché gli impegni previsti nel patto possano ritenersi violati è sufficiente che l’inadempimento sia imputabile ad uno solo dei componenti del nucleo familiare.
La responsabilità individuale tende così a dissolversi in una responsabilità collettiva solidale in forza della quale gli effetti pregiudizievoli derivanti dell’inadempimento del singolo si trasmettono agli altri componenti pur se incolpevoli; opera una sorta di presunzione che la colpa del singolo sia imputabile all’intero gruppo che quindi viene punito. È un’opzione drastica che riflette la concezione del gruppo familiare come organismo unitario; e risente della costruzione del RDC come misura del nucleo familiare anziché dell’individuo, ma che si pone agli antipodi della concezione moderna della responsabilità penale ed amministrativa, le quali soggiacciono, entrambe, ad esigenze di proporzionalità.
Se è vero che secondo la Corte costituzionale il principio di personalità e le garanzie che assistono la responsabilità penale ex art. 27 della Cost. non sono estensibili all’illecito amministrativo, è anche vero che, come confermano le sentenze nn. 63 e 112 del 2019, la stessa Corte costituzionale ha esteso in molteplici occasioni alle sanzioni amministrative di carattere sostanzialmente “punitivo” talune garanzie riservate dalla Costituzione alla materia penale. Ciò è accaduto, in particolare, in relazione ad una serie di corollari del principio nullum crimen, nulla poena sine lege enunciato dall’art. 25, comma 2, Cost., quali il divieto di retroattività delle modifiche sanzionatorie in peius (sentenze n. 223 del 2018, n. 68 del 2017, n. 276 del 2016, n. 104 del 2014 e n. 196 del 2010), della sufficiente precisione del precetto sanzionato (sentenze n. 121 del 2018 e n. 78 del 1967), nonché della retroattività delle modifiche sanzionatorie in mitius (sentenza n. 63 del 2019); ma anche il principio di proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità dell’illecito è applicabile secondo la Corte costituzionale alla generalità delle sanzioni amministrative.
Sotto questo profilo la Corte ha messo al bando gli “automatismi sanzionatori”, ritenuti non conformi al principio in questione proprio perché esso postula «l’adeguatezza della sanzione al caso concreto»; ed ha evidenziato che la base di un sindacato sulla sanzione esteso anche a quella amministrativa possa essere radicato, nell’ambito interno, nell’art. 3 Cost., in combinato disposto con le norme costituzionali che tutelano i diritti di volta in volta incisi dalla sanzione, ed in ambito europeo negli artt. 1 Prot. addiz. Cedu e nell’art. 17 Cdfue, in quanti riferiti ad una sanzione di natura patrimoniale anch’esse di carattere “punitivo”.
È difficile perciò riuscire a rendere compatibile con i suddetti principi l’automatica perdita della prestazione a carico di tutti i familiari, anche se volenterosi o adempienti dei rispettivi obblighi.
4. La restituzione e l’indebito
C’è da chiedersi a questo proposito se anche la restituzione dell’importo indebito sia collettiva da parte di tutti o se sia individuale. La revoca è certamente collettiva perché colpisce il beneficio in sé e quindi incide su tutti i suoi destinatari. Ma per quanto riguarda la restituzione la legge dice in prima battuta soltanto che «il beneficiario è tenuto alla restituzione» e non distingue il nucleo familiare o il responsabile che ha commesso il reato. Si può ipotizzare che ai fini restitutori si computi solo la quota del singolo beneficiario responsabile? Sembra di no, appunto perché la revoca colpisce il beneficio in sé e la norma dice che la revoca è retroattiva. Non sappiamo ancora d’altra parte l’entità delle quote attribuite ai singoli. Quindi la revoca non solo colpisce la misura per tutti ma comporta anche la sua caducazione da un momento antecedente all’adozione della misura, con conseguente obbligo di restituire gli emolumenti percepiti da parte di tutti i componenti del nucleo familiare beneficiario.
Tuttavia, bisogna distinguere il momento in cui viene meno la misura, rispetto all’adozione della revoca, e il momento in cui il soggetto è tenuto alla restituzione, trattandosi di un effetto giuridico che non è regolato dalla mera previsione amministrativa della retroattività (fin dal momento della sua erogazione), bensì dalle previsioni civilistiche in materia di restituzione.
Ai fini dell’indebito e della restituzione occorre individuare la tipologia dell’illecito e considerare se il comportamento illecito abbia avuto riflessi sul godimento dell’intero beneficio o soltanto su una sua parte: nel primo caso l’indebito colpisce la concessione della misura e tutti gli importi che sono stati erogati andranno restituiti per intero in via retroattiva; invece, nel caso in cui sia stata omessa una comunicazione che incide soltanto sull’importo del reddito di cittadinanza erogato, la revoca della misura non comporta la restituzione dell’intero importo percepito, ma soltanto di quella parte che è divenuta indebita.
Ciò deriva dalle regole generali in materia di restituzione dell’indebito le quali vanno applicate alla fattispecie, posto che l’obbligazione restitutoria soggiace alle regole civilistiche ed alle altre regole stabilite in materia di indebito (assistenziale) le quali mai prevedono una restituzione oltre l’importo non spettante.
La restituzione dell’indebito è obbligo di carattere civilistico e non sanzione amministrativa. La retroattività significa solo che vanno restituiti tutti gli importi non dovuti anche precedenti all’adozione del provvedimento, ma non che vadano restituiti gli importi che siano stati legittimamente ricevuti.
La restituzione dell’indebito può essere disposta soltanto dal momento in cui l’erogazione sia divenuta illegittima e quindi soltanto per le rate percepite successivamente. Tale interpretazione, oltre a rispondere alle regole dell’indebito previste dal codice civile, è supportata anche sul piano letterale dalla medesima norma di legge; dal momento che sia il terzo che il quarto comma dell’art. 7, dopo aver previsto la revoca immediata (per condanna penale o per la falsità oggettiva), stabiliscono che l’obbligo di restituzione riguardi «quanto indebitamente percepito», che non è tutto l’importo percepito ma appunto solo il «quanto» ossia l’importo «indebitamente percepito».
Un punto oscuro è poi quello dell’art. 7, comma 10, secondo cui l’indebito relativo al RDC dovrà essere recuperato dall’Inps «nelle modalità di cui all’articolo 38, comma 3, del decreto-legge n. 78 del 2010, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 122 del 2010, al netto delle spese di recupero», il quale però prevede soltanto l’irrogazione di una ulteriore sanzione da 500 a 5000 euro; ebbene tale richiamo andrà chiarito anche per via normativa, dal momento che sarebbe privo di qualsiasi base logica punire più volte lo stesso comportamento.
5. L’interdizione del beneficio pro futuro
La severità delle sanzioni irrogate è rafforzata con la previsione dell’interdizione per un certo periodo dall’accesso e dal godimento del RDC per il futuro. Sono previste due ipotesi all’art. 7, commi 3 e dall’art. 11.
In caso di condanna penale definitiva per i reati già visti il beneficio non può essere nuovamente richiesto prima che siano decorsi dieci anni dalla condanna. Il dies a quo che decorre dalla condanna (definitiva) risulta irragionevole (dato che prima della condanna c’è la sospensione della misura e potrebbe essere adottata anche la revoca anticipata) e rischia di escludere una persona dal reddito per moltissimo tempo.
In caso di illecito amministrativo l’interdizione dura invece diciotto mesi e può scendere a sei mesi per la presenza all’interno nel nucleo familiare di minori o di disabili. La decorrenza parte in tal caso dalla data del provvedimento di revoca o di decadenza.
Occorre chiedersi se il periodo di interdizione valga per tutti i membri dello stesso nucleo familiare. In caso di revoca a seguito di condanna definitiva l’art. 7, comma 3, non precisa a carico di chi valga tale interdizione; se valga anche per i familiari o solo per l’autore del reato. Il dubbio è legittimo perché nell’ipotesi invece di illecito amministrativo per mero inadempimento dei vari obblighi il comma 10 esplicitamente riferisce il divieto e l’interdizione a tutti membri del nucleo familiare precisando appunto che «in tutti i casi diversi da quelli di cui al comma tre il reddito cittadinanza può essere richiesto dal richiedente ovvero da altri componente il nucleo familiare» solo dopo il periodo di interdizione di diciotto mesi o sei mesi.
Anche questa disciplina potrebbe dare adito ad una qualche illogicità, dal momento che nelle ipotesi del meno grave illecito non costituente reato il periodo di interdizione dell’accesso alla misura si estende fino a diciotto mesi colpendo oltre l’inadempiente anche il suo familiare (magari anche adempiente).
Sarebbe quindi necessario rivedere tutto l’impianto della revoca e della decadenza in modo che la misura sanzionatoria venga a colpire il solo responsabile e possibilmente nella sola quota ad egli riferita. Va escluso in ogni caso che l’effetto interruttivo permanga una volta che il soggetto non responsabile non faccia più parte del nucleo familiare colpito dall’interdizione.
6. La sospensione
In sede di conversione è stato aggiunto l’art. 7-ter che commina la sospensione del beneficio in caso di condanna o applicazione di misura cautelare personale.
La misura, ovviamente temporanea, (destinata ad essere sostituita dalla revoca definitiva o dalla sua stessa revoca all’esito del giudizio penale definitivo) opera nei confronti del beneficiario o del richiedente cui sia stata applicata una misura cautelare personale, anche adottata a seguito di convalida dell’arresto o del fermo, nonché del condannato con sentenza non definitiva per taluno dei delitti indicati all’art. 7, comma 3. (La medesima sospensione si applica anche nei confronti del beneficiario o del richiedente dichiarato latitante ai sensi dell’art. 296 cpp o che si è sottratto volontariamente all’esecuzione della pena).
Ai sensi del secondo comma, i provvedimenti di sospensione sono adottati con effetto non retroattivo dal giudice penale che ha emesso la misura cautelare, ovvero dal giudice che ha emesso la sentenza di condanna non definitiva, ovvero dal giudice che ha dichiarato la latitanza, ovvero dal giudice dell’esecuzione su richiesta del pubblico ministero che ha emesso l’ordine di esecuzione ex art. 656 cpp al quale il condannato si è volontariamente sottratto.
Allo scopo, nel primo atto cui è presente l’indagato o l’imputato l’autorità giudiziaria lo invita a dichiarare se gode del beneficio del RDC. I pubblici ministeri o i giudici delle indagini preliminari devono perciò integrare la propria modulistica adeguandola al nuovo adempimento.
Trattandosi di misura temporanea, la sospensione del beneficio può essere a sua volta revocata dall’autorità giudiziaria che l’ha disposta, quando vengano a mancare, anche per motivi sopravvenuti, le condizioni che l’hanno determinata.
Venuta meno la sospensione l’erogazione non viene ripristinata automaticamente, ma occorre una nuova domanda all’Inps, allegando ad essa la copia del provvedimento giudiziario di revoca della sospensione della prestazione. Il diritto al ripristino dell’erogazione decorre però ex nunc dalla data di presentazione della nuova domanda e della prescritta documentazione all’ente previdenziale, e non ha quindi effetto retroattivo sugli importi maturati durante il periodo di sospensione.
Lo stigma della mera sottoposizione a processo penale rimane quindi e produce effetti patrimoniali negativi; non si può tacere che anche questa norma appare incompatibile con il principio di non colpevolezza e di eguaglianza.
7. Conclusioni
La normativa in materia di sanzioni penali «e non penale» (così espressamente qualificate) dettata nella legge istitutiva del RDC presenta molteplici aspetti controversi.
Sul piano della tecnica si evidenzia l’evidente sovrapposizione, se non confusione, dei singoli comportamenti assoggettati alle diverse misure sanzionatorie; una moltiplicazione delle fattispecie sanzionatorie che tanti problemi daranno in sede applicativa, soprattutto per quanto concerne i comportamenti che violano gli obblighi di comunicazione e di informazione. Si consideri ad esempio che l’omessa comunicazione di un dato reddituale comporta: la pena della reclusione da due a sei anni se diretto ad ottenere la concessione del beneficio (secondo il comma 1 dell’art. 7); la pena da uno a tre anni se riguarda il mantenimento del beneficio anche nel quantum per il comma 2 (anche in ritardo); l’immediata revoca del beneficio con efficacia retroattiva sia che attenga all’istanza iniziale, sia alle condizioni di mantenimento secondo il comma 3 ed il comma 4; la mera decadenza nel caso in cui si tratta di comunicazioni che producono un beneficio economico maggiore secondo il comma 5 lett. f); la decadenza con recupero nel caso in cui il nucleo familiare abbia percepito un beneficio economico maggiore secondo il comma 6. C’è quindi da registrare anzitutto una non chiara formulazione e delimitazione dei comportamenti che ricadono nell’una o nell’altro tipo di illecito.
Sul piano sostanziale il legislatore ha inteso scoraggiare atti antigiuridici puntando sulla moltiplicazione delle fattispecie sanzionatorie, sulla elevatezza delle sanzioni e sulla inflessibilità delle stesse.
In linea con il cattivismo populista dell’epoca, il legislatore ha puntato ad incutere timore. Ed il rigorismo emerge soprattutto dall’automatismo applicativo che connota l’irrogazione di ogni conseguenza sanzionatoria. La legge non prevede interventi di mediazione; nessun richiamo preventivo da parte dell’organo di controllo al rispetto degli impegni assunti; nessun potere di sospensione secondo meccanismi di proporzionalità e gradualità che miri alla correzione delle mancanze imputabili al titolare o ad uno dei componenti del nucleo familiare mediante la tecnica della moral suasion che va preferita, rispetto a quella della sanzione diretta, quando si tratta di attivare comportamenti collaborativi ed approcciare problemi complessi come quelli sottesi alla povertà ed alla marginalità sociale.
Molto meglio infatti mirare a ripristinare le condizioni di legalità ovvero a misure che tendano ad eliminare le conseguenze legali del comportamento creando le condizioni necessarie per la realizzazione del comportamento obbligato attraverso cui si può realizzare, seppure tardivamente, l’interesse tutelato dalla norma. Come avviene peraltro nei confronti del datore di lavoro con la previsione nella materia ispettiva regolata dal d.lgs n. 124 del 2004 di una pluralità di strumenti intesi alla regolarizzazione (diffida ad adempiere, prescrizione obbligatoria e disposizione).
Nemmeno nella quantificazione delle sanzioni si prevede un potere discrezionale da gestire con gradualità rispetto alle differenti entità degli inadempimenti.
Il rigore emerge anche rispetto al sistema sanzionatorio previsto dalla legge sul Rei. Il d.lgs n. 147 del 2017 che ha istituito con decorrenza dal primo gennaio 2018 il reddito di inclusione non prevedeva nessuna sanzione penale, neppure per il caso in cui le dichiarazioni mendaci avessero determinato un beneficio non dovuto, dal momento che salva la decadenza e la restituzione dell’indebito comminava l’irrogazione della sanzione amministrativa da 1000 a 3000 proporzionalmente all’entità del beneficio mensile erogato in base alla dichiarazione mendace.
Il rigore sanzionatorio che connota la disciplina rischia però di minare dalle fondamenta lo scopo che l’istituzione della misura assistenziale si propone di raggiungere per come dichiarato nella stessa legge. Dopo l’introduzione del RDC nel nostro ordinamento c’è chi ha scommesso che sarebbe aumentato il lavoro nero e chi ha scommesso sul suo contrario. Ad oggi sono molte le rinunce da parte di soggetti aventi titolo al riconoscimento della prestazione (almeno 1 su 4 secondo i dati dell’Inps). Ed è troppo presto per sapere se si tratta per lo più dei cd. furbetti che svolgono un lavoro nero o irregolare; oppure di persone deluse dalla bassa entità della prestazione media; o appunto di persone spaventate dall’ottusa severità delle sanzioni.
In materia di assistenza sociale ogni sistema sanzionatorio dovrebbe mirare a realizzare un difficile equilibrio tra il principio di solidarietà e il principio di giustizia, inteso come meritevolezza della prestazione. E l’assetto ad essi assicurato dall’azione – per sua natura cangiante − dei pubblici poteri deve fare i conti con i valori fondamentali espressi nella Costituzione e nella normativa comunitaria che rimangono le fonti rispetto a cui misurare, in ultima analisi, gli standard di condotta adottati nelle norme che regolano l’erogazione delle prestazioni assistenziali.
Dovrà allora tenersi conto, soprattutto, che le stesse garanzie costituzionali e sovranazionali mirano a soccorrere le persone che si trovano in condizioni di debolezza economica e non a rinchiuderli definitivamente dentro la gabbia (anche penale) della povertà.
Roberto Riverso
Consigliere presso la Corte di cassazione