Attraverso da parecchio tempo, essendo una di loro, gli stessi percorsi di quei “lavoratori immateriali” che tanto sembrano sconcertare Devi Sacchetto e Massimiliano Tomba (il Manifesto, 30 maggio ’06). Sarà colpa di una delle diciture che ci accompagnano, “lavoratori immateriali”, che accenna a un’imprendibilità della sostanza, evoca un’immagine letterale di incorporeità e dunque di vacuità e dunque a un’inutilità degna di una specie di inspiegabile ironia?
L’analisi che in questi anni, su determinati temi, primo tra altri quello del lavoro, si è sviluppata di più, e meglio, al di fuori delle accademie – dentro l’ambito della ricerca informale e nelle elaborazioni dei movimenti -, non ha inteso legittimare “il carattere meramente residuale del lavoro operaio industriale”.
Ha ritenuto obbligatorio guardare ai nuovi processi e ai nuovi paradigmi del presente.
Elementi immateriali vanno sempre più innervando l’attività lavorativa tutta. Il sistema di accumulazione flessibile alla creazione di valore tramite la produzione materiale ha aggiunto la
creazione di valore tramite la produzione di conoscenza. Alla tradizionale divisione del lavoro per mansioni e specializzazione se ne aggiunge una nuova, fondata sulla conoscenza, sui saperi, sulle singole capacità (relazionali, emotive). Piaccia o non piaccia, uno dei nodi da sciogliere nel presente è rappresentato dai knowledge workers (lavoratori della conoscenza) e dall’articolarsi complesso del loro rapporto con il lavoro, con la rappresentanza, con il loro ruolo sociale assai più controverso che in passato. Chi sono questi fantomatici, fantasmatici, knowledge workers? Giornalisti, invisibili, al desk dei settimanali e dei quotidiani. Ricercatori universitari da tre per due e dal futuro incerto. Designer, lavoratori del web, impiegati e consulenti nell’industria dei brand, delle mode, degli stili di vita, tutti precari ai tempi delle vite precarie. Sono coloro che, quotidianamente, producono saperi, linguaggi, informazioni, conoscenza per un mondo che di tali “prodotti della mente” è affamato. Guardare a loro significa guardare al lavoro creativo alienato, ridotto – in alcuni casi, nella grande maggioranza dei casi – a ripetizione, esecuzione. Significa guardare alla progressiva negazione della corporeità di classe che si ottiene governando a colpi di precarietà.
I knowledge workers sono infatti contemporaneamente, non casualmente, estremamente “aperti” alla precarietà, a una precarietà che, nella modernità, si sostanzia, sopra ogni altra cosa, di immaginari, di miti.
La perplessità nei confronti del problema definitorio e di sostanza portato con sé dalla variazione in corso, sembra non prestare attenzione proprio ai contenuti del lavoro contemporaneo, prima ancora che al contesto macroeconomico. Il lavoro vivo contemporaneo si fonda sul ricatto, sulla generalizzazione dell’incertezza, con l’aggiunta di un potere disciplinante “indirizzato verso l’atomizzazione e l’asservimento totale del tempo di vita” (T. Villani, Il tempo della trasformazione). Il passaggio che porta un uomo, una donna, a diventare risorsa umana è tutt’altro che indolore. Ci parla di una trasformazione antropologica, di una sussunzione biopolitica, di una “mercificazione ancora più intensa del soggetto” che “da astratta e quantificabile, come fu nel fordismo, viene a essere, in qualche modo, ri-soggettivata e qualitativa nel postfordismo” ((F. Chicchi, Capitalismo, lavoro e forme di soggettività).
Ci parla, fuor di teorizzazioni, di una forma inedita “di tossicità del lavoro”.
Un quadro talmente mutato ha, per forza, necessità di un aggiornamento sostanziale del piano dei diritti.
Questo è quello che stiamo, da molte parti, provando a dire. Il paradigma è cambiato e mette al centro nuovi soggetti (non solo il lavoro immateriale, ma anche il lavoro dei migranti, anche il lavoro produttivo/riproduttivo delle donne), che portano con sé una realtà di nuovi bisogni. Il reddito di esistenza pretende di tenere conto di tale variazione esplicita.
La conoscenza, il general intellect, così come i beni comuni della natura, formano la base invisibile dell’economia, di cui ci si appropria, in modo esponenzialmente sempre più intenso, all’interno dei processi di accumulazione del nostro tempo.
Vale a dire, esistono profonde ragioni deontologiche in difesa del reddito di esistenza, forma appena corretta di redistribuzione di fronte allo sfruttamento privato di tutti i beni comuni, sapere creativo collettivo compreso.
Ciò non significa, sia chiaro, dimenticare il piano rivendicativo, più classicamente sindacale. C’è bisogno entrambi, di nuovi simboli e di rivendicazione, contemporaneamente.
Reddito, battaglie per i servizi sul territorio metropolitano, battaglie sindacali per risalire dagli slittamenti giuridici, tutto può e deve concorrere a costituire un aggiornamento, adeguato all’oggi, delle difese del lavoro contemporaneo.
Tratto da Il Manifesto