L’Unione Europea invita l’Italia ad istituirlo ed in parlamento ci sono tre proposte di legge: possibile arrivare ad una proposta condivisa?
Il reddito minimo è uno strumento di lotta alla povertà e per la tutela dell’autonomia individuale. È il momento di approvarloNon è mai troppo tardi, verrebbe da dire con una punta di amarezza, per prevedere una qualche forma di reddito di base anche nel nostro Paese. Considerando che nelle legislazioni di molti Paesi europei questo passo è stato intrapreso già negli anni Settanta del Novecento, dinanzi alle prime trasformazioni del tardo-capitalismo finanziario globale, noi arriviamo al momento di crisi massima di questa parabola: nell’autunno 2013 della Grande Depressione italiana.
Le rilevazioni Istat del 2012 ci dicevano che quasi cinque milioni di persone (il 7,9% della popolazione) si trovavano in condizioni di povertà assoluta, mentre poco meno di dieci milioni (il 15,8% della popolazione) erano in condizioni di povertà relativa, con una disponibilità di 506 euro mensili. Circa un quarto della popolazione vive attualmente in condizioni di disagio economico e sociale, con picchi insostenibili tra le fasce giovanili e quelle più anziane. Intorno a questa vera e propria emergenza sociale si muove l’associazionismo laico e cattolico della campagna Miseria Ladra (Gruppo Abele e Libera) e della neonata «Alleanza contro la povertà in Italia», promossa da Acli ed altre organizzazioni del Terzo Settore. Per tentare di combattere l’esclusione sociale di queste fasce era stata fatta la proposta governativa del «Sussidio per l’inclusione attiva» promossa dal Ministro del Welfare Enrico Giovannini, in dialogo con quella stessa rete di associazioni cattoliche di lotta alla povertà. Per esplicita ammissione dello stesso Ministro questa misura non ha niente a che fare con il reddito, né di base, né garantito, né minimo. Si tratta di una misura sospesa tra l’elargizione di un’elemosina contro l’esclusione sociale, da far gestire alle reti del Terzo Settore. A queste si aggiungono misure di workfare che aumenterebbero la ricattabilità delle persone e senza scalfire il monopolio Confindustria-sindacati degli enti bilaterali e del Welfare sussidiario.
La novità, invece, è che in quest’ultimo anno sono state presentate alle Camere tre proposte di legge favorevoli all’introduzione di una qualche formula di reddito di base. Lo scorso 10 aprile una nutrita pattuglia di parlamentari Pd (da Danilo Leva a Enza Bruno Bossio e Marianna Madia) ha presentato un’iniziativa legislativa per l’«istituzione di un reddito minimo di cittadinanza attiva», che prevede «forme reddituali dirette e indirette in grado di garantire un’esistenza libera e dignitosa», insieme con una serie di misure per indurre i beneficiare a «partecipare agli interventi di inserimento lavorativo e di integrazione sociale».
Poche settimane fa (manifesto del 24 ottobre) Sinistra Ecologia e Libertà ha proposto un articolato di legge per un «reddito minimo garantito» di 600 euro al mese per «tutti gli individui (inoccupati, disoccupati, precariamente occupati) che non superino gli 8000 euro annui», riprendendo il contenuto di una proposta di legge di iniziativa popolare sostenuta da 170 associazioni e oltre 50 mila firme. Ieri anche i parlamentari del Movimento Cinque Stelle, capitanati da Daniele Pesco, Marco Baldassarre e Nunzia Catalfo hanno presentato la loro proposta di «reddito di cittadinanza», approfittando dei lavori parlamentari sulla Legge di Stabilità. Al di là dell’intestazione sembra di essere dinanzi alla previsione di un reddito minimo garantito, quantificato, similmente alla proposta Sel, in 600 euro mensili.
È il momento che i promotori di queste tre proposte si parlino. Per due ordini di ragioni. Da una parte sembra evidente che dinanzi agli urgenti e improrogabili temi sociali si possa definire una maggioranza di sinistra, alternativa alla grande coalizione governativa. Un’ipotesi difficile da praticare dentro le stringenti compatibilità dell’attuale compromesso storico guidato dal Colle, ma in grado di aprire una crepa a sinistra del Pd. Non è un caso che il sottosegretario Fassina, testa d’uovo della sinistra Pd nel governo, è risultato il più stizzito dalla proposta pentastellare. Fassina sa benissimo che proprio su quel versante possono aprirsi fronti comuni che metterebbero a repentaglio le “convergenze parallele” di un Pd ossessionato dall’incompatibilità di stare al Governo e ottenere consenso popolare.
Dall’altra, soprattutto, le tre proposte sul “reddito” pongono, con tonalità diverse, ma convergenti, l’urgenza di riformare il sistema di Welfare in senso più universalistico, inclusivo, garantista nei confronti delle persone, per la tutela della dignità umana e l’autodeterminazione individuale e collettiva. È questa la scommessa più alta e anche la più necessaria da giocare, perché permetterebbe alla sinistra di delineare la sua proposta per un’altra idea e pratica di società e di spesa pubblica.
Dalle tre iniziative potrebbe uscire una proposta condivisa su pochi, decisivi punti: reddito di base come strumento di autonomia delle persone, riforma degli ammortizzatori sociali in senso universalistico, introduzione di un salario minimo orario, strumenti indiretti di sostegno al reddito, per l’indipendenza dei beneficiari. Questa sarebbe una rivoluzione copernicana, che permetterebbe di ripensare la spesa pubblica, eliminando tutti gli elementi di corruzione, assistenzialismo, selettività, discriminazione che caratterizzano la crisi dello Stato sociale in Italia da un trentennio a questa parte: dalla corsa alle false pensioni di invalidità, alla spesso iniqua cassa integrazione in deroga.
Per la sinistra questa è una sfida al sistema. Oggi può attualizzare parole e pratiche iscritte nel suo codice genetico, per lo meno da Thomas Paine in poi.
Il Manifesto 15 novembre 2013