Contributo al dibattito sul reddito dello Sportello di consulenza precaria Cobas-Genova.
In questi ultimi anni la questione del precariato, il suo riconoscimento e i conseguenti plurimi tentativi di comprenderlo o definirlo, hanno occupato buona parte del dibattito politico di movimento. Sarebbe forse più corretto dire che ha interessato comunque il dibattito di una parte della sinistra, che se non altro ha compreso quanto la questione fosse di rilevanza epocale e che per questo ci accompagnerà per lungo tempo. Possiamo forse dire che una nuova classe sta nascendo? Dal proletariato al precariato?Non è questo che ci interessa definire adesso, ma piuttosto esperire i percorsi dell’agire possibili; comunque, se non altro, tutto questo gran parlare ha contribuito indubbiamente ad accendere qualche riflettore di questa società su una parte di sé stessa e a far uscire finalmente dall’ombra le migliaia di “precursori”, che precari lo erano già senza ancora saperlo, segnale questo che la società già stava cambiando (per chi ama i numeri è sufficiente riferirsi a quelli relativi alle collaborazioni, occasionali o meno, o ai Contratti a Tempo Determinato che sono stati stipulati in Italia tra il ’95 e il ’98; periodo antecedente all’entrata in vigore del pacchetto Treu, primo ad introdurre il lavoro in affitto e forme di lavoro temporaneo).Forse è per questo che si è arrivati in fretta a parlare di come affrontare, di come superare questa condizione, di cui si è capito, altrettanto rapidamente, che coinvolge ed investe non solo l’ambito lavorativo, ma l’intera esistenza. E non è soltanto l’aspetto economico ad essere toccato (ovvero la pura quantità di denaro che entra nelle tasche di ognuno), ma è lo stato di incertezza, il percepirsi completamente in balia del mercato del lavoro a rappresentare lo stato delle cose, il reale cambiamento complessivo. Ed essere nelle mani del mercato del lavoro non fa piacere a nessuno (a prescindere dalle soggettive valutazioni politiche); d’altronde in una società capitalista tutti sanno che il mercato non è un elemento stabile (terribile pensare che il valore della propria forza lavoro possa oscillare come il prezzo dei pomodori, senza poi soffermarsi su come finiscono quelli invenduti!?!)
A proposito della campagna per il redditoIn questo contesto la proposta di una campagna per un reddito sociale, con la possibilità di arrivare alla formalizzazione di una legge, rappresenta l’apertura di un immaginario possibile di per sé generalizzato.La richiesta di un reddito oggi cresce come immaginario dalla necessità di trovare una continuità, prima ancora che una stabilità, nel flusso delle entrate individuali. Guardando poi all’Europa, è apparso immediatamente chiaro quale fosse l’enorme differenza fra il sistema welfaristico nostrano e la gran parte di quelli europei. Per quanto sia oggi comune la tendenza allo smantellamento delle garanzie e protezioni sociali, in un’epoca in cui il capitalismo ha ormai trovato il suo riadattamento nella dimensione globale, l’Italia, come solo Portogallo e Grecia, non ha mai realizzato un sostegno economico individuale, ma solo piccole forme di sussistenza, come l’indennità di disoccupazione.L’analisi del sistema del Welfare italiano può rappresentare un buon punto di partenza per definire quali dovrebbero essere le caratteristiche di un reddito sociale e garantito.
Il sistema di welfare italiano è sempre stato di tipo misto, ovvero responsabilità ed elargizione a carico del governo e a carico delle grandi industrie.La “fabbrica” interveniva in ogni aspetto della vita dei propri dipendenti: i grandi impianti industriali avevano asili nido al loro interno, mense aziendali e depositi alimentari ed interi quartieri “residenziali” sono stati costruiti dalla grande industria. Lo Stato Sociale veniva così sollevato da alcune prerogative e cedendo parte di ciò che avrebbe dovuto essere un intervento diretto in favore dei cittadini, si è arrivati ad una gestione concordata: l’azienda si occupava di coloro che direttamente le erano legati da un rapporto di lavoro e le istituzioni dell’elargizione di sussidi e sostegni pubblici per chi rimaneva escluso dal grande ciclo produttivo, con una impostazione fortemente vincolata al lavoro, che ci siamo portati dietro fino ad oggi.Alla luce di questo una proposta che non intenda mettere in discussione il sistema capitalistico, vedrebbe l’articolazione di un reddito sociale come integrativo, riconosciuto al nucleo familiare, al massimo con l’ampliamento al “nucleo di fatto”, temporaneo e con l’unico fine di sostenere i consumi, in ogni caso legato alla quantità e modalità di lavoro svolto (più o meno quello che ha fatto la Regione Campania, senza per altro avere nemmeno i fondi a sostegno).
Di tutt’altra entità è, evidentemente, la proposta per un reddito sociale e garantito che i movimenti stanno definendo attraverso il riconoscimento della propria condizione e dei propri bisogni e per il quale si stanno mobilitando. Per quanto possa non essere facile da sintetizzare in una legge, ed in parte in continua discussione, la proposta dei movimenti esprime caratteristiche ben diverse: ovvero reddito sociale come continuo e di un’entità adeguata, individuale, legato alla necessità e non ad una scadenza predefinita, con l’obbiettivo semmai di liberare tempo dal lavoro, e comunque totalmente scisso dalla quantità o modalità di lavoro svolto. In questo senso la richiesta di un reddito sociale è di per se una battaglia anticapitalista, proprio perché la natura stessa della richiesta è in totale opposizione alle regole che il capitalismo postmoderno e globale si è dato.In quest’ottica la campagna per la proposta di legge non è altro che uno strumento di cui alcuni movimenti hanno deciso di dotarsi, come molti altri ne verranno in una battaglia che (ahinoi!) si preannuncia di lungo respiro.
D’altronde la storia ce lo insegna (vedi soprattutto gli anni ’70): a determinare la necessità di una legge che per sua natura mina, o almeno scuote, i cardini del sistema economico non sono le istituzioni, ma i movimenti e a determinare l’ampiezza dei margini di libertà previsti nella legge, non è altro che la forza del movimento e come questa viene impiegata nella specifica battaglia.Il tutto ovviamente in attesa della rivoluzione…
Riflessioni aperteUna riflessione su reddito diretto e reddito indiretto mette in evidenza un altro interrogativo che, guardando alla società, riteniamo di interesse per il dibattito. E’ indubbio che quando si parla di reddito facciamo riferimento sia al reddito diretto che indiretto, ma è altrettanto indubbio che intercorrono notevoli differenze tra i due elementi, anche dal punto di vista dell’immaginario; ed è in particolare su questo aspetto che abbiamo aperto una riflessione.
La proposta di reddito diretto (ovvero reddito monetario, garantito e per tutt*), come abbiamo visto, va a riempire un immaginario vuoto se teniamo presente che in Italia non è mai esistito niente di simile.Negli altri paesi europei, per quanto funzionale al modello capitalista, già esiste un immaginario di reddito non legato direttamente alla condizione di povertà o disagio sociale: pensiamo a come possa essere utilizzato da uno studente per completare gli studi o da un lavoratore che interrompe “l’attività produttiva” per fare corsi di formazione, potendo contare su una continuità economica.Senza entrare nel merito delle contraddizioni che anche in questi paesi esistono e che in questi anni stanno inasprendosi, appare comunque chiaro come la percezione che si ha di un sostegno statale vada in un’ottica non direttamente legata alla mera sopravvivenza.L’assenza di tale immaginario nella società può quindi avere un effetto propulsore delle battaglie per il reddito come elemento di continuità nel flusso delle entrate e con tutte quelle caratteristiche che lo rendono generalizzabile, ben al di là del livello di povertà e marginalità, per quanto questo vada rapidamente e drasticamente aumentando.
Per quanto riguarda, invece, il reddito indiretto (casa, salute, trasporti, saperi, etc.) proviamo a soffermarci su come possono essere percepiti alcuni aspetti del Welfare all’italiana. Notiamo come le varie tipologie di sostegno esistenti (quando vengono riconosciute) elargiscono, in forma quasi caritatevole, contributi insufficienti a soddisfare bisogni di fasce (perlopiù famiglie) sotto la soglia di povertà: pensiamo ai contributi per l’affitto, ai sussidi sociali, o alle esenzioni sul ticket sanitario. Ci sembra che questo tipo di intervento statale abbia definito la possibilità di un sostegno economico indiretto come un immaginario “negativo”, legato alla marginalità e al disagio sociale. Appare evidente come la precarietà colpisca, invece, una fetta ben più ampia della società, che di fronte a questo scenario può costruire una reazione di rifiuto e scegliere di non essere relegata alla marginalità.Come e quanto, quindi, può influire questo tipo di immaginario sulla possibilità di generalizzare alcune battaglie per la riappropriazione di reddito che si stanno sviluppando o che già esistono e si sono consolidate in alcune città italiane?Le occupazioni di case, ad esempio, così come altre battaglie sul fronte del caro-vita, hanno in sé come elemento centrale il soddisfacimento di un bisogno (ed un diritto) negato e la generalizzazione di una pratica. Questo tipo di azioni spesso non varca il confine dei/delle militanti, di migranti o di fasce particolarmente disagiate. Ma, ci chiediamo, il resto della società non vive questo genere di problemi? O forse, chi ha raggiunto una certa stabilità non si riconosce nella pur giusta rivendicazione di un reddito indiretto in quanto “non povero”?Le battaglie per la riappropriazione del reddito vanno a scontrarsi innanzitutto con questo tipo di resistenze, che possono rappresentare un limite, se non addirittura un freno, alla generalizzazione di pratiche di questo tipo, nonostante le decennali esperienze di lotta su alcuni fronti.Leggiamo allo stesso tempo, però, alcuni segnali in controtendenza, che forse rappresentano un primo cambiamento e un’apertura a nuove prospettive. Un esempio utile può essere quello delle proteste dei pendolari e della decisione di adottare lo “sciopero del biglietto”. Le forme di lotta possono essere varie e la scelta non avviene certo in maniera casuale; in questo caso il costo dell’abbonamento e i notevoli disservizi subiti hanno spinto i pendolari ad utilizzare, come forma di protesta, la riappropriazione del reddito sottratto per pagare gli spostamenti di lavoro.Queste situazioni possono rappresentare una prima rottura nell’immaginario negativo? Come possiamo interagire con queste novità e trovare nuovi ed efficaci impulsi alle battaglie per la riappropriazione di reddito?
Queste ed altre sono le riflessioni che ci stiamo ponendo e vorremmo condividere con tutte quelle realtà che, in modi e luoghi diversi, stanno cercando di praticare e di ampliare un dibattito sulla precarietà e sulle trasformazioni della società che si preannunciano in questa fase. Questi sono solo alcuni aspetti di un dibattito che necessita di ulteriore attenzione e ambiti di discussione, che speriamo questa rivista continui ad aprire e magari a stimolare.