Non è rimettendo tutti al lavoro che si risolve la crisi dell’organizzazione dei lavoratori, non si tratta nemmeno di combattere la disoccupazione, non si tratta di fare passi in dietro, ma di passare avanti. Si tratta di dislocare lo sguardo sui territori, oltre il lavoro formale, verso la produzione diffusa. A fronte di questa situazione di arretramento del dibattito rispetto allo sviluppo della società si è iniziato a pensare una redistribuzione del reddito non più legata alla prestazione lavorativa e al tempo di lavoro formale. In questo campo le proposte sono molte, ma essenzialmente dividono due schieramenti contrapposti, quello neoliberale e quello radicale e antagonista. Per valutare l’efficacia delle proposte che in essi vengono avanzate è necessario provare a pensare gli scenari possibili che l’introduzione dell’una o dell’altra soluzione comporterebbero.
L’esistenza della forza lavoro precaria rinnova quelli che sono stati i dibattiti sul lavoro e sulla sua crisi, soprattutto sul lavoro come parametro centrale di riferimento per la redistribuzione della ricchezza socialmente prodotta. Il precariato ha messo in crisi il lavoro e le posizioni politiche che gli hanno dato centralità strategica, almeno di quelle posizioni che di esso hanno mantenuto una visione ristretta, cioè fondata sul tempo di lavoro formale piuttosto che sul tempo di produzione reale, sul tempo quantità piuttosto che sul tempo qualità della forza lavoro. I processi e i soggetti del postfordismo dovrebbero aver definitivamente tolto il velo all’inganno di un tempo di lavoro separato dal “tempo libero”, dal tempo di vita. Dovrebbero aver soprattutto ridimensionato il ruolo di istituzione di socializzazione degli individui che era attribuito al lavoro. Dovrebbero poi aver fatto comprendere la possibilità di pensare uno sviluppo della società e della socialità produttiva al di là della sfera del lavoro formale, e con essa la possibilità di una costituzione autonoma dei soggetti sociali oltre la società del lavoro. Eppure una parte del dibattito, soprattutto nella sinistra socialdemocratica europea, è rimasto agganciato al lavoro quale orizzonte prospettico su cui pensare lo sviluppo dell’individuo.
Quindi, partendo da questi presupposti “lavoristi”, si è aperto il ragionamento esclusivamente sulle ipotesi di redistribuzione attraverso la riduzione dell’orario di lavoro. Il lavoro è rimasto un riferimento inalterato per immaginare la redistribuzione della ricchezza. Se bisogna redistribuire la ricchezza vuol dire allora che bisogna redistribuire il lavoro, l’unico criterio oggettivo sulla base del quale questa operazione può avvenire. Ovviamente si tratta di un sillogismo fallace, perché vittima di un concetto ristretto di produzione, ristretto al valore formalmente prodotto nel tempo di lavoro. Ci sarà indubbiamente da salutare con entusiasmo ogni possibile riduzione di orario di lavoro (a parità di salario), ma sappiamo che non è attraverso di essa che si risolveranno le questioni poste dal precariato, né sarà con essa che si favorirà una rinascente mobilitazione e organizzazione dei lavoratori. Non è rimettendo tutti al lavoro che si risolve la crisi dell’organizzazione dei lavoratori, non si tratta nemmeno di combattere la disoccupazione, non si tratta di fare passi in dietro, ma di passare avanti. Si tratta di dislocare lo sguardo sui territori, oltre il lavoro formale, verso la produzione diffusa. Il salto paradigmatico del postfordismo dovrebbe portare a ragionare oltre il concetto di disoccupazione, verso un concetto di produttività integrale delle forme di vita. La società è già oltre il lavoro.
A fronte di questa situazione di arretramento del dibattito rispetto allo sviluppo della società si è iniziato a pensare una redistribuzione del reddito non più legata alla prestazione lavorativa e al tempo di lavoro formale. In questo campo le proposte sono molte, ma essenzialmente dividono due schieramenti contrapposti, quello neoliberale e quello radicale e antagonista. Per valutare l’efficacia delle proposte che in essi vengono avanzate è necessario provare a pensare gli scenari possibili che l’introduzione dell’una o dell’altra soluzione comporterebbero. Si possono prefigurare degli scenari rispetto sia 1) alle proposte di sussidio per i disoccupati, avanzate nel dibattito neoliberale[1], sia 2) di reddito sociale garantito, portate avanti, in varie forme e con differenti accenti, dall’area antagonista[2] e radical-riformista[3]. Si possono individuare criteri guida, moventi delle proposte, nonché prevedere alcuni loro effetti immediati in caso di applicazione. Si possono prevedere atteggiamenti prevalenti che esse comporterebbero, relazioni che potrebbero esserne stimolate. Si possono prefigurare possibilità alternative di soggettivazione. Di ogni proposta, considerata su quattro piani di ragionamento – sistenziale, politico, socio-economico, progettuale-, possono essere considerate ricadute e conseguenze assolutamente opposte. Il nostro interesse è giudicare le proposte in base all’effettualità che dovrebbero produrre, come ipotesi di lavoro politico, non come assunti a cui non è richiesta verifica. Come ipotesi di inchiesta-intervento.
1) Nell’area di dibattito neoliberale, in prima fila Milton Friedman, si discute la possibilità di introdurre un reddito minimo di sussistenza tale da garantire i livelli “minimi” di vita. Ogni disoccupato, oppure chi dimostra di vivere sotto una soglia “minima” oltre la quale si definisce il ‘regime di povertà’, riceve una somma di denaro che gli consente di sopravvivere. Il sussidio produce come effetto immediato ed evidente l’instaurazioni di relazioni di assistenza per il soggetto che ne usufruisce. Relazioni di subordinazione sia nei confronti del mercato, in quanto vittima sacrificale al regime di concorrenza, che dello Stato, in quanto ridotto a oggetto d’assistenza pubblica. La ricetta inglese e irlandese ne è ormai un caso emblematico e assai noto. Produce un soggetto che rimane necessariamente subalterno, non partecipe, dipendente. Il sussidio definisce automaticamente, per legge, uno standard di povertà entro il quale computare l’esclusione sociale, e si trasforma ben presto in uno strumento di controllo sociale. Gli iscritti alle ‘liste di disoccupazione’, o coloro che fanno richiesta del sussidio, per continuare a percepire l’assegno settimanale o mensile debbono dimostrare che il loro tenore di vita (consumi, proprietà, reddito) è sotto i criteri che la legge stabilisce come ‘soglia di povertà’. Oltre a subire il controllo sugli standard di vita i disoccupati assistiti finiscono per diventare una classe esclusa, la cui marginalità – formalizzata dall’iscrizione alle liste – diventa sempre più un limite in sé per la realizzazione personale. Il marginale è per forza di cose minore, di minor valore. Gli irlandesi, non senza una certa ironia, chiamano questo sussidio dole, “marciapiede”, e spesso sono restii ad accettarlo perché ne temono il carattere escludente. Una forma di carità sociale che imprigiona piuttosto che aiutare veramente. Il sussidio nasconde l’esistenza di uno strato di forza lavoro ridotta alla pressoché totale assenza di potere contrattuale, e comunque considerata potenzialmente “a rischio”, per usare una definizione alla moda. Calcolare gli esclusi, la loro incidenza, contenerli, è la funzione della social security, dell’assegno settimanale di disoccupazione. E’ una definizione dell’economia sociale su base poliziesca, una misura contigua a un certo modo di gestire il rischio attraverso la sorveglianza e il controllo diffuso.
2) Un reddito sociale che non differenzia tra disoccupati e occupati, che non si fonda sulla dicotomia incluso/escluso, ma garantisce un minimo per tutti, è invece ipotizzato da un area di dibattito politico radicale che negli ultimi anni è andata articolandosi su varie posizioni, dal riformismo radicale di Claus Offe (1989), André Gorz (1998) e Van Parijs (1992) all’ecologismo di Alain Lipietz (1997), dall’antiutilitarsmo di Alain Caillé (1991) e Serge Latouche (1998) al vasto dibattito italiano che ha origine nell’operaismo, o alla scuola della regolazione francese con Michel Aglietta. Qui, dando centralità ai contenuti immateriali del lavoro postfordista, alle nuove forme del lavoro precarizzato, s’intende il reddito sociale garantito come “reddito di cittadinanza universale e incondizionato, indipendente dalla prestazione lavorativa, per tutti e per tutte”, come a dire una quota fissa, non differenziata, comune per ogni cittadino residente, da percepire o integrativamente al salario o, in caso di inattività, come reddito primario. Il reddito di cittadinanza prevede, oltre a una retribuzione fissa e comune, anche la possibilità di usufruire di servizi sociali primari, gratuiti e garantiti, come la sanità, la formazione, la comunicazione, l’abitazione, gli spazi pubblici, l’accesso all’informazione. Così inteso questo reddito dovrebbe favorire la definizione di una base di lotta comune ai precari, generale quanto lo è divenuto il lavoro e lo sfruttamento. Il reddito di cittadinanza esige il riconoscimento qualitativo della produttività diffusa, generale, comune. Non distingue più l’assistente sociale del lavoro domestico, il ricercatore e il grafico dallo studente. Le figure del lavoro sociale si sovrappongono continuamente l’un l’altra. Il reddito permette la ricostruzione di un legame comune tra gli appartenenti alla società, un legame sempre più lacerato e soggiogato dai rapporti di concorrenza e dall’individualismo tanto da minare il fondamento stesso del vivere comune[4].
Le due proposte sono tra loro assolutamente antagoniste, si riferiscono a due orizzonti politici e puntano a produrre effetti di soggettivazione necessariamente opposti e inconciliabili, sottintendono due diverse antropologie: l’una tende all’individualizzazione dei rapporti sociali e alla separazione formale (l’antropologia del solipsistico soggetto del mercato); l’altra alla “messa in comune” della rivendicazione e alla costruzione di processi di ricomposizione sociale (l’antropologia della produzione sociale realizzata). Sono antagoniste in riferimento ai parametri e alle modalità di redistribuzione della ricchezza che prevedono. Esclusività o generalità sono i due parametri opposti di riferimento sui quali si differenziano queste due tendenze progettuali.
Si presentano almeno quattro punti decisivi a favore della battaglia per l’introduzione di un reddito di cittadinanza. Ognuno di questi punti si attesta su una dimensione del contesto ri-produttivo dei soggetti, ognuno in deciso antagonismo con le proposte di “sussidio agli esclusi” dei neoliberali.
1. Il reddito di cittadinanza riunisce ciò che il lavoro ha separato, ricostruisce un legame comune per il lavoro disperso
Là dove, per l’ipotesi neo-liberale, il sussidio si accompagna a politiche di separazione, nel reddito garantito si dispongono piuttosto punti di convergenza comuni, e ciò risponde a una dimensione organizzativa del reddito di cittadinanza, per la quale l’esistenza del precariato non significa dispersione e disorientamento, ma possibilità di ricomposizione e partecipazione.
Il reddito di cittadinanza può essere il mezzo e il presupposto per la ricostruzione di un legame comune per il lavoro vivo disperso territorialmente e socialmente. Attraversando la metropoli abbiamo dovuto parlare di lavoro sul territorio, di cooperazione spontanea diffusa, della potenza produttiva reale, abbiamo visto l’economia dislocarsi radicalmente sugli spazi e nei tempi della riproduzione sociale. Tutto ciò, a fronte di una crucialità del lavoro vivo sociale, comporta un indebolimento strutturale della forza lavoro rispetto al rapporto contrattuale e rispetto al comando e al controllo dell’impresa. In questo dislocamento sembrano essersi persi, o peggio essere divenuti impossibili, dei legami comuni che compongono un soggetto reale, con sue modalità e strategie, ma è proprio sulla ricostruzione politica di questi legami che l’intervento teorico-pratico deve orientarsi. Si deve definire un terreno comune a tutto il precariato, trovare i suoi bisogni generali. La tensione alla separazione tra inclusi ed esclusi che introdurrebbe il sussidio si rovescia qui in possibilità di ricomposizione, in possibile ricostruzione di un legame comune, una base di contrattazione generale e sociale contro l’individualizzazione del rapporto di lavoro.
Non andiamo forse cercando nei rapporti sociali un nuovo legame collettivo per un nuovo livello di rivendicazione, completamente dislocato rispetto alle contrattazioni di settore e di categoria, ormai inapplicabili e completamente raggirate dai padroni, una rivendicazione comunque al di là anche della frustrante condizione di impotenza che si determina con la sottomissione ai rapporti ‘individualizzati’ della flessibilità capitalistica? Non cerchiamo forse un punto focale, un momento comune che raccolga il precariato in tutte le sue forme? Mentre il rapporto col salario poteva essere colto dall’operaio dentro la fabbrica, sul posto di lavoro che qualificava l’apporto alla produzione complessiva, il reddito deve essere inteso su un livello di generalità della produzione capitalistica ancora superiore, sul livello più astratto di lavoro, oltre la categoria e il settore produttivo. Deve essere colto dove il lavoro è lavoro generico, precariato, singolarità qualunque. Questo essere singolarità qualunque è il carattere comune che unisce ogni precario, tutta la forza lavoro nella flessibilità realizzata. Dietro la richiesta di “professionalità” e di specializzazione si nasconde la ricerca e l’impiego da parte delle imprese di un lavoro altamente intercambiabile, plurimansionato, convertibile, tutt’altro dal “lavoro per una vita” di tipo fordista. A questo carattere comune del lavoro fa riferimento il reddito di cittadinanza, in quanto erogazione socialmente non differenziata di un reddito come base comune e universale. Un provvedimento generale per il lavoro “in generale”.
2. Il reddito di cittadinanza è uno strumento di protezione sociale contro il ricatto dell’esclusione, un freno alla corsa al ribasso del costo del lavoro
Là dove, per l’ipotesi neo-liberale, il sussidio fa parte di politiche di controllo sociale generalizzato e alla definizione per legge di uno strato di “senza futuro”, gli esclusi, il reddito garantito dispone invece il rifiuto possibile dell’intimidazione, e ciò risponde a una dimensione esistenziale del reddito di cittadinanza, per la quale la condizione di flessibilità non è più abbandono a una subordinazione ottenuta mediante ricatto, ma una possibilità di decisione, di scelta, una flessibilità del lavoro alle esigenze del soggetto, mai il contrario.
L’introduzione di un reddito di cittadinanza indipendente dalla prestazione lavorativa viene criticata perché considerata portatrice di elementi assistenzialistici, ma qui si tratta piuttosto di dare un riconoscimento al valore che ogni singolo rappresenta per la società, comunque. Un reddito indipendente dalla prestazione lavorativa garantisce la riproduzione sociale dell’esistenza di ognuno, della singolarità qualunque del lavoro vivo postfordista. Altrimenti senza non si vive. In un’economia che fa della discontinuità delle prestazioni lavorative il suo centro propulsivo le ricadute sulla riproduzione materiale dei soggetti non si fanno attendere. E’ stata intaccata la possibilità di darsi un progetto di vita, di immaginarsi il proprio futuro. Tutti i soggetti sono coinvolti nel processo di esclusione, quelli dentro e quelli formalmente fuori della prestazione lavorativa. L’esclusione è una violenza che si manifesta come ricatto, il ricatto per cui, se non si accettano condizioni sempre più precarie, si varca la soglia oltre la quale si è espulsi. E’ una minaccia incombente sulle vite che “cercano di farcela” spesso rinunciando a molti progetti personali.
Un reddito sociale garantito permette, non solo di non varcare mai la border line, come non è invece oggi per molti ex-lavoratori che si ritrovano a sopravvivere sui bordi della metropoli e della produzione, ma consente anche di mettere in dubbio la “convenienza” ad accettare le proposte di lavoro al ribasso. Il reddito garantito vuol dire, in questi casi estremi, ma comuni, avere comunque un potere minimo di discrezionalità, una possibilità di scegliere di rifiutare il ribasso del costo del lavoro. Una tendenza al ribasso ora assicurata dalla forte concorrenza reciproca tra la forza lavoro intorno a una disponibilità di posti sempre più flessibili, sempre più instabili e incerti. Se si accetta il ribasso perché non c’è alternativa: questo è un dispositivo di potere reale, un potere che costringe al lavoro con garanzie e condizioni retributive sempre più incerte. Per invertire le polarità del campo di forze deve essere garantita una soglia minima sotto la quale, non solo è inaccettabile vivere, ma è anche inaccettabile essere pagati, e di fatto sconveniente. Il reddito di cittadinanza fisso stabilisce questa soglia sotto la quale lo sfruttamento non è consentito, è un freno alla politica di ribasso del costo del lavoro e all’esclusione sociale. Qui il reddito di cittadinanza si coglie come reddito d’esistenza e come strumento per il contenimento dello sfruttamento.
3. Il reddito di cittadinanza è riconoscimento del carattere produttivo della vita sociale indipendentemente dal lavoro, riconoscimento del carattere sociale della produzione
Là dove per l’ipotesi neo-liberale il sussidio si accompagna a politiche d’esclusione dalla produzione, nel reddito garantito si dispone invece la ricomprensione della vita comune come interamente produttiva di valore, e ciò risponde a una dimensione socio-economica del reddito di cittadinanza, per la quale precariato non è quella miseria che ci viene rappresentata, ma ricchezza biopolitica del lavoro sociale.
E’ qui in questione il fatto che se i contenuti del lavoro presentano un carattere immediatamente sociale, allora si deve pensare a un intervento redistributivo della ricchezza che di questa “socialità” della produzione tenga conto, perché i precari sono la parte esclusa dal reddito e dal benessere, ma non dalla produzione. Quei contenuti sociali del lavoro dei servizi sono la trasfigurazione della sostanza del lavoro diffuso, del valore spontaneo prodotto in tutte le eccedenze dell’economia reale. Questo lavoro reale, ma non riconosciuto, della cooperazione sociale esige ora di essere retribuito socialmente. La socialità continuamente cede una ricchezza enorme senza che le venga garantito neanche il diritto alla sopravvivenza e alla riproduzione. I flussi di valore diffuso si concentrano nelle prestazioni lavorative singolari, ma valgono molto di più: hanno il valore delle virtù del vivere comune e del cooperare.
Le virtù comuni e immateriali sono la sostanza del lavoro postfordista, dell’economia dei servizi. La socialità, le affettività, la capacità di produrre e gestire le relazioni, ogni aspetto della soggettività, trovano una collocazione di valore nell’accumulazione postfordista. Ogni virtù soggettiva è una qualità potenzialmente produttiva. I precari sanno che il loro lavoro è produrre organizzazione, gestire processi, articolare comunicazione, sanno che questo è loro pagato. Sanno che ciò che viene pagato è una ricchezza diffusa che anche loro hanno appresa fuori dai corsi di “formazione al servizio” dell’impresa, sanno che è lì fuori dal lavoro che si gioca il loro lavoro. Lo sanno e dubitano dei confini: il tempo di vita e il tempo di produzione sono, per i precari, termini sovrapponibili, continuamente. Il reddito di cittadinanza indipendente dalla prestazione lavorativa disloca praticamente il concetto di ‘produttività’ sulla vita sociale, costringe al riconoscimento del valore del tempo di vita che è oltre il tempo di lavoro. E’ una rivendicazione adeguata alla fase di accumulazione flessibile del know how sociale, dove la flessibilità formale del tempo di produzione (tempo di lavoro) nasconde un processo di accumulazione del sapere sociale, del lavoro diffuso, un processo estensivo (capillare sul territorio vivo della metropoli) e intensivo (nello sfruttamento della prestazione individualizzata). Il reddito ricompone questi due livelli dello sfruttamento su un generico tempo di produzione sociale, un tempo multiplo e singolare, il tempo qualunque del precariato metropolitano. Questo tempo comune che ci viene privato, che ci viene pagato solo in quanto “privato”, solo come insieme di capacità professionali individuali, deve trovare un riconoscimento più generale, uno statuto adeguato alla socialità dei processi produttivi, evidentemente un reddito indipendente dalla prestazione lavorativa. Privato come tolto, tolto al sociale. Socializzare vuol dire diffondere, riconnettere. Il dare è qui un restituire.
4. Il reddito di cittadinanza, per tutto questo, è il centro focale su cui progettare una soggettivazione collettiva possibile del precariato, per costruire sulla crisi del lavoro, oltre la società del lavoro
Là dove per l’ipotesi neo-liberale il sussidio si accompagna a politiche d’assistenza e alla pratica della delega e dell’assistenza, nel reddito garantito si aprono piuttosto possibilità di autocostituzione autonoma, e ciò risponde a una dimensione progettuale del reddito di cittadinanza, per la quale il precariato non è più una condizione in cui sopravvivere, ma un costruirsi del lavoro sociale.
Un reddito garantito può prospettare un’emancipazione dalle forme di dipendenza sociale, soprattutto per i giovani (per rendersi indipendenti dalla famiglia), i migranti (per fare a meno del ricatto, da una parte, e dell’assistenza, dall’altra) e le donne (per superare definitivamente i residui dei vincoli patriarcali), soprattutto per i soggetti che sono oggi anche i meno pagati, oltre che i meno occupati, meno garantiti da questo assetto sociale, quindi più dipendenti. La società del lavoro discrimina, rende subalterni a un regime dispotico di selezione sociale, tutt’altro che l’utopia realizzata della “società aperta”. Poter contare su un reddito garantito vuol dire invece avere possibilità di liberare tempo, di crearsi spazi collettivi, di decidere propri progetti. Possibilità di dedicarsi ad attività liberamente scelte. La creatività sociale ci stupirebbe della sua capacità di trovarne di più varie. Chi ha paura che i corpi liberi dal lavoro possano muoversi, incontrarsi, convergere? Chi ha paura della creatività sociale? Chi vuole opporre alla libertà dal lavoro ancora il moralismo del “lavoro che educa l’uomo”? Chi è che organizza sotto questa dottrina morale il regime di dipendenza reale, effettiva, la subordinazione al lavoro? Domande inevitabili, perché è rispondendo a esse che forse si viene a capo di qualche fraintendimento, occasionale o voluto, sulla questione del reddito di cittadinanza.
Perché dovrebbe essere una preoccupazione la possibilità di uno sviluppo della società al di là del lavoro? La libertà genera ricchezza. Più spazi liberi si chiudono, più viene avvilita l’intelligenza collettiva, la sua creatività. L’inibizione delle possibilità di sviluppo autonomo si trasforma presto in implosione delle tensioni sociali, in contrazione dell’intelligenza di massa, asservimento, clientela, sottomissione, rabbia impotente, senza direzione, autoriflessiva, l’auto–da-fè sociale che annusiamo ogni giorno intorno a noi, lungo i bordi della metropoli. Il reddito di cittadinanza dovrebbe muoversi sul piano della ricchezza e della libertà, su una possibilità di soggettivazione che non sia necessariamente quella che intende il mercato e il lavoro. Il lavoro educa alla subordinazione, questo sperimentano i precari nel dispotismo dei turni flessibili, dei pagamenti troppo differiti, nel livello di isolamento soggettivo e di debolezza nel rapporto con l’azienda. Sanno che vorrebbero sottrarre tempo al lavoro, ma che invece questo è anche troppo poco, mai sufficiente per garantirsi un reddito adeguato alla realizzazione dei propri progetti di vita. Qualcuno incomincia a definire “diritto” il reddito garantito. Un reddito di cittadinanza incondizionato, senza restrizioni né per genere, né per etnia, né per età, né per posizione rispetto al lavoro, né per quant’altri criteri di separazione possono essere pensati per dividere la moltitudine del lavoro precario. Il reddito garantito è il presupposto per l’esodo al di là della società del lavoro. Questo è un bene, un bene comune.
Reddito di cittadinanza non vuol dire immediatamente liberazione dal ricatto del lavoro salariato, certo. Può servire, però, per articolare un discorso politico, o biopolitico, sul rapporto capitale/lavoro vivo, un’azione e una proposta che siano all’altezza dei processi. Può fornire nuovi punti d’osservazione. Il precariato è la parte maggioritaria della forza lavoro, intercambiabile in quanto alla mansione, immateriale in quanto ai contenuti, flessibile in quanto alla prestazione. Non scompare il contratto a tempo indeterminato o comunque restano forme di fidelizzazione a lunga durata, ma come privilegio degli addetti amministrativi di alto livello e dei tecnici professionali, altamente specializzati e qualificati, che si ergono sopra l’enorme bacino di forza lavoro invece precarizzata. Il posto fisso resta come parametro dell’esclusione e del privilegio.
I precari, questi soggetti in tensione tra lavoro e non lavoro, sulla soglia che unisce produzione e vita, sono oggi la parte assolutamente più consistente della forza lavoro, e se così è non si possono più ignorarne bisogni specifici e istanze. Ripensare il lavoro deve significare ripensare la lotta contro il lavoro, contro quel lavoro la cui consistenza sperimentiamo come violenza, separazione, imposizione. Il lavoro non produce più ricchezza, è più soltanto la camera di contenzione nella quale si perdono le forze attive del proletariato. Bisogna diradare le nubi che si addensano sulla vita dei precari, spingersi oltre il ricatto implicito nello slogan trionfante: “lavoro o morte!”. Il reddito di cittadinanza può porre un piano reale del rapporto tra capitale e lavoro vivo, il piano della generalità del lavoro diffuso, precario e immateriale, locale eppure globale. Il piano di una vita che è già oltre il lavoro, che è già produttività del non-lavoro. Bisognerebbe affermare questo ripensamento praticamente. La lotta per l’introduzione di un reddito di cittadinanza è un punto di partenza, ma non è scontata la vittoria. Un sussidio per l’esclusione sociale è scontato che dovrà essere introdotto: i neoliberali lo sanno già, ritardano solamente, finché si può. Viceversa, l’introduzione di un reddito indipendente dalla prestazione lavorativa e incondizionato, il riconoscimento di una redistribuzione sociale per le moltitudini, non è per niente certa. Di nuovo si tratta di scegliere tra un paradigma della miseria e un’economia della ricchezza, tra la soggezione e l’autonomia. Si tratta di scegliere.
Quattro obiettivi politici per quattro scenari sociali sul reddito garantito
A. B. Scenari
Prospettiva organizzativa
Conseguenze esistenziali
Effetti
socio-economici
Possibilità progettuali
Sussidio
per i disoccupati
Separazione: politiche
di separazione
tra inclusi ed esclusi, sancisce
la separazione dentro la società
Sottomissione:
soggezione
al controllo diffuso e alla concorrenza,
gli esclusi
come categoria
“a rischio”
Esclusione:
emarginazione
dal tempo formale
di produzione
(tempo di lavoro), esclusione
dalla vita sociale
Assistenza:
delega
e assistenzialismo, inibizione
a definizione
di progetti singolari e collettivi
Reddito
di
cittadinanza
Ricomposizione:
aggregazione
del lavoro sociale precarizzato
intorno a un asse
di rivendicazione comune
Discrezionalità: rende possibile
la scelta
soggettiva
contro la coazione
al ribasso
della retribuzione
Riconoscimento comune: riconoscimento
della produttività sociale e diffusa
del lavoro vivo,
una base comune
Autonomia: disposizione
e apertura di spazi
di autonomia soggettiva,
liberazione
di tempo dal lavoro
Bibliografia sul reddito di cittadinanza:
Aa.Vv., La democrazie del reddito universale, Roma, manifestolibri, 1997
Aglietta M.,Regolazione e crisi del capitalismo, in Aglietta M., Lunghini G., Sul capitalismo contemporaneo, Bollati Boringhieri, Torino, 2001
Aznar G., Lavorare meno per lavorare tutti, Roma, manifestolibri, 1994
Bihr A., Dall’assalto al cielo all’alternativa: la crisi del movimento operaio europeo, BSF, Pisa,1995
Caillé A., Critica della ragione utilitaria. Manifesto del Movimento antiutilitarista nelle scienze sociali, Torino, Boringhieri, 1991
Fumagalli A., Lazzarato M., Tute bianche. Disoccupazione di massa e reddito di cittadinanza, DeriveApprodi, Roma, 1999
Gorz A., Il lavoro debole, Roma, Edizioni Lavoro, 1994
Miseria del presente, ricchezza del possibile, manifestolibri, Roma, 1998
Latouche S., Il mondo ridotto a mercato, Roma, Edizioni Lavoro, 1998
Laville J. L., L’economia solidale, Torino, Boringhieri, 1998
Lipietz A., La societé en sablier. Le partage du travail contro la chirure sociale, La Decouverte, Paris, 1997
Mantenga A., Tiddi A., Reddito di cittadinanza verso la società del non lavoro, Castelvecchi, Roma, 2000
Offe C., Il bisogno di rifondazione dei principi della giustizia sociale, in «Inchiesta», n. 83-84, anno XIX
Palermo C., Reddito di cittadinanza e lavoro sociale, in «Riff Raff», Marzo, 1994
Tiddi A., Precari. Percorsi di vita tra lavoro e non lavoro, Roma, DeriveApprodi, 2002
Van Parijs P., Arguing for Basic Income, Verso, London, 1992
[1] Per le posizioni neoliberali sul reddito minimo garantito vedi: Dahrendorf R., Per un nuovo liberalismo, Bari, Laterza, 1988
[2] Per le tesi di area antagonista e post-operaista vedi: Aa. Vv., La democrazie del reddito universale, Roma, manifestolibri, 1997; Palermo C., Reddito di cittadinanza e lavoro sociale, in «Riff Raff», Marzo, 1994; Mantenga A., Tiddi A., Reddito di cittadinanza verso la società del non lavoro, Castelvecchi, Roma, 2000; Fumagalli A., Lazzarato M., Tute bianche. Disoccupazione di massa e reddito di cittadinanza, DeriveApprodi, Roma, 1999.
[3] Per le tesi radical-riformiste vedi: Gorz A., Miseria del presente, ricchezza del possibile, manifestolibri, Roma, 1998; Aznar G., Lavorare meno per lavorare tutti, Roma, manifestolibri, 1994; Offe C., Il bisogno di rifondazione dei principi della giustizia sociale, in «Inchiesta», n. 83-84, anno XIX; Van Parijs P., Arguing for Basic Income, Verso, London, 1992; Bihr A.; Dall’assalto al cielo all’alternativa: la crisi del movimento operaio europeo, BSF, Pisa, 1995.
[4] “Una società puramente individualistica”, ci ricorda Michel Aglietta (2001), “non può esistere; dev’esserci una base comune di solidarietà. Questa base comune è costituita in primo luogo dalla soddisfazione dei bisogni fondamentali dai quali nessuno dev’essere escluso e che devono dunque essere assicurati dai sistemi pubblici o con garanzie pubbliche. Concerne anche la giustizia sociale sotto forma di una fiscalità redistributiva che mantenga la gerarchia dei redditi entro i limiti accettati dalla popolazione” (35-36).