Il caso. Su 87.198 beneficiari del reddito di cittadinanza in 4 regioni del Sud verificati dai Caranieri a 4.839 sono state contestate irregolarità e atti di “azzardo morale” ricorrenti in tutti i sistemi di Workfare. Il 40% di queste persone è di origini extracomunitarie. In fondo la loro colpa è essere poveri, non risiedere in Italia da almeno 10 anni. Analisi delle conseguenze prodotte sulla vita delle persone, cittadini e non, da una misura già condizionata che sarà ristretta ancora di più dal governo Draghi.
Giuseppe Conte e i Cinque Stelle hanno sostenuto che i 4.839 «truffatori» e «delinquenti» (su 87.198 individui in 4 regioni del Sud) che hanno compiuto «abusi» percependo irregolarmente il cosiddetto «reddito di cittadinanza» hanno dato «voce a chi sostiene di eliminare uno strumento di dignità» e hanno fatto un «torto al paese» e a chi percepisce correttamente il sussidio. Alla truffa che, stando alla legge in vigore, potrebbe portare a una condanna fino a sei anni di carcere per dichiarazioni mendaci riguardanti il lavoro nero o irregolare, è stata aggiunta un’altra accusa. Quella di fare gli interessi di chi, come Fratelli d’Italia, chiede di versare il «reddito» alle imprese, di chi come Italia Viva chiede di tornare all’insufficiente «reddito di inclusione», oppure di Salvini che oggi presenta i suoi emendamenti alla legge di bilancio. Il tutto è accompagnato da un’interpretazione sostanzialistica della «cittadinanza». In questa prospettiva l’«azzardo morale» dell’individuo opportunista, la ricorrente irregolarità amministrativa nelle dichiarazioni e la probabile disperazione che spinge a chiedere un sussidio senza averne il diritto sono stati messi nella stessa pentola e intesi come un «torto» alla comunità nazionale. La responsabilità così diventa colpa o reato. 17.484 sono i beneficiari irregolari in 3 anni (esigua minoranza su oltre 3 milioni). A loro e a chi lo sarà in futuro sarà appiccicato lo stigma di «furbetto». Uno dei modi per sospettare di tutti i beneficiari.
È UNA DINAMICA ricorrente nei paesi che hanno sviluppato politiche basate sulla «prova dei mezzi», uno strumento controverso sia per le violazioni della privacy, sia per lo stigma sociale che associa a tutti i beneficiari di una misura e non solo ai responsabili delle truffe, sia per gli alti costi di verifica e soprattutto per la discrezionalità che assegna ai governi e alle amministrazioni che stabiliscono i parametri che includono e escludono i beneficiari.
L’effetto che questa dinamica produrrà in Italia non sarà l’abolizione del «reddito», come invece temuto dai cinque stelle e da una “sinistra” che non riesce a distaccarsi dall’egemonia populista di questa compagine in disarmo. Avverrà un altro processo, già osservato nei paesi che hanno sperimentato queste politiche: il peggioramento della vita di chi lo percepisce, oltre che dei poveri assoluti e dei lavoratori poveri che non possono ottenerlo. Per l’Istat i primi sono 5,6 milioni. Dove sono i 1,9 esclusi? Una causa di questa situazione è dovuta ai ristretti criteri di accesso: Isee entro 9.360 euro, valore della casa entro 30 mila, conti correnti e altri titoli entro 6 mila; valore del reddito familiare inferiore a 6 mila moltiplicato nella scala di equivalenza familiare. In questo schema se un «povero» acquista un motorino o una macchina non è più considerato povero e perde il sussidio. Nella parte dell’indagine lucana sui percettori irregolari del sussidio molti casi sono dovuti a problemi di questo tipo. Sono, in primo luogo, le norme a spingere il soggetto a forzare le norme previste per ottenere il sussidio per 18 mesi rinnovabili per altri 18.
A parte la minoranza di casi degli evasori fiscali assoluti (e di chi, pur avendo case e conti correnti con centinaia di migliaia di euro, si è appropriato anche del reddito), una parte cospicua delle infrazioni contestate deriva dai parametri fiscali fissati da una politica che non accetta che si possa essere poveri pur possedendo una casa, una macchina o un reddito anche da lavoro, talvolta in nero. È un’idea pauperistica della povertà. Senza contare che, almeno nell’ottica di un “reddito minimo garantito”, si dovrebbe pensare a un sistema molto più ampio e da riformare rivolto a tutti coloro che lavorano precariamente, sono poveri, e hanno salari da fame. Così non sarà.
Nella parte dell’indagine condotta dai carabinieri in Campania (dove è più alto il numero dei per percettori del reddito), i condannati o precedenti per gravi reati di tipo associativo sono 90 su 4.839. Questo dato modestissimo non ha evitato di etichettare, almeno in alcuni casi, il caso nei file “tutti i percettori del reddito sono camorristi”.
LA LEGGE che ha istituito il reddito esclude dal beneficio chi è stato condannato in via definitiva. E per chi sconta la pena ai domiciliari, ci sono diversi casi nell’indagine, si presume che viva dei proventi dei traffici criminali per cui è stato condannato. E dunque non abbia bisogno di nessun reddito perché parte di un impero criminale. Da qui parte la campagna di stigmatizzazione. Tutto è possibile in questo paese, ma andrebbe anche valutata anche la possibilità che l’autorità giudiziaria abbia sequestrato i beni di queste persone. E che in effetti i loro familiari abbiano bisogno di un reddito. In ogni caso la responsabilità penale è individuale. Ma il reddito no: va al nucleo famigliare. Se il capofamiglia o uno dei suoi membri è stato condannato o ha commesso un’irregolarità è tutta la famiglia a perdere il sussidio.
Questo non accade solo per chi è stato condannato per associazione a delinquere, ma in tutti i casi di decadenza del sussidio. Le colpe di uno ricadono sugli altri. E’ un modo per controllare e spingere a controllarsi, aumentando i conflitti dentro e fuori le famiglie.
Ora, è evidente che l’evasione fiscale, la disoccupazione, il precariato o il lavoro nero non possano essere risolti dal reddito di cittadinanza che riproduce le condizioni di chi vive in una zona grigia tra l’economia emersa e quella sommersa. Ma è altrettanto evidente che, alla luce delle condizioni imposte dalla legge, imponga un’altra pena a chi si trova nella povertà e si barcamena al confine dell’illegalità. Invece di essere uno degli strumenti dell’emancipazione, il reddito di cittadinanza diventa un altro modo per punire.
Anche ieri molto si è detto sui “controlli” da modificare e applicare su tutti i percettori. “Controllo” è la parola magica. Finora le domande di reddito di cittadinanza sono state accettate sulla base dei dati autocertificati dai richiedenti. L’Inps verifica prima della concessione del sussidio i dati Isee mentre quelli anagrafici e di residenza sono verificati dopo e quelli del casellario giudiziario. Lo fa dopo avere riconosciuto il sussidio e a campione. Nella legge di bilancio il governo pensa di potere realizzare prima i controlli all’anagrafe. Dopo saranno incrociati con le banche dati dell’Inps e il casellario giudiziario. Questa operazione è data per fatta in un paese che sconta in generale un arretratezza tecnologica anche su questo. Ma, si sa, quando si tratta di sorvegliare e punire anche i miracoli sono possibili. Non ci saranno miracoli, ma ieri tutti i destri e i sinistri che sostengono la Draghicrazia li hanno annunciati.
Conoscere il numero dei controlli, e delle esclusioni a seguito di irregolarità, è utile per dare un’idea del meccanismo. Secondo l’Inps su 4.359.359 domande tra aprile 2019 e il 15 settembre 2021, 1.215.251 (27,87%) sono state respinte. Altre 605.277, e cioè il 13,88% del totale delle domande sono decadute perché sono venuti meno i requisiti. I beneficiari non sono più rientrati tra i criteri di accesso al “reddito” per avere accettato un lavoro oppure modificato il loro patrimonio. Poi ci sono 123.816 domande revocate, per mancanza dei requisiti fin dall’origine.L’Inps, si legge in una nota, “collabora con tutte le forze dell’ordine, segnalando esso stesso le situazioni meritevoli di indagini che possono portare alla revoca della prestazione”.
Il problema dovrebbe, a questo punto, essere chiaro: ci sono pochi che approfittano dei diritti e sono in molti che subiscono le conseguenze della decisione di evitare che gli opportunisti continuino a truffare. Invece di stimolare l’autodeterminazione e la solidarietà tutti sono colpevolizzati e devono subire le conseguenze.
IL PARADOSSO di uno strumento di inclusione che esclude emerge clamorosamente da un altro dato. Il 40% dei 4.839 «irregolari» sono extracomunitari non residenti da 10 anni. Una norma del «Conte 1» che, fino a oggi, non è stata cambiata.
Alcuni casi possono dare l’idea della situazione. A Campobasso quattro persone hanno presentato domanda dichiarando, falsamente, di risiedere in strutture di accoglienza dove erano stati ospiti. Ora sono chiuse ma loro si erano allontanati e sono stati dichiarati “irreperibili”.
A Canosa di Puglia e a Trinitapoli, altri hanno falsamente dichiarato di avere la residenza in Italia da oltre 10 anni, risultando in realtà presenti da periodi molto più brevi e sono stati cancellati all’anagrafe. A Nova Siri (Matera), un cittadino proveniente da un paese asiatico ha dichiarato la presenza in Italia della moglie e delle due figlie. Questo gli avrebbe permesso, in assenza di un lavoro, di inviare una parte del suo sussidio alla famiglia nel paese d’origine. C’è anche il caso in cui sono gli italiani a usare minori stranieri per percepire il reddito.
A Collepasso (Lecce), un uomo ha dichiarato la presenza nel proprio nucleo familiare di sei minori stranieri mai censiti in quel comune, senza avere con loro alcun vincolo di parentela. Non ha indicato i dati anagrafici, il luogo di nascita e la nazionalità di queste persone.Lo avrebbe fatto per beneficiare personalmente dell’importo del sussidio. Ipotesi probabile e odiosa. E se invece lo avesse fatto per dare il reddito a persone che, da invisibili forse perché irregolari, vivono comunque nella zona?
Sono alcune storie di disperazione, bisogno e astuzie a cui si è costretti dalla necessità e da una politica che spinge a adottare comportamenti discutibili. Questo vale per i poveri di ogni nazionalità. A cominciare da chi non ha la residenza, è straniero ed è «invisibile»: senza documenti, o con un lavoro sfruttato, ma comunque senza reddito. La tripla pena di non avere «cittadinanza».
IL GOVERNO DRAGHI non sembra volere rimediare ai problemi del “reddito”. Anzi, nella legge di bilancio intende estendere l’elenco dei reati incompatibili con il sussidio e restringere i criteri delle politiche attive a cui la misura è legata, come in tutti gli schemi di Workfare. Lo ha confermato ieri il ministro del lavoro Orlando alla Camera.
Ciò produrrà altri esclusi tra chi, nel milione di «occupabili», non accetterà la prima offerta di lavoro “congrua” (entro 80 km da casa), subirà un taglio dell’assegno di 5 euro al mese per ogni mese. Sarebbero per ora esclusi coloro che percepiscono meno di 300 euro al mese per acquisti obbligati da fare con la tessere “di cittadinanza”. Chi rifiuterà la seconda offerta di lavoro da qualsiasi parte d’Italia perderà tutto il sussidio. Per impiegare a ogni costo i beneficiari si dà ormai il via libera al precariato anche per questa strada. Dovevano abolire la povertà, finiranno per aumentarla in tutte le sue dimensioni.
Sarà inoltre considerato più facilmente il lavoro part-time: basta che l’orario non sia sotto il 60% di quello dell’ultimo contratto (finora la soglia è dell’80%). Sul versante delle aziende private, per facilitare l’assunzione a tempo, si vuole fare scattare l’incentivo (decontribuzione) anche se l’assunzione non è stata comunicata al centro per l’impiego. Per tutti coloro, e saranno in molti, che resteranno in attesa di una “proposta che non si può rifiutare”, spetterà svolgere lavori gratuiti per i comuni. Se sarà approvata nella forma che vuole il governo, nel 2022 i comuni saranno obbligati a coinvolgere nei “progetti utili alla comunità” (Puc) almeno un terzo dei titolari del reddito residenti. Questa attività servile, giustificata formalmente con il “reddito” ma non con un contratto di lavoro, potrebbe sostituire il lavoro delle municipalizzate nella pulizia delle strade e dei giardini, tanto per fare un esempio.
E’ molto improbabile che questo inferno possa davvero prendere forma. Per diventare reale ha bisogno di un’enorme trasformazione amministrativa, a tutti i livelli. Probabilmente avverrà in alcune regioni, e in alcune città, e riguarderà una porzione di coloro che sono reputati “occupabili”. Al momento due terzi dei beneficiari del “reddito” non è reputato tale. In sostanza continuerà a percepire il reddito, colpito a ripetizione dalle solite campagne di stigmatizzazione.
In questo orizzonte si muove, incontestata, la politica. Sussidi destinati alle imprese, lavori senza contratto di lavoro, sussidi decrescenti, obbligo a cambiare città per lavori precari, stigmatizzazione sociale. Questo sistema si chiama Workfare, all’italiana.
Tratto da Il Manifesto edizione del