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Reddito di inclusione o Social card 2.0? Il Welfare universale è lontano

di Giuseppe Allegri

Miseria e Workfare. Ora anche il Bel Paese ha la sua legge nazionale di lotta alla povertà assoluta. Qualche secolo dopo le cosiddette «leggi sui poveri» (poor laws) nell’Inghilterra tra fine Cinquecento e metà Ottocento. Bisogna ripartire da un reddito minimo garantito e universale.

Come previsto da tempo, e già anticipato sulle pagine de Il Manifesto (qui e qui), ora anche il Bel Paese ha la sua legge nazionale di lotta alla povertà assoluta. Qualche secolo dopo le cosiddette «leggi sui poveri» (poor laws) nell’Inghilterra tra fine Cinquecento e metà Ottocento. Ma ancora del tutto lontani dall’introduzione di un Welfare minimamente universale, che garantisca i diritti sociali fondamentali a tutela di una vita degna e promuova l’autonomia delle persone. Perché in realtà si tratta di una legge delega molto più vicina a quelle leggi sui poveri, che a un moderno sistema pubblico di inclusione sociale.

In attesa del decreto attuativo, leggendo il disegno di legge 2494, pare che il tanto sbandierato «reddito di inclusione» altro non sia che l’estensione al livello nazionale del «sussidio di inclusione attiva» (Sia), la Carta prepagata Sia, una Social Card 2.0.

Estensione in realtà già avvenuta nel settembre scorso, dopo una precedente sperimentazione condotta nelle dodici maggiori città d’Italia e della quale si sa poco.

L’unica certezza è costituita dal meccanismo burocratico che si mette in moto e al quale dovrà sottostare il capofamiglia di quei nuclei familiari con un reddito Isee sotto i 3 mila euro annui, con presenza di un minorenne o di un figlio disabile, che saranno i destinatari della misura: solo un quarto degli oltre quattro milioni e mezzo di persone in povertà assoluta.

L’erogazione monetaria di 80 euro mensili a figlio minorenne o disabile a carico, pare è vincolata alla sottoscrizione di un «progetto personalizzato di attivazione e di inclusione sociale e lavorativa». Il messaggio è chiaro: chi è in condizioni di esclusione sociale e povertà assoluta deve dimostrare di meritarsi il sostegno economico, dichiarandosi disponibile a percorsi di reinserimento sociale e lavorativo che sembrano pensati da un burocrate ottocentesco in vena di redimere moltitudini di poveri ritenute poco senzienti.

Nel più puro spirito di una legge sui poveri, che miscela paternalismo e Workfare, al posto di emancipazione e Welfare. L’inclusione sociale dei vulnerabili passa per il ricatto del lavoro e della buona condotta, giocando su quel «doppio legame vizioso», descritto alla perfezione dal talento che ha deciso di abbandonarci prematuramente di Mark Fisher e che è imposto ai disoccupati di lunga durata nel Regno Unito: essere considerati per tutta la vita dei «buoni a nulla», eppure pronti e disponibili a fare qualsiasi cosa per meritare «i sussidi». È il Daniel Blake di Ken Loach.

Ad essere raffinati analisti si deve parlare di un vero e proprio meccanismo di governance della povertà. Di amministrazione coatta e coercitiva di quei poveri condannati a una marginalità sociale che secondo la mentalità totalizzante del legislatore può essere riscattata solo accedendo a progetti di rieducazione sociale e lavorativa pensati dai diversi livelli burocratici che ingolfano il vessatorio e corporativo modello sociale italiano.

Si parte dal Comune, si passa per Asl, Inps, centri per l’impiego, fondi regionali ed europei, per arrivare alle associazioni del Terzo Settore e alla nuova entrata di mirabolanti équipe multidisciplinari. Un circuito chiuso e mortificante di lavoro povero e questua burocratica. Altro che reddito di inclusione. In Italia, nel 2017.

Tratto da Il Manifesto edizione del 10 marzo 2017

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