Dietro il successo che l’ipotesi del reddito di base sta riscuotendo presso studiosi di varie discipline sta un’idea semplice, ma ‘scandalosa’: una riforma del welfare State è necessaria perché esso è divenuto strumento inadeguato per gli obiettivi per cui è sorto.
Chiare sono le caratteristiche che definiscono quel che gli anglofoni chiamano basic income e che l’italiano traduce a volte con reddito di base, altre volte con reddito di cittadinanza: l’essere un trasferimento monetario, elargito periodicamente dallo Stato agli individui indipendentemente dalle loro condizioni economiche e senza riguardo per il loro contributo lavorativo. Sono però le ultime due caratteristiche a determinarne la carica innovativa: non è necessario distinguere tra ricchi e poveri (anche se ai primi il reddito di base verrà alla fine sottratto per via fiscale) né verificare la disponibilità a entrare nel mercato del lavoro. Il reddito di base spetta insomma alle persone per il solo fatto di esistere.
La rottura con i modelli tradizionali di sostegno al reddito è su questi due punti netta: i trasferimenti monetari degli Stati-nazione sono sempre stati selettivi e condizionati (venivano cioè assicurati alle persone sprovviste di mezzi e a condizione che si dimostrassero disponibili a ricercare attivamente un’occupazione, perlomeno se abili al lavoro, come nel caso del reddito minimo di inserimento), mentre il reddito di base è universalista e incondizionato. Possiamo parlare di un reddito di base nel caso dell’Alaska, dove i proventi delle concessioni petrolifere vanno a costituire una sorta di fondo comune di investimento, una parte del quale viene elargito ai residenti su base annua (nel 2004 il dividendo è stato di poco più di 900 dollari annui). E così per il Brasile, dove è stato introdotto con una legge del 2004, in base alla quale l’erogazione sarà mensile e riguarderà i cittadini brasiliani e gli stranieri che risiedono nel paese da almeno cinque anni.
Dietro il successo che l’ipotesi del reddito di base sta riscuotendo presso studiosi di varie discipline sta un’idea semplice, ma ‘scandalosa’: una riforma del welfare State è necessaria perché esso è divenuto strumento inadeguato per gli obiettivi per cui è sorto. Non è forse vero che gli attuali sistemi di sicurezza sociale offrono un’elevata protezione per certi tipi di rischio (e per certe categorie di persone) e nessuna (o scarsa) tutela per altri? E non è forse evidente che non sempre i rischi protetti sono quelli che generano situazioni di disagio economico? Certo, potremmo tentare di rimediare a questi inconvenienti e tuttavia continuare a preferire e applicare schemi selettivi. Ma non possiamo ignorare le dimostrate distorsioni informative che ostacolano l’individuazione dei soggetti effettivamente meritevoli dell’intervento; le acclarate distorsioni motivazionali che disincentivano le persone a uscire dal sistema di sicurezza per entrare in un mercato del lavoro incerto e con remunerazioni solo di poco superiori a quelle offerte dalle rimesse assistenziali; i non irrisori costi amministrativi e sociali per le verifiche. Dobbiamo insomma riconoscere che gli schemi selettivi non sono sempre rose e fiori.
Questo naturalmente non esaurisce il discorso. Anche ammettendo che il reddito di base sia uno strumento efficace, non può essere sottovalutata la questione della sostenibilità economica. Una risposta convincente su questo punto non è semplice, ma non è inappropriato rilevare che il reddito di base è uno strumento che assorbe in sé alcune misure assistenziali; che è uno strumento pensato nel quadro di una riforma dell’assistenza pubblica e della politica fiscale; e che, per fermarci al caso italiano, alcune microsimulazioni (come quelle di Francesco Silva e di Andrea Fumagalli) hanno comunque offerto dati non così sconfortanti come le nostre intuizioni potrebbero spingerci a pensare.
Peraltro, una misura tanto radicale come il reddito di base sembra richiedere anche una giustificazione morale. E, in effetti, la teoria politica normativa ha provato a offrire alcune risposte a questo problema. Bill Jordan e André Gorz, con accenti differenti, hanno ad esempio sostenuto che il reddito di base potrebbe costituire un potente strumento per integrare le persone nella società in cui vivono e realizzare così appartenenza e partecipazione sociale. Alcune femministe hanno invece affermato che il reddito di base potrebbe essere da un lato un modo per retribuire il lavoro che le donne svolgono per la famiglia all’interno delle mura domestiche, dall’altro un modo per aumentare la loro indipendenza economica e dunque il loro potere contrattuale sia nella sfera lavorativa sia nella sfera familiare. Philippe Van Parijs, l’autore che più di tutti ha contribuito a inserire il tema del reddito di base nel dibattito sulla società giusta avviato più di trent’anni fa da John Rawls, ha infine argomentato che il reddito di base è lo strumento appropriato per realizzare una società i cui membri godono della massima libertà reale (real freedom), ove essere realmente liberi significa possedere non solo il diritto (quindi, la libertà formale) ma anche i mezzi materiali per condurre la propria vita come si potrebbe volerla condurre.
Siamo veramente soddisfatti di queste risposte? Probabilmente, no, almeno fino a quando non abbiamo risposto a questa obiezione: se è vero che non c’è nulla di moralmente sbagliato nel fatto che lo Stato, tramite la tassazione, distribuisca risorse agli inabili al lavoro, ai disoccupati non-volontari, agli anziani, alle persone in difficoltà in genere (dopotutto, queste persone non hanno colpa della propria situazione), diverso è il caso del surfista di Malibù, che sceglie di non lavorare per dedicarsi al suo passatempo preferito. Il surfista di Malibù, in effetti, simboleggia la persona che coltiva i propri interessi con i soldi degli altri: quei soldi che lo Stato ha in precedenza prelevato dalle tasche dei cittadini che lavorano. Intuitivamente è difficile pensare che il surfista non stia in un qualche senso ‘sfruttando’ queste persone e, in definitiva, non condividere la netta conclusione di John Rawls, secondo il quale “chi passasse tutto il giorno a fare surf sulle spiagge di Malibù, dovrebbe trovare il modo di mantenersi, e non avrebbe diritto a risorse pubbliche”.
L’obiezione è estremamente seria per i difensori del reddito di base e, infatti, Van Parijs ha provato a rispondervi in vario modo, ma soprattutto con l’argomento che schematizzo qui di seguito.
1) Tutti hanno diritto a un’eguale quota di risorse esterne – o un’eguale quota del loro valore – per perseguire il piano di vita favorito.
2) I posti di lavoro sono risorse esterne a tutti gli effetti.
3) Nelle moderne economie capitaliste questi posti sono divenuti risorsa scarsa e, dunque, la loro appropriazione deve essere soggetta a vincoli.
4) Lo Stato liberale deve rimanere neutrale rispetto ai vari piani di vita dei propri cittadini.
Ora, se accettiamo le prime tre idee, allora dobbiamo anche accettare la conclusione per cui occorre suddividere tra tutti le rendite di posizione di cui gode chi si è ‘appropriato’ di un posto di lavoro. E se accettiamo la seconda, allora dobbiamo suddividere proprio le rendite e non il lavoro. Inoltre, alla luce della quarta idea, dobbiamo suddividere queste rendite tra tutti e non invece destinarle (sotto forma di sussidi) ai soli disoccupati involontari o (sotto forma di incentivi per le assunzioni) ai datori di lavoro; infatti, diversamente, verrebbero favoriti – direttamente o indirettamente – i piani di vita che prevedono ampio spazio per l’attività lavorativa.
L’argomento non è per verità apparso a tutti convincente (ad esempio, Stuart White, ha sostenuto che consentire alle persone di sottrarsi all’obbligo lavorativo violerebbe quella che sembra essere la base normativa del welfare State, vale a dire il principio di reciprocità, per cui ogni cittadino, in cambio di un reddito minimo soddisfacente ha un corrispondente obbligo di soddisfare una ragionevole aspettativa di lavoro). Una via alternativa per aggirare l’obiezione è allora quella presentata da libertari egualitari come Hillel Steiner. Se vale il principio che l’appropriazione di tutte le risorse naturali deve essere soggetta a un vincolo egualitario, il reddito di base costituisce una forma di risarcimento per la privatizzazione di risorse naturali in origine disponibili per tutti (anche per il surfista di Malibù). Il reddito di base, in breve, è giustificato dal fatto di essere fissato nella regola di giustizia che governa (o dovrebbe governare) l’appropriazione privata delle risorse naturali.
Un’altra via è invece questa. Nel modo di produzione postfordista la produttività dipende non tanto dal lavoro immediato di produzione quanto piuttosto da una serie di capacità (capacità di autonomia, d’immaginazione, di comunicazione ecc.) che i lavoratori sviluppano al di fuori del lavoro immediato. La produttività del lavoro risulta così sganciata dalla materialità della produzione e del lavoro del singolo; ciò che la determina è, piuttosto, l’immaterialità delle relazioni interpersonali, degli scambi di idee e delle comunicazioni che avvengono anche e soprattutto nei contesti extralavorativi. Il postfordismo genera in sostanza una crisi dell’evidenza del soggetto produttivo tale per cui: la produttività diventa ‘produttività sociale’; la categoria di sfruttamento tradizionalmente intesa finisce perciò per essere inservibile; il reddito di base, in quanto reddito sociale che compensa una produttività sociale, può costituire lo strumento per riconoscere e remunerare un nuovo tipo di sfruttamento, quello dell’intellettualità di massa, o intellettualità diffusa (e in più diventare strumento di contropotere economico, sociale e culturale).
Efficacia, sostenibilità economica, giustificabilità morale. Su queste tre questioni si gioca il dibattito sul reddito di base. Un dibattito vivace in molti Paesi europei, meno in Italia, dove il reddito di base stenta a trovare posto nell’agenda della discussione pubblica. Questo è un po’ un peccato, a prescindere da quale sia la posizione di ognuno sul reddito di base. Iniziare allora a discuterne, senza pregiudizi, potrebbe essere un obiettivo allo stesso tempo realistico e desiderabile.
Tratto da Rassegna Sindacale, 2005