In Italia qualunque intervento di sostegno diretto al reddito incontra, come ben sappiamo, notevoli difficoltà, in primo luogo culturali. Nonostante il tasso di attività nel nostro Paese sia tra i più bassi a livello europeo, resta radicata un’etica del lavoro di calvinistica memoria, che considera immorale qualunque sostegno al reddito slegato dall’obbligo di una prestazione lavorativa.
Una posizione particolarmente tenace nell’ambiente sindacale e della sinistra, ancorate spesso a visioni novecentesche. Non ci stupisce: il ritardo culturale nel comprendere le profonde trasformazioni dei processi di valorizzazione e del mercato del lavoro da parte delle tradizionali forze politiche di centro-sinistra (nonostante alcune lodevoli eccezioni) è evidente. Riscuote ancora molto consenso l’idea che dare reddito a chi si trovi in condizioni di povertà non aiuti i soggetti a uscire da tale situazione, anzi favorisca il loro permanere in quella che viene definita la “trappola della povertà”.
Quando oggi si parla di giovani Neet (Not in education, employment and training), comunemente si pensa a una schiera di giovani fannulloni, perditempo, bamboccioni, viziati (choosy). Dare loro reddito significherebbe favorire tale situazione, invece che spronarli a essere attivi e utili (ma per chi?) secondo una logica auto-imprenditoriale di se stessi.
Purtroppo le cose non stanno andando come descrivono gli apologeti di tali posizioni. Le mutate condizioni del lavoro ci dicono che oggi è imperante non la trappola della povertà (una conseguenza) ma la “trappola della precarietà”, ovvero una situazione che rende del tutto subalterna e ricattabile parte della forza lavoro attiva, creando una sorta di nuovo esercito industriale di riserva non più esterno al mercato del lavoro ma interno (con l’effetto di dumping sociale che ben conosciamo).
Ed è proprio questa situazione che è la prima causa del declino economico dell’Italia. I dati sono impietosi. Il 26 novembre, addirittura l’Ocse (sempre prona a denunciare la presunta rigidità del mercato del lavoro italiano e la necessità di politiche d’austerity) afferma che il destino dei precari italiani sarà un futuro di anziani poveri, “homeless”.
In contemporanea, la dinamica dei salari italiani segna il passo. In media in Italia nel 2012 un lavoratore guadagna 28.900 euro, pari a 38.100 dollari. Il salario medio dei paesi dell’Ocse è 42.700 dollari. In Svizzera il salario medio è 94.900 dollari, in Norvegia 91mila dollari, in Australia 76.400 dollari, in Germania 59mila dollari, in Regno Unito 58.300 dollari e negli Stati Uniti 47.600 dollari. Ai livelli più bassi ci sono i messicani con 7.300 dollari e gli ungheresi con 12.500 dollari.
Tutto ciò accade in un contesto con un tasso di disoccupazione ufficiale al 12,4% che potrebbe superare il 20% qualora ad esso si aggiungessero gli scoraggati. Tale differenziale è anche conseguenza del fatto che in Italia sono circa 9 milioni (5 milioni di persone che hanno bisogno di lavoro e 4 milioni di precari) coloro che oggi si trovano in sofferenza di reddito. Non è un caso che tale cifra coincida con il numero di coloro che in Italia percepiscono un reddito al di sotto della soglia di povertà relativa.
Questa è la trappola della precarietà, la vera emergenza italiana.
A fronte di questa realtà – che descrive una nuova composizione del lavoro vivo e la svalorizzazione del lavoro – le forze sociali (sindacati e partiti istituzionali della sinistra) fanno orecchie di mercante o mettono la testa sotto la sabbia, come gli struzzi.
Sappiamo bene che in Italia, al pari della Grecia e dell’Ungheria, non esiste nessuna misura di reddito di ultima istanza. Esistono, invece, gli ammortizzatori sociali, eredità del condizione lavorativa del periodo taylorista: strumenti che oggi sono diventati misure selettive, distorte, inique e spesso clientelari, non più in grado di garantire sicurezza sociale a tutti coloro che, precari, inoccupati, lavoratori stabili a basso reddito, ne avrebbero bisogno e teoricamente diritto. Strumenti che fanno comodo sia ai sindacati che alle organizzazioni padronali. Oggetto di concertazione sociale che permette ai primi di legittimare la propria presenza nei luoghi di lavoro, ai secondi di scaricare socialmente i costi di ristrutturazione aziendale.
E’ in questo contesto che viene oggi proclamato, come misura innovativa quasi di rottura (sic), l’introduzione di una misura di reddito minimo di inserimento. Preannunciata dal vice-ministro dell’economia Stefano Fassina in un’intervista a Il Manifesto del 15 novembre, è stata inserita nel maxi-emendamento su cui si chiede il voto di fiducia per approvare la legge di stabilità per il 2014.
Si tratta della costituzione (in via sperimentale, quindi temporanea) di un fondo di contrasto alla povertà (si chiama, ufficialmente, “reddito minimo di inserimento”) per le sole aree metropolitane. La copertura arriverà dall’allargamento della platea delle cosiddette. “pensioni d’oro” per le quali scatterà il contributo di solidarietà: si partirà da 90mila euro. Il reddito minimo, stando alle prime indiscrezioni, verrebbe concesso a giovani e a disoccupati che accettino però di intraprendere un percorso (formazione e impieghi attinenti a quelli già svolti in passato) per il reinserimento nel mondo del lavoro. A quanto dovrebbe ammontare tale reddito minimo di inserimento, non è invece ancora chiaro. La somma stanziata è 40milioni! Ricordiamo che in Italia è in vigore la “Social Card” (che consente l’acquisto di beni in natura) in 12 città scelte, Milano, Torino, Venezia, Verona, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Napoli, Bari, Catania e Palermo, per un ammontare di risorse stanziate superiore, pari a 50 milioni di euro. E non stupisce che i 40 milioni stanziati confluiscano nello stesso fondo della Social Card!
Un reddito minimo dato alle famiglie e non agli individui (l’etica calvinista del lavoro italiana lascia qui spazio alla sua natura cattolica) e del tutto insufficiente a far fronte ai bisogni dei 9,560 milioni di persone che vivono al di sotto della soglia di povertà relativa. Un’elemosina che sa di presa in giro! Calcoli esistenti ci dicono che la somma necessaria, al netto di quanto già lo Stato eroga sotto forma di reddito diretto, ammontava a circa a 10 miliardi nel 2011, somma che oggi, in seguito all’aggravarsi della crisi, arriva a sfiorare i 19 miliardi. Tale misura può essere finanziata tramite un intervento sul sistema fiscale che miri ad una più equa distribuzione delle tasse e a un riesame delle politiche di spesa, che può essere del tutto sostenibile anche all’interno dei vincoli di bilancio imposti dalla troika finanziaria.
A fronte di questi dati, è evidente che l’introduzione di una misura di reddito minimo d’inserimento assume le forme di un ulteriore controllo sociale all’interno di una concezione workfaristica delle politiche sociali, finalizzate a mantenere lo status quo di ricattabilità della lavoro vivo, contraria a qualsiasi possibilità di diritto di scelta del lavoro e di autodeterminazione.