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Reddito minimo d’inserimento: una proposta possibile

di Francesca Ruocco

La precarietà lavorativa da condizione teoricamente transitoria, legata al periodo d’ingresso nel mercato del lavoro, è ormai divenuta per un numero sempre maggiore di persone condizione “stabile” e strutturale. Se escludiamo i lavoratori a tempo determinato e quelli in somministrazione, i quali hanno accesso almeno all’indennità di disoccupazione, si tratta in tutti gli altri casi di lavoratori senza nessuna forma di ammortizzazione sociale che li tuteli in caso di perdita di lavoro o nei periodi di discontinuità dell’attività lavorativa. Infatti, l’Italia continua ad avere un sistema di welfare costruito su un modello produttivo di tipo fordista, in cui i pochi ammortizzatori sociali esistenti sono legati al contratto da dipendente e, in particolare, da dipendente a tempo indeterminato. 

La precarietà lavorativa da condizione teoricamente transitoria, legata al periodo d’ingresso nel mercato del lavoro, è ormai divenuta per un numero sempre maggiore di persone condizione “stabile” e strutturale. Se escludiamo i lavoratori a tempo determinato e quelli in somministrazione, i quali hanno accesso almeno all’indennità di disoccupazione, si tratta in tutti gli altri casi di lavoratori senza nessuna forma di ammortizzazione sociale che li tuteli in caso di perdita di lavoro o nei periodi di discontinuità dell’attività lavorativa. Infatti, l’Italia continua ad avere un sistema di welfare costruito su un modello produttivo di tipo fordista, in cui i pochi ammortizzatori sociali esistenti sono legati al contratto da dipendente e, in particolare, da dipendente a tempo indeterminato.

Tale condizione di precarietà lavorativa e di assenza di forme adeguate di protezione sociale si è oggi estesa ed aggravata in maniera rilevante; infatti, la crisi determina un uso sempre più frequente dei poteri datoriali di recesso, oltre al moltiplicarsi di dissesti aziendali, anche irreversibili.

Per queste ragioni, quello di garantire continuità di reddito nei periodi di discontinuità dell’attività lavorativa a tutti i lavoratori, a prescindere dal tipo di contratto che hanno, e quello di introdurre anche in Italia uno strumento di welfare universalistico come il reddito minimo garantito o di inserimento, sono stati due temi fondamentali dell’assemblea nazionale del comitato 9 aprile “Il nostro tempo è adesso”, tenutasi a Roma il 19 e 20 novembre.

L’assenza di un modello universalistico di welfare adeguato a far fronte alla situazione attuale, fa sì che alla precarietà lavorativa si aggiunga, sempre più spesso, una precarietà cosiddetta “di vita”, “esistenziale”, derivante dalle difficoltà di accesso per un numero sempre più ampio di persone ad una serie di diritti fondamentali, quali: il diritto all’abitare – a partire dal diritto alla casa -, alla mobilità, alla salute, al sapere; diritti senza i quali non è possibile godere di una piena cittadinanza. Tale precarietà “di vita” colpisce in misura maggiore le nuove generazioni e ha tra i suoi principali effetti  “la negazione del diritto al futuro”, cioè la difficoltà via via maggiore per i giovani di immaginare e progettare il proprio futuro, quanto meno in chiave migliorativa rispetto al presente.

All’interno di questo scenario diventa quanto mai necessaria e non più rimandabile una riforma degli ammortizzatori sociali a carattere estensivo ed una riforma del welfare a carattere universalistico ed inclusivo, con l’introduzione di forme di reddito minimo garantito (basic income) come garanzia per tutti di accesso alla cittadinanza.

Per quanto riguarda la riforma degli ammortizzatori sociali, è necessario estendere a tutti i lavoratori che versano i contributi nelle casse previdenziali Inps (quindi anche a quelli del Fondo Gestione Separata) la disoccupazione al termine del rapporto di lavoro.

Per quanto riguarda invece l’introduzione di un reddito minimo di inserimento, finanziato in questo caso tramite la fiscalità generale, è bene innanzitutto ricordare che l’Italia, insieme alla Grecia, è l’unico tra i Paesi del “nucleo storico” dell’Unione Europea (e quindi tra gli Stati membri al 2004) a non prevedere forme di reddito minimo o basic income.

Diritto al lavoro e diritto al reddito non devono in alcun modo essere considerati in maniera esclusiva o, peggio, alternativa, bensì devono necessariamente essere oggetto di rivendicazione complementare e contestuale. Il diritto al reddito, infatti, non può in alcun modo diventare – come emerge ad esempio nell’idea che Draghi propone di reddito minimo garantito – una norma risarcitoria di ciò che oggi viene sempre più frequentemente negato, in termini di diritti e tutele, all’interno del lavoro; e non è e non deve quindi diventare, attraverso questa strada, una norma strumentale e funzionale al mantenimento di un sistema che mette al centro l’impresa, cancellando il punto di vista del lavoro. Al contrario, un nuovo riconoscimento sociale del lavoro come ricchezza passa inevitabilmente per la rivendicazione del diritto al reddito. Infatti, di fronte alla tendenziale coincidenza tra tempo di lavoro e tempo di vita, determinata innanzitutto dall’inedita centralità assunta dall’elemento cognitivo nella produzione di ricchezza, l’introduzione di una forma di reddito minimo garantito anche nel nostro Paese dovrebbe rappresentare una sorta di retribuzione forfettaria e generalizzata di una quota parte di lavoro che oggi non viene in alcun modo riconosciuto come tale; una forma di riconoscimento del valore del lavoro, più adeguata e consona alle attuali ed effettive condizioni di produzione della ricchezza.

Più nel concreto, garantire un reddito diretto ed indiretto ad inoccupati, disoccupati e lavoratori discontinui, permetterebbe di evitare la caduta in povertà delle fasce più deboli della popolazione (innanzitutto i giovani, le donne e gli anziani soli, italiani e migranti), e di rendere i lavoratori meno ricattabili all’interno del mercato del lavoro dando, soprattutto alle giovani generazioni, l’opportunità di scegliere il proprio futuro in maniera molto più libera ed autonoma di quanto oggi non accada. Proprio la minor ricattabilità dei lavoratori di fronte all’impresa consentirebbe, da un lato, di utilizzare il reddito come leva salariale; dall’altro, di evitare la dispersione di saperi, competenze e professionalità che – come spesso avviene – per ragioni dettate dalla necessità di sopravvivenza quotidiana, vengono messi da parte e non sono valorizzati come meriterebbero, con grave danno economico, sociale e culturale soprattutto per il territorio che ha contribuito a produrli (un esempio evidente di questo processo sono i giovani laureati che un territorio non riesce a trattenere, e che sempre più spesso abbandonano il Paese per andare all’estero, o che svolgono mansioni estranee e/o ben al di sotto della propria qualifica).

L’obiettivo della restituzione di autonomia e libertà di scelta al lavoratore, insieme a quello di evitare la dissipazione di competenze e saperi preziosi, rende evidente il tentativo di superare un’idea di welfare come strumento passivo ed assistenzialista, da sempre dominante nel nostro Paese, per approdare ad un modello di welfare attivo, in cui il sistema sociale diventi uno strumento di investimento sul futuro della società, innanzitutto grazie all’investimento sulle nuove generazioni.

Infine, quella sul diritto al reddito è una vertenza trasversale al frammentato e variegato universo sociale e del lavoro a cui vogliamo riferirci, e quindi potenzialmente in grado di costruire soggettività collettiva e di riunificare in un percorso di lotta comune soggetti oggi divisi da modalità di lavoro e di vita ed esigenze diverse.

Tratto da PrecariMenti

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