E’ convinzione diffusa che il Movimento 5stelle debba alla sua proposta di “ reddito di cittadinanza” gran parte del suo notevole successo elettorale. In Italia del resto il tema del diritto al reddito minimo garantito (che in realtà è la prestazione richiesta da 5Stelle, visto che non spetta ad ogni cittadino ma solo a chi è a rischio di esclusione sociale) è entrato prepotentemente al centro nelle due scorse legislatura portando anche ad iniziative governative come, con il Governo Gentiloni , il REI ( cui sono state destinate risorse minime (tanto da coinvolgere qualche centinaia di migliaia di persone a fronte dei milioni in difficoltà) e che viene accompagnato da misure di controllo asfissianti e mortificanti le persone sussidiate ed, oggi ,con il Governo Conte una proposta che sarà definita nei dettagli nella legge di bilancio. L’approvando “reddito di cittadinanza” vorrebbe sradicare la povertà offrendo a chi ne ha bisogno 780 euro al mese, soglia convenzionalmente fissata dall’UE per una vita decorosa.
Tuttavia dalle dichiarazioni rese dagli esponenti del governo cui si aggiungono le anticipazioni dei media emergono delle gravi criticità nel provvedimento in corso di definizione, che si pongono in discontinuità persino con la proposta 5stelle della scorsa legislatura, sempre che siano poi confermate cosa che si auguriamo non avvenga.
In primo luogo vorremmo sottolineare in via generale la narrazione tossica che accompagna l’attuale dibattito che non si è alimentato di approfondimenti, richiami alle esperienze già in essere ormai in moltissimi paesi anche non europei, indicazioni e raccomandazioni che vengono da organismi internazionali e studi di impatto economico; si è invece concentrato nella stigmatizzazione e condanna morale dei potenziali beneficiari ‘furbetti’, scansafatiche, ludopatici nonché dediti ad acquisti compulsivi di beni di lusso. L’idea del povero nullafacente, colpevole della sua stessa condizione, genera linfa ai propositi moralizzatori della misura, che aspira a una sorta di “educazione” del beneficiario attraverso il lavoro gratuito e ‘socialmente utile’. Inoltre il termine “cittadinanza” non viene qui utilizzato come riferimento a una condizione di pienezza dei diritti civili e sociali e dunque di piena appartenenza ad una comunità politica e sociale, ma semmai come criterio di esclusione o di discriminazione dei migranti, persino comunitari.
L’dea che si possano escludere i non cittadini italiani sembra essere stata ritrattata, ma anche il requisito di cui si parla dei dieci anni di residenza è platealmente discriminatorio e calpesta i principi fissati dalla Corte costituzionale, dalla Corte di giustizi e dalla Corte di Strasburgo in ordine all’accesso alle prestazioni sociali di carattere essenziale.
Il diritto alla percezione di un reddito deve rimanere un diritto individuale in quanto il singolo( di cui va difesa l’autodeterminazione) non può essere abbandonato alla carità familiare attribuendo le risorse (come nel REI) solo al nucleo familiare ( art. 45 Carta di Nizza), sebbene per ragioni di equità possano farsi delle correzioni nel caso siano attribuibili più redditi minimi a famiglia o il patrimonio di uno dei componenti sia molto alto. Sembra di capire che l’asse della proposta governativa sarà schiacciato sulla famiglia ed i suoi bisogni globalmente valutati.
Le Raccomandazioni europee indicano tre componenti di un reddito minimo; quella monetaria, il sostegno all’affitto e/o forme di tariffazione sociale e un contributo alle spese impreviste. Il fatto di avere una casa di proprietà non può quindi costituire una ragione per limare il primo livello di aiuto, quello monetario, il che suonerebbe come una beffa per i tanti che hanno acquistato un’abitazione a prezzo di grandi sacrifici .
La misura deve essere rispettosa nelle sue modalità della dignità essenziale delle persone che è il fine dell’istituto, altrimenti si rischierebbe l’eterogenesi dei fini mortificando proprio coloro che si vuole proteggere come “ cittadini”. L’idea che vi possa essere un’attribuzione di risorse sotto forma di una carta prepagata non risponde a questi principi sottoponendo i fruitori ad umiliazioni ed a penose scelte e non rispettando il meta-criterio per cui un cittadino è il responsabile delle proprie scelte anche sul piano dei consumi. Inoltre la scelta di obbligare i “bisognosi” a svolgere ore di “attività comunitarie” gratuite costituisce una odiosa vessazione che ci riporta nello scenario dei lavori socialmente utili già stigmatizzati dalla Corte di giustizia. La previsione costituisce, peraltro, anche un potenziale spreco essendo evidente che per lavorare altri in modo effettivo e quindi produttivo (in senso lato) è necessario un dispendio di risorse umane e d economiche non indifferente. Quanto ci costerà questo omaggio alla logica delle work-houses ottocentesche su cui la proposta nella scorsa legislatura 5 Stelle taceva del tutto?
Le offerte di lavoro non rifiutabili da parte di un avente diritto devono, poi, avere carattere di congruità e devono, quindi, rispettare di il bagaglio professionale formale ed informale di questi, altrimenti costituirebbero un danno sociale impedendo al soggetto di esprimere il “proprio” contributo alla ricchezza sociale. Non è chiaro ancora, ma temiamo non lo sarà neppure a dicembre, quali corsi di formazione potrebbero essere offerti visto lo stato di degrado in cui versano i centri per l’impiego e l’inidoneità dimostrata anche da quelli privati nell’organizzare una effettiva riqualificazione dei soggetti in carico, che nell’era della digital economy, ci sembra presupponga necessariamente la libertà (come autodeterminazione) del soggetto di cui si predica continuamente la creatività, l’originalità e la capacità di innovazione, virtù che non sembra possano essere trasmesse via coercizione. Non crediamo sia causale l’avvio, in tutti i continenti, di sperimentazioni di un reddito minimo (per coloro che sono a rischio di esclusione sociale) ma incondizionato in mondo che ci possa valutare l’utilità di meccanismi di induzione al lavoro o di formazione etero- diretti ed imposti a pena di perdita della garanzia dei beni primari.
Crediamo che oggi più che mai sia compito di coloro che da molto tempo sostengono il reddito garantito, mantenere alta l’attenzione e rilanciare il dibattito. Prendere atto che le opportunità e gli spazi per la presa di parola si sono moltiplicati perché il tema è trasversale e ci sono milioni di persone che sono in attesa e in ascolto. La lotta per il diritto al reddito, come strumento di emancipazione, di autodeterminazione delle persone, di difesa della dignità degli individui, della libertà di scelta, come politica redistributiva e verso una società migliore, non inizia né con le proposte governative e certo non si esaurirà in quelle. Ma il fatto che oggi, in tutto il mondo questo tema sia centrale, ci obbliga ad intervenire rilanciando le ragioni profonde sottese a questa misura.
Infine, ricordiamo che la proposta del “reddito di cittadinanza” contenuta nel DEF 2018 non è l’unica esistente e che proprio grazie a una attivazione capillare di centinaia di associazioni e comitati in tutta Italia, esiste una proposta di legge di iniziativa popolare ferma in parlamento dal 2013. Così come esiste una piattaforma, quella per il reddito di dignità, che può essere certamente la base per articolare una alternativa a quella di governo e di intervento immediato. Nella costruzione di una nuova narrazione necessaria la proposta di legge di iniziativa popolare può offrire una opzione, anche per emendare in positivo quella in corso di approvazione su punti significativi. Anche se non perdiamo di vista l’orizzonte di un reddito di base incondizionato, crediamo che queste proposte possano aprire e rilanciare in questa fase un percorso immediatamente praticabile e che possa sfociare, da subito, in un’azione anche legislativa . La proposta di iniziativa popolare è semplice: prevede un intervento verso tutti coloro che sono al di sotto di una certa soglia economica, senza distinzioni di razza, età, religione o sesso; prevede un erogazione in denaro e tiene conto dell’importanza che questa sia accompagnata da servizi di qualità (reddito indiretto) in capo alle regioni cosi da offrire realmente un nuovo disegno al welfare italiano; è incondizionata almeno per tutte le persone che hanno carichi di cura; per coloro che possono lavorare è prevista la relazione con i centri per l’impiego ma le eventuali proposte di attivazione debbono tuttavia essere “congrue”, cioè devono essere coerenti con il bagaglio di esperienze, di competenze e di aspettative del soggetto in difficoltà economica, nella garanzia della dignità della persona e dunque nel riconoscimento della sua storia individuale. Questa misura ha avuto già riscontri di fattibilità da parte dell’ISTAT e degli uffici parlamentari: valorizzare oggi, anche attraverso aggiornamenti, a proposta di legge di iniziativa popolare ferma in parlamento significherebbe mettere sul piatto della bilancia, sin da ora, una alternativa possibile alle proposte governative in campo, e forse anche essere in grado di dare forza a tutte le donne e gli uomini che attendono il diritto al reddito da decenni.