L’approvazione nella Regione Campania di una legge regionale istitutiva del “reddito di cittadinanza” offre alla redazione della rivista Infoxoa lo spunto per analizzare i limiti e le opportunità degli interventi regionali in tema di garanzia del reddito. E’ sottolineata l’esigenza di far assumere e conquistare finalmente alla battaglia per il reddito garantito una compiuta visione strategica.
L’iniziativa sia politica che sindacale, sia istituzionale che di movimento, si sta sempre più orientando intorno alla possibile introduzione di un reddito garantito. In effetti uno sguardo anche sommario ai dati che quotidianamente vengono diffusi sull’economia italiana convince sempre più della necessità e dell’urgenza di una grande operazione di redistribuzione del reddito.
I dati ufficiali (Istat, Censis, Banca d’Italia), infatti, parlano chiaro: il dualismo caratterizza in maniera crescente la società italiana. Le disuguaglianze si approfondiscono e si rafforzano, riguardano in primo luogo il reddito, e poi, in modo ancor più netto, la ricchezza complessiva (case, terreni, titoli, azioni, eccetera).
E’ assai elevato, ad esempio, il livello di concentrazione dei redditi: il 10% delle famiglie a più basso reddito percepisce solo il 2,1% dei redditi nazionali, mentre il 10% delle famiglie più ricche percepisce il 26,6% del totale.
Ma è soprattutto il livello di concentrazione della ricchezza netta familiare che evidenzia l’andamento a forbice dell’economia italiana. La ricchezza netta infatti risulta più concentrata rispetto al reddito: il 10% delle famiglie più ricche possiede quasi la metà (47%) dell’intero ammontare di ricchezza netta. Dai dati emerge che il 19,5% delle famiglie possiede una ricchezza inferiore a 10 mila euro, a fronte di un 22,2% che ne possiede una superiore ai 200 mila euro. Per le famiglie che guadagnano tra i 10 e i 20 mila euro all’anno, la ricchezza è sui 70 mila euro (quasi 5 volte il reddito annuo); mentre per le famiglie con reddito superiore a 40 mila euro all’anno, la ricchezza è sui 500 mila euro (ossia 8 volte il reddito medio). Se poi osserviamo l’andamento dei consumi notiamo che si è avuto in realtà il crollo dei soli consumi di fascia media mentre si è verificato un aumento dei consumi di lusso. Solo per fare qualche esempio, nel 2002 si sono vendute imbarcazioni private, tra motoscafi, yacht, supergommoni e barche a vela, per il valore di 413 milioni di euro. Di questi 413 milioni, 258 (quindi oltre la metà) vengono dalla vendita di imbarcazioni definite medio-grandi. E ancora, nell’anno della grande crisi Fiat, mentre la domanda di mezzi di trasporto per la media italiana è scesa del 2,8% in termini reali, l’acquisto di auto nel settore di lusso è balzato del 3,54%. Tanto per fare qualche numero: nel 2002 si sono vendute 381 Ferrari. Prezzo di una Ferrari: dai 131 mila ai 204 mila euro. Insomma, non è che non ci sia ricchezza, semplicemente non c’è redistribuzione.
Prendendo come riferimento quattro categorie di spesa quali abitazione, alimentari, sanità e trasporti si nota che queste assorbono il 63,6% della spesa complessiva delle famiglie di imprenditori e liberi professionisti, il 69,3% di quelle degli operai e il 75,2% di quelle dei pensionati.
Non ci stupisce dunque che in un contesto di raffreddamento delle spese aumenti il ricorso al credito al consumo, cresciuto nel 2003 del 19% rispetto all’anno precedente. Il ricorso al credito negli ultimi due anni ha coinvolto sempre più famiglie: quasi il 20%. Chi ha contratto debiti lo ha fatto principalmente per acquistare un’automobile (34%), elettrodomestici (6%) o mobili (5%). Ma c’è anche chi ha dovuto chiedere prestiti per arrivare alla fine del mese (32%). Del resto, negli ultimi quattro anni i prezzi dei principali servizi di pubblica utilità sono quasi tutti cresciuti: il prezzo del gas è aumentato dell’8,8%, quello dei pedaggi autostradali del 6,7%, quello dell’energia elettrica del 17,2%. Il prezzo dei trasporti sia ferroviari che aerei è aumentato di più del 10%, mentre le tariffe dei trasporti pubblici locali hanno avuto un aumento del 20%.
Rispetto alla media europea spendiamo il 29,2% in più per inviare posta prioritaria, il 13,2% in più sulla bolletta dell’elettricità e il 4,5% in più su quella del gas. Anche viaggiare in treno ci costa circa il 4,1% in più rispetto agli altri paesi europei. Si vede perciò che il carovita incide principalmente sui beni essenziali e di largo consumo: l’inflazione contribuisce quindi a rafforzare le tendenze in atto alla polarizzazione dei redditi.
Della necessità di porre un freno a questa evoluzione della società italiana è indicativo il fatto che alcune forze politiche della sinistra hanno depositato in Parlamento, delle proposte di legge in tema di reddito e di protezione sociale. I lettori più attenti di questa rivista ricorderanno l’analisi che di quelle proposte abbiamo tentato nello scorso numero (vedi Infoxoa 17).
Il fatto nuovo che ci spinge oggi a ritornare sull’argomento è l’approvazione nella Regione Campania di una legge intitolata “Istituzione in via sperimentale del reddito di cittadinanza” e l’iniziativa di alcune forze politiche istituzionali e non, che hanno presentato proposte anche in altre regioni italiane.
Intendiamo a questo punto, visto l’animarsi del dibattito in corso, fare alcune osservazioni su tre diversi aspetti della questione: 1) sui limiti intrinseci delle proposte regionali in tema di reddito; 2) sugli aspetti critici delle legge regionale campana; 3) sulle linee guida che potrebbero ispirare un dibattito coerente e praticabile.
I limiti della legislazione regionale in tema di reddito garantito
In tema di polarizzazione dei redditi e della ricchezza va rilevato che le disuguaglianze crescenti hanno anche una rinnovata caratterizzazione territoriale. In tutte le Regioni del centro-nord il reddito familiare supera la media nazionale, mentre nelle Regioni del sud e nelle isole si riscontrano i valori più bassi della media; gli indici riferiti al reddito pro-capite mostrano una variabilità territoriale ancora maggiore, visto che le regioni meridionali più povere sono anche quelle con maggior numero medio di componenti per famiglia. La famiglia italiana risulta mediamente formata da 2,78 componenti; è più numerosa nelle regioni meridionali (oltre 3 componenti per famiglia in Campania, Puglia, Basilicata, Calabria e Sardegna) rispetto a quelle settentrionali. Ma è interessante notare che il numero medio di percettori di reddito per famiglia, pari per l’Italia a 1,74%, si aggira su valori poco superiori a 1,50 per Sicilia, Campania, Puglia, Basilicata e Calabria.
E’ noto inoltre che sia la disoccupazione sia le sacche di povertà sono localizzate prevalentemente nelle zone meridionali del paese. A ciò si aggiunga che la spesa statale pro-capite destinata ai residenti nel mezzogiorno, per i settori dell’istruzione, della previdenza, dell’edilizia pubblica o della sanità, è sensibilmente inferiore sia rispetto alla media nazionale sia rispetto alla quota di spesa destinata ai cittadini del nord Italia.
A fronte di questi dati è facile concludere che una più equa ripartizione delle risorse non può avvenire che a livello nazionale: le regioni povere, infatti, partendo da un livello inferiore di ricchezza, non potranno che ripartire quote di povertà. A ciò va aggiunta la intrinseca stravaganza di una legge regionale in tema di reddito garantito. Non vi è infatti esempio in Europa di un singolo Land, o di una singola Regione o Provincia, che abbia introdotto in modo autonomo una riforma economico-sociale tanto importante quanto quella relativa al reddito sociale o al sussidio di disoccupazione. E’ una particolarità tutta italiana questa recente pretesa di dare risposta in ambito locale a questioni e problematiche che richiederebbero, se seriamente affrontate, un complessivo investimento di tutto il peso politico e finanziario dello Stato. Che ce ne faremmo, inoltre, di un reddito garantito in una sola regione, se anche fosse il più estensivo e generalizzato possibile? Sarebbe accettabile uno spezzettamento dei diritti e delle garanzie in zone diverse del territorio nazionale?
Voler parlare di “reddito di cittadinanza in una sola regione” rappresenta il lato più deteriore del federalismo, perché obbliga le popolazioni a confrontarsi con un potere (quello regionale) troppo limitato e troppo piccolo, incapace di affrontare e risolvere le grandi questioni sociali.
La legge regionale campana
Per quanto attiene allo specifico della legge campana sul reddito sottolineiamo, in primo luogo, la scorrettezza dell’intitolazione della legge, che fa riferimento, in modo del tutto abusivo, al “reddito di cittadinanza”, mentre sarebbe stato più giusto intitolarla al “reddito minimo d’inserimento”. Non si tratta ovviamente di alimentare una sterile polemica terminologica, quanto di pretendere a tutti i livelli una chiarezza politica e teorica, utile ad evitare fraintendimenti.
Cos’è infatti il reddito di cittadinanza? E’ un reddito universale e incondizionato, erogato alla generalità della popolazione, indipendente dal lavoro, sommabile con altri redditi da lavoro, da impresa o da rendita; è un vero e proprio reddito di esistenza che si propone di liberare “l’essere umano in quanto tale” dall’obbligo del lavoro, dando linfa a tutte quelle potenzialità di cooperazione tra gli individui svincolate dal rapporto produttivo capitalistico, che rimangono oggi compresse tra le pieghe degli assetti sociali dominanti.
Il reddito minimo elaborato per la Campania è invece una misura destinata ad alleviare le forme più estreme di povertà e di emarginazione sociale. E’ una erogazione particolare (nient’affatto universale) e assai condizionata nei suoi presupposti di accesso e di decadenza. Ebbene, non vi è dubbio che la legge campana rientra alla perfezione nel modello del “reddito minimo di inserimento”, nulla avendo a che spartire con il “reddito di cittadinanza o di esistenza”. La platea dei beneficiari è individuata infatti secondo criteri assai restrittivi: solo le famiglie con un reddito complessivo inferiore ai 5 mila euro annui possono accedere alla misura. Inoltre, ed è l’aspetto che desta maggiori perplessità, rimane del tutto aleatorio sia l’ammontare dell’erogazione sia l’individuazione specifica dei beneficiari. Infatti la famiglia con redditi inferiori ai 5 mila euro sono legittimate soltanto a presentare la domanda di sussidio, senza alcuna garanzia in ordine all’effettiva erogazione.
E’ incerto, dunque, sia il se sia il quanto della misura. La Giunta regionale è delegata a diramare un regolamento di attuazione che, in base alle domande di sussidio pervenute e in base alle risorse disponibili, provvederà all’individuazione concreta degli aventi diritto. A queste famiglie verrà attribuita una somma da 0 a 350 euro mensili, variabile in relazione allo stato di bisogno concretamente individuato.
E’ evidente il rischio di ulteriore frammentazione sociale che è sotteso a questo meccanismo legislativo. Non vi è neanche la minima generica affermazione di un diritto: non si dice, neppure tra le righe, che tutti e tutte hanno diritto, lavoro o non lavoro, a un reddito sufficiente a condurre una vita libera e dignitosa. L’intervento campano resta confinato in una logica di gestione della povertà e non dà risposta alcuna al principale bisogno del precariato diffuso, ossia la garanzia di reddito.
L’urgenza di una rivendicazione che si concentri sulla richiesta di un reddito garantito dipende dalla necessità storica attuale di ricomporre su un medesimo livello di lotta le differenti soggettività che vivono la precarietà come condizione egemone, superando la frammentarietà e la particolarità delle singole realtà e assumendo un riferimento più generale e comune, un reddito per tutti, appunto. La lotta per il reddito garantito si configura, quindi, come lotta generale dei precari, una lotta per tutti, un terreno agibile, sia nel senso che su di esso è possibile indirizzare le lotte dei precari e trovare una intenzione comune al disagio della precarietà, sia nel senso che, una volta che questo reddito venisse finalmente riconosciuto, ci sarebbe una base comune per una lotta di rilancio rivendicativo per l’aumento della quota comune di reddito.
La questione del reddito garantito rappresenta un rilancio dell’iniziativa di lotta esattamente per questi due motivi, essa rappresenta un nuovo livello di scontro tra capitale e lavoro vivo, generale quanto lo è ora la produzione, alludendo ad una redistribuzione sempre più sociale di fronte ad una produzione ormai ampiamente socializzata. A questo fine il riconoscimento di un reddito garantito indipendente dalla prestazione lavorativa dovrebbe essere in grado di aprire possibilità di lotta, piuttosto che chiudere i precari in una nuova gabbia “dorata” (come accade con i sussidi di disoccupazione per i poveri).
Accorgimenti
Dall’analisi degli elementi critici individuati nel modello campano emergono le linee guida che dovrebbero, a nostro avviso, essere tenute in considerazione nel dibattito come accorgimenti minimi. Occorre dire, in primo luogo, che la Regione, in considerazione della sua limitata capacità di spesa non è in grado di garantire in modo compiuto la tutela del reddito. Quindi l’iniziativa regionale deve mantenere un esplicito ruolo sussidiario rispetto a una legge nazionale, se non addirittura di carattere europeo, sul diritto al reddito. Ciò anche perché, come stabilito dall’articolo 117 secondo comma lettera m della Costituzione, rimane ferma la competenza statale esclusiva nella “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”.
Non capiamo perchè si stia attribuendo alle singole Regioni il compito dell’erogazione di reddito in forma monetaria e “diretta”; esse dovrebbero, piuttosto, concentrare il loro intervento sulle forme di “reddito indiretto”, ossia su quei servizi necessari e primari che rientrano pienamente nella loro competenza esclusiva, o al limite integrare un’erogazione proveniente da un livello nazionale o europeo. Le Regioni, per esempio, hanno piena autonomia in tema di edilizia residenziale pubblica quanto alla programmazione delle risorse finanziarie, quanto alla determinazione delle linee di intervento e, soprattutto, quanto alla fissazione dei criteri per l’assegnazione degli alloggi. In riferimento ai trasporti, eccezion fatta per le percorrenze medio-lunghe, è affidata alle Regioni la programmazione e la gestione, ad esempio, di tutto il trasporto ferroviario normalmente utilizzato dai pendolari; le Regioni possono, altresì, conferire deleghe in questa materia alle Province e ai Comuni. Anche per ciò che concerne la formazione e, in generale, l’accesso al sapere, anche se la competenza generale per ciò che riguarda l’istruzione rimane attribuita allo Stato, è comunque abbastanza estesa la possibilità di intervento dell’ente regionale; è ipotizzabile, quanto meno, una rimodulazione della tassa regionale per il diritto allo studio universitario, oltre che una revisione dei criteri di accesso ai corsi di formazione regionale. Assai incisiva, inoltre, è la competenza delle Regioni in ambito sanitario, tanto che le recenti riforme hanno finito per svuotare di pressoché qualsiasi contenuto reale il Servizio sanitario nazionale, ormai sostituito dalle attività dei vari Servizi sanitari regionali; a fronte di simile competenza spetterà alle Regioni stabilire, per esempio, le esenzioni dal pagamento dei ticket e delle prestazioni mediche in genere.
A tutto questo va aggiunto l’ulteriore potere di programmazione generale che consente alle Regioni di coordinare e di integrare l’azione di tutti gli altri enti locali (Province, Comuni, Aree metropolitane, Comunità montane, eccetera). La Regione può dunque intervenire ed incidere in vari modi: coordinando l’azione degli enti locali, mettendo a disposizione fondi per pagare i servizi ai meno abbienti, stipulare convenzioni ad hoc con le aziende che erogano, talvolta in regime di monopolio, i servizi legati ai trasporti o alla sanità.
Il complesso delle competenze regionali individua un pacchetto di diritti sociali, quali l’alloggio, la mobilità, la salute, la formazione, niente affatto secondari se si ragiona di diritto al reddito garantito. E’ proprio su questi servizi primari che si completa il quadro dei diritti socio-economici che definiscono il principio generale di cittadinanza e di inclusione che deve valere per ciascun individuo.
Veniamo, quindi, al punto che ci sta più a cuore. La Regione deve limitare il proprio intervento alla garanzia dei diritti sociali sopraelencati. La capacità di spesa delle Regioni, se utilizzata per operazioni di redistribuzione monetaria, non può che arenarsi nelle secche delle varie graduatorie e accessi condizionati che abbiamo visto prospettate dalla legge campana. Di ben altra portata sarebbe l’impatto degli interventi se quella stessa capacità di spesa venisse concentrata esclusivamente sulla garanzia dei servizi. Un’azione sufficientemente generalizzata, volta a rendere gratuiti o meno onerosi alcuni servizi fondamentali è assolutamente possibile, praticabile, alla portata delle amministrazioni regionali. Diverrebbe, così, possibile l’allargamento della platea dei beneficiari, e si renderebbe superflua ogni graduatoria o lista d’attesa. Crediamo, a questo punto, che sia necessario far passare un principio: i soggetti interessati alla tutela del reddito non sono soltanto quei poveri e quegli svantaggiati individuati dalla legge campana, sono piuttosto il grande numero dei precari, dei disoccupati, dei lavoratori a basso reddito, degli studenti. Sarebbe opportuno che le regioni intervenissero negli ambiti in cui esse realmente possono incidere.
Sempre tenendoci all’interno di un dibattio legato ad eventuali battaglie legislative, per individuare una prima platea di beneficiari delle misure redistributive di reddito regionale indiretto proponiamo, per semplicità, le categorie individuate dal d.d.l. nazionale cosiddetto Cento-Salvi che comunque ad oggi rappresenta tra le proposte quella più avanzata.
Ricordiamo che in quel disegno di legge i soggetti beneficiari sono tutti coloro che si trovano in possesso dei tre seguenti requisiti: a) residenza nel territorio da almeno due anni; b) iscrizione da almeno un anno alle liste di collocamento; c) disponibilità di redditi inferiori a 5 mila euro su base individuale ed euro 30 mila su base familiare. A questa categoria di soggetti andrebbero aggiunti a nostro avviso gli studenti e i lavoratori percettori di salari insufficienti o comunque inferiori ad un certa soglia.
Le Regioni dovrebbero garantire i servizi primari o di cittadinanza, calibrando, peraltro, gli interventi su una specifica articolazione dei bisogni territoriali. Crediamo in sostanza che l’intervento regionale debba interpretare se stesso quale primo livello di una più compiuta operazione a venire che non potrà prescindere da un investimento delle risorse statali. Si dovrebbe, così, configurare un pacchetto di leggi di riferimento che abbiano diversi contenuti in relazione alle competenze attribuite all’ente regionale e a quello statale. Allo Stato spetterebbe, quindi, l’erogazione monetaria del reddito, da finanziare con il ricorso alla fiscalità generale, a eventuali nuove forme di tassazione sui capitali e alla riduzione drastica delle spese militari. Impiantando il ragionamento su questo doppio livello, uno regionale basato sui servizi e uno statale basato sull’erogazione monetaria diretta, la battaglia per il reddito garantito conquista una visione strategica.
Dalla lettura della legge campana non si evince la necessità di questo cammino strategico. Il “reddito di cittadinanza”, ampiamente frainteso e distorto dal legislatore campano, rimane una misura – peraltro inefficace e inefficiente – di contrasto a ipotesi estreme di disagio sociale e mai potrà creare un circolo virtuoso che inneschi un reale processo di liberazione dall’esclusione sociale e dal ricatto della precarietà.
Per quanto ci riguarda rimane ferma l’idea di una battaglia, sicuramente di lunga durata, di rivendicazione di un reddito di esistenza – lavoro o non lavoro – come atto liberatorio dalla produzione capitalista e verso l’esaltazione di una cooperazione umana libera.
Ci interessa quindi partire dalla presa in considerazione, non tanto della povertà subita, ma della ricchezza sociale prodotta. Dobbiamo pensare alla rivendicazione di reddito, come a un cuneo che apra strategie di lotta, piuttosto che a un pericoloso boomerang.