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Reddito minimo universale: la via maestra per uscire dalla crisi

di Domenico Tambasco

A vent’anni dalla pubblicazione della “Fine del lavoro” di Jeremy Rifkin, è necessario tornare a riflettere sulle condizioni del lavoro, considerando la situazione contemporanea alla luce dell’imperante dogma neoliberista della flexicurity: le conclusioni sono sorprendenti, e portano a ripensare ex novo al concetto di lavoro, alla sua fine e ad un nuovo inizio.

Flexicurity, ovvero uno strumento europeo di politica del lavoro

Flexicurity[1] suona bene sin dalla sua pronuncia, certamente meglio dell’italico “flessicurezza”. E’ un termine sfavillante, che ha un’apparente sapore di modernità nella sua versione d’importazione. E, diciamola tutta, affascina anche nella sua astratta descrizione scientifica, riferendosi ad un “modello di politica del lavoro capace di riformare e unificare i diversi sistemi di welfare esistenti in Europa”, e costituendo “un mezzo per raggiungere un fine, ovvero assicurare che i benefici dei sistemi di welfare restino una garanzia per tutti (comprese le generazioni future), rafforzando l’adattabilità e la capacità di affrontare i cambiamenti sia per i singoli che per le imprese”[2] .

Si tratta dunque di uno strumento di politica del lavoro ibrido, promosso direttamente a livello europeo-comunitario allo scopo di uniformare i diversi modelli degli Stati membri[3], sostenendo da un lato una domanda del lavoro quasi totalmente deregolamentata ed in linea con la teoria classica neoliberista, che richiede forme di flessibilità numerica, funzionale e salariale della “forza-lavoro” in modo da adeguarla “in tempo reale” (secondo il modello just in time) ai cambiamenti tecnologici e alle sempre mutevoli esigenze del mercato, e dall’altro garantendo un moderno sistema di sicurezza sociale, in grado di intervenire con efficaci sistemi di sostegno al reddito, considerato che le fasi di passaggio da un’occupazione ad un’altra non possono quasi mai essere senza soluzione di continuità[4].

Flexicurity e tecno-nichilismo

Se volessimo reperire un ascendente teorico-filosofico della flexicurity, ben potremmo porre lo sguardo – senza tema di smentita – ai caratteri propri della società della globalizzazione (o, come è stata meglio definita in un recente saggio, della “prima globalizzazione”[5]). Società fondata sul dominio della tecnica (economico/finanziaria ed ingegneristica) che ha modellato in chiave reticolare l’esistenza dell’uomo, il quale si trova ora “navigante” (e quasi annegato) in un flusso di merci, beni, dati e informazioni che si compongono e scompongono con velocità estrema nell’intera “rete globale”, e che ne hanno smaterializzato (o meglio, liquefatto) la natura. E’ il topos del tecno-nichilismo in cui l’uomo, subordinato alla tecnica, è ora bene, ora merce, ora dato, ora capitale (cosiddetto “umano”) inserito nei miliardi di flussi che percorrono le reti (telematiche/commerciali/finanziarie/industriali/logistiche/lavorative/giuridiche) alla velocità della luce: ed i materiali così veicolati nei flussi delle reti valgono (e vengono considerati) solo e soltanto se funzionano nell’ambito delle reti stesse.

Siamo al trionfo del tecno-nichilismo e della volontà di potenza, in cui vale non ciò che è, ma solo ciò che si vuole far funzionare nei canali – strutture costitutive delle reti – deputati al veloce scorrimento dei flussi di beni, capitali, dati: è la legge dell’efficacia o “lois de l’efficacitè”, per dirla con Albert Camus[6].

Leggiamo un passo, splendido nella sua nettezza, di un grande giurista che così traduce il trionfo del tecno-nichilismo nello specifico campo del diritto[7]:

Il diritto costruisce la propria artificialità servendosi di macchine e applicando procedure…..il suo scopo non è né di garantire l’attuazione di eterne verità, né di difendere un’etica della vita, ma soltanto di funzionare….la macchina funziona senza riguardo ad uno od altro contenuto. Non importa il perché ed il che cosa, ma soltanto il come: non importa la verità, ma soltanto la validità della norma giuridica… Tutti i contenuti possono attraversare quei congegni produttivi… nomo-dotti, canali percorsi da ipotesi di norme. Poiché non c’è una verità condizionante, vige l’indifferenza contenutistica, la neutralità delle procedure rispetto alle materie che vi sono immesse. Fiat productio… soltanto il volere le fa valere”.

Flessicurezza e “doppia alienazione”

Se consideriamo l’uomo inserito in tale contesto produttivo tecno-nichilista, non possiamo non rinvenire i netti profili dell’alienazione; stiamo parlando di un uomo che non è più neanche res, cosa, ma mero, inanimato fluido: dal tipo dell’uomo-macchina proprio del modello fordista-taylorista al paradigma dell’uomo quale “lubrificante” della macchina. Ecco spiegata l’esigenza di “flessibilità”, ovverosia del termine flex, primo membro del binomio flexicurity.

Ciò che non funziona o, meglio, non è abbastanza flessibile, liquido per circolare nei canali delle reti tecno-produttive, diventa ovviamente scarto: anche l’esistenza umana, reificata e veicolata nei flussi testè citati, può diventare “vita di scarto”[8] o esubero, sinonimo di “rifiuto umano”[9].

Ma c’è una via di possibile e necessaria uscita e di recupero, diremmo di apparente ed illusoria “rinascita” in questo demoniaco sistema, che viene veicolato dal sistema stesso: l’uomo-fluido lubrificante della macchina è al contempo anche uomo-macchina desiderante (ovverosia consumatore)[10], il cui desiderio di consumo è il motore interno della macchina. La macchina funziona, infatti, solo se vi è consumo (e non accumulo) di ciò che dalla stessa viene prodotto.

Il sistema tecno-nichilista, infatti, si fonda e si muove precipuamente sulla base del consumo dei beni, dei servizi, delle informazioni prodotte dai circuiti reticolari: in poche parole, è la domanda il combustibile dell’intero sistema che altrimenti, in sua assenza, rischia di implodere, come evidenziato nell’ ultima, sistemica crisi economica.

La domanda – e con essa l’uomo-macchina desiderante o consumatore- ha dunque bisogno di un sostegno, di un “meccanismo di sicurezza”, ovverosia proprio dellasecurity, secondo elemento del sintagma della “flessicurezza”: ne deriva la teorizzazione di strumenti di sostegno dei redditi, ora pubblici (quali sussidi di disoccupazione, assegni familiari, cassa integrazione et similia) ora privati (attraverso l’intermediazione bancario-finanziaria), con la diffusione del “credito al consumo” attraverso una pluralità di mezzi di indebitamento, quali carte di credito, finanziamenti brevi (i cd payday loans[11]), rifinanziamenti delle ipoteche sugli immobili, scoperti di conto corrente e quant’altro serva a integrare i salari erosi dalla flessibilità.

Questa iniziale riflessione, dunque, ci porta ad un primo punto di arresto: la flexicurity è la filosofia generale – o meglio, l'”attrezzo comune”- del sistema tecno-nichilista, più comunemente noto come capitalismo neoliberista.

Flessibilità, mercato del lavoro e “uberizzazione”

Passiamo quindi ad osservare la concretizzazione della “flessicurezza” nel più specifico circuito del “mercato del lavoro” odierno.

Il drammatico panorama della flessibilità lavorativa è ormai conoscenza comune acquisita da tempo[12], sostanziandosi nella tripartizione in:

a) flessibilità “numerica” della quantità di lavoro in entrata e in uscita, attraverso il proliferare di una moltitudine di contratti atipici (a chiamata, a progetto, di job sharing,di somministrazione di manodopera et similia) o di contratti di lavoro subordinati a tempo determinato (con la più ampia possibilità di apporre il termine in una serie quasi illimitata di contratti a scadenza come previsto ad esempio, per lo specifico ambito italiano, dall’ultimo “Decreto Poletti”[13]) e a tempo indeterminato (con la flessibilità introdotta anche in tale area, attraverso la sostanziale abrogazione dell’art. 18 Stat. Lav. portata avanti dal nuovo “contratto a tutele crescenti” disciplinato dalla seconda parte del recente “Jobs Act”[14]);

b) flessibilità “funzionale” nella gestione del rapporto di lavoro, attraverso la possibilità di modificare unilateralmente le mansioni, anche in peius dequalificando il patrimonio professionale (si veda quanto previsto dalla Legge delega 183 del 2014 in materia di demansionamenti[15]) o attraverso la totale liberalizzazione degli orari di lavoro con i contratti a part-time, che consentono la gestione “premiale” o “sanzionatoria” della forza-lavoro, mercè la concessione o la negazione di ore supplementari di lavoro necessarie ad integrare salari-base esigui ed insufficienti per la sussistenza o forme di orario flessibile quale quello multiperiodale (ovverosia variabile entro un dato lasso di tempo) o elastico;

c) flessibilità salariale con retribuzioni che, con riferimento al singolo lavoratore, possono essere legate non solo all’orario di lavoro (si pensi al sopracitato contratto a part-time e alla possibile variazione in aumento o in diminuzione delle “ore supplementari”) ma anche a nuove, “moderne” forme di cottimo digitale: primo fra tutti, recentemente sbarcato anche in Italia, il cosiddetto crowdworking, una sorta di “asta digitale” in cui qualsiasi richiedente, attraverso una piattaforma telematica che fa da intermediario, “posta” on line i lavori richiesti (che consistono di solito in progetti tecnici e/o richieste di consulenze qualificate). A seguito dei molteplici lavori ricevuti, il richiedente ne sceglie solo uno: ovviamente il lavoro rifiutato non viene pagato, mentre quello accettato viene pagato a prezzi infimi. Basterà riprendere le parole di Guy Standing per un giudizio senza appello: “E’ cottimo, in una forma che porta alla spremitura estrema, la forma definitiva di precariato nella quale i lavoratori sono puri postulanti, privi di diritti o sicurezza”[16].

Se poi volessimo dare uno sguardo ancora più aggiornato al panorama della flessibilità contemporanea, vedremmo come l’esasperazione di tale dinamica abbia condotto a forme di lavoro talmente liquefatte, da far venir meno addirittura la stessa identità professionale del singolo lavoratore, scisso in un patchwork di molteplici e contemporanee – rispetto alla singola giornata lavorativa – occupazioni: siamo alla “uberizzazione” del lavoro come icasticamente rilevato da Carlo Formenti, il quale nella sua acuta analisi sul neonato fenomeno della società Uber rileva la “definitiva dissoluzione di ogni identità di classe, nella misura in cui ci trasformerebbe tutti in una massa indistinta e orizzontale di individui indipendenti costretti ad arrabattarsi in un forsennato bricolage senza nessuna garanzia di stabilità di reddito, di futuro e senza nessun controllo sul proprio tempo di vita (per tacere della qualità stessa)”[17].

Quali sono stati gli effetti di questa iperflessibilizzazione? Sono sotto gli occhi di tutti: l’aumento vertiginoso della disoccupazione negli ultimi anni ed il crollo del livello medio dei salari (che gli economisti, con linguaggio farisaico, definiscono “moderazione salariale”), tali da scendere sotto la soglia necessaria a garantire un’esistenza libera e dignitosa, così come invece solennemente previsto dall’art. 36 della nostra Costituzione, dando origine al sempre più diffuso fenomeno del “lavoro povero”[18].

I dati di una recentissima ricerca presentata al Cnel sul fenomeno dei working poor non lascia spazio a repliche: 3 milioni e 750 mila “lavoratori poveri” solo in Italia, vale a dire persone con un reddito netto orario inferiore ai 2/3 del reddito medio. In pratica si tratta di lavoratori, sia subordinati che autonomi, le cui retribuzioni si aggirano sui 4,8 euro netti all’ora (quando la media netta è di 6,2 euro all’ora) e che, oltre ad essere lavoratori poveri, saranno condannati a diventare, tra qualche anno, pensionati poveri[19].

Effetti individuali e sociali della flessibilizzazione

Ma vi è di più.

Gli effetti si sono riverberati innanzitutto a livello individuale sugli stessi lavoratori vittime della “flessibilizzazione” i quali, in ragione della somma incertezza causata da queste forme lavorative (incerte sia nell’an sia nel quantum), sono stati comunemente definiti “lavoratori precari”. Precarietà che si è riflessa sull’esistenza e sulle vite stesse, attraverso lo smarrimento di una precisa identità professionale (scissa, come abbiamo visto, in una moltitudine di disperse tessere lavorative), la perdita del controllo del tempo (con lavori che possono occupare, senza preavviso, qualunque parte della giornata o della settimana -come i cosiddetti lavori a chiamata- o estendersi anche oltre l’orario canonico di lavoro -da cui il “lavoro senza fine”-), la fine della mobilità sociale (in ragione di retribuzioni sotto il livello minimo di sussistenza), la sottoccupazione (ovverosia lo svolgimento di mansioni di gran lunga inferiori rispetto al proprio patrimonio professionale)[20].

I lavoratori flessibili, dunque, diventano ostaggi di due trappole: quella della precarietà e quella direttamente connessa della povertà, da cui drammaticamente non riescono ad uscire.

Ecco spiegato il dilagare, da alcuni anni a questa parte, di numerose patologie psichiche, in primo luogo della depressione, “la quale può essere definita la malattia sociale nell’era del tecno-nichilismo”[21]. Il crollo delle aspettative individuali e sociali in ordine alla realizzazione professionale (ovviamente vanificata da una vita precaria ed incerta) ed al correlativo culto della performance e dell’efficacia (la già citata “lois de l’efficacitè”), infatti, ben può ascriversi tra le cause di primo piano nella patogenesi dei sempre più numerosi disturbi depressivi (tra cui l’ansia e lo stress) espressione, a loro volta, “dell’insostenibilità del sistema tecnico e delle sue determinazioni sociali”[22].

Le conseguenze del profondo malessere sociale frutto dell’esplosiva miscellanea tra flessibilità, incertezza, disoccupazione e povertà sono alla radice anche dei sempre più numerosi movimenti sociali di protesta[23] che, dal 2011 ad oggi, hanno spinto nelle piazze di tutto il mondo migliaia di persone “indignate” le quali, a loro volta, hanno ingrossato le fila della nuova “classe esplosiva”, il precariato, insieme di “non-cittadini” (denizens) “dipendenti dalla volontà altrui…postulanti privi di diritti, soggetti alla carità o al benvolere altrui”[24] alla ricerca di una rinnovata cittadinanza sociale.

Flessibilità senza sicurezza

Che ne è invece della “sicurezza”, secondo elemento del binomio “flexicurity”, dinanzi a questo disastroso stato di cose causato dalla flessibilità?

Se da un lato la devastante crisi economico-finanziaria in corso dal 2008, sostanziatasi anche nel cosiddetto “credit crunch” (“stretta creditizia”) ha limitato notevolmente le forme di sostegno bancario al reddito attraverso la fine del “credito facile” e la riduzione degli strumenti di indebitamento (concessi soltanto dopo lunghe e severissime istruttorie), dall’altro le forme pubbliche di supporto del reddito e dell’occupazione sono state, soprattutto in Europa, falcidiate e ridotte ai minimi termini dalle rigorose politiche di austerity[25] ormai in corso da anni.

Ciò si è tradotto, in concreto, nell’introduzione di rigorosi sistemi di controllo, valutazione e condizionamento dei richiedenti i sussidi pubblici nei Paesi Europei (la maggioranza) che hanno un meccanismo di reddito minimo garantito condizionato[26]: innovazioni che, di fatto, hanno comportato una drastica riduzione nelle erogazioni dei sussidi necessari a garantire la “sicurezza” ai sempre più numerosi soggetti estromessi dal mondo del lavoro flessibile[27]. L’Italia, ovviamente, si caratterizza per essere il “fanalino di coda” anche in materia di sicurezza sociale insieme agli altri paesi dell’ “area mediterranea”, il cui raggruppamento è connotato dall’ “assenza di una rete di protezione minima di base, non di categoria, erogata e gestita a livello di governo centrale”[28]. E tale linea di tendenza regressiva, peraltro, non sembra essere più di tanto intaccata dall’introduzione dei nuovi ammortizzatori sociali previsti nello schema di decreto del 24 dicembre 2014, che ha introdotto la cosiddetta Naspi, la Asdi e la Discoll, sussidi di disoccupazione limitati nel tempo, condizionali e non universali.

Il paradosso dell’improduttività

Abbiamo dunque visto, nel nostro breve volo radente sul mondo del lavoro, come le macerie lasciate dalla “flessibilità” non siano state neanche rimosse dalla “sicurezza”, la cui promessa sarebbe insita nel mito della “flexicurity”.

Al contrario ed anche sorprendentemente, decenni di “iniezione” del fluido lavoro flessibile nei circuiti del mercato del lavoro non hanno portato allo sperato aumento di produttività così come ipotizzato dalla dogmatica neoliberista, tutt’altro: l’analisi empirica dei dati economici degli ultimi anni ha anzi rivelato la sussistenza di una relazione inversa tra flessibilità e produttività, per cui all’aumento della prima diminuirebbe costantemente la seconda. Ed invero, “la maggiore occupazione, ottenuta con contratti di questo tipo -spesso riguardanti lavoratori marginali, sul cui capitale umano le imprese si presume che investano poco- si sarebbe accompagnata a minori contributi in termini di produttività. In questa direzione vanno sia i contributi che utilizzano dati a livello microeconomico sia i contributi di tipo macroeconomico”[29]:una sentenza inappellabile.

Del resto, che la precarietà derivante dal lavoro flessibile non fosse sorella della produttività era già da tempo desumibile, sul piano della prospettiva sociologica, considerando il classico esempio del lavoratore con contratto a tempo determinato a breve scadenza il quale, dinanzi ad un pezzo difettoso trovato lungo la catena di montaggio, preferisce girare il capo piuttosto che preoccuparsi di rimuoverlo[30].

Scattiamo a questo punto un’istantanea del quadro lavorativo contemporaneo, riprendendo nel complesso i tratti già visti nel nostro fin qui breve percorso: ci troviamo dinanzi a lavoratori ormai totalmente mercificati, privi di potere contrattuale a causa sia dell’ampia massa di manodopera di riserva prodotta dalla disoccupazione sia in ragione della quasi totale perdita dei diritti un tempo contenuti negli “statuti lavorativi”, con retribuzioni dal livello molto basso, ai limiti della sussistenza (cosiddetto lavoro povero) e corrosi nel carattere e nella personalità dall’insicurezza generata dalla precarietà che è l’architrave dell’intero sistema lavorativo.

Lavoro e attività lavorativa

Se tuttavia mettiamo meglio a fuoco la visione del quadro generale, possiamo osservare come a fianco del lavoro svolto obbligatoriamente allo scopo di affrancarsi dal bisogno materiale e ciononostante povero di diritti e di salario e scarsamente produttivo di beni e di servizi, si pone un nuovo e diffuso fenomeno, analizzato da numerosi studiosi ed oggetto di molteplici definizioni; stiamo parlando di quella forma di lavoro scelto e svolto liberamente da milioni di persone ogni giorno, che pur non essendo remunerato è produttivo di un ingente valore sociale[31]: il lavoro volontario nelle organizzazioni no profit (pensiamo ad esempio alle migliaia di persone attive nell’assistenza ai disabili, ai poveri, ai migranti, alle innumerevoli persone che con costanza e passione fanno vivere le associazioni culturali, ambientali e le associazioni dilettantistiche sportive), il lavoro di cura ed assistenza domestico e familiare (rammentiamo l’attività di cura dei nipoti da parte dei nonni, vero e proprio welfare sociale familiare e l’attività delle madri e dei padri che impegnano larga parte della giornata nella cura e nell’educazione dei figli), l’attività di creazione e diffusione della conoscenza con cui quotidianamente abbiamo a che fare nella “rete”, sia nei blog sia nei contributi a matrice aperta pubblicati sul web.Distinzione, questa, che pare riflettere l’emergente divisione tra economia sociale ed economia di mercato[32]e che si sostanzia nella scissione tra attività umane produttive di valore sociale ma non certificate come tali dal “mercato” (trattandosi della produzione di valori “immateriali”, difficilmente quantificabili in forma di prezzo, unità di misura tipica del mercato) e processi lavorativi tradizionali oggetto di un costante processo di svalutazione economica e funzionale[33]. Da qui, nella letteratura lavoristica, il moltiplicarsi delle contrapposizioni tra work e labour[34], tra opus e labor[35], tra lavoro e attività[36].

Siamo dunque alla fine del lavoro, vaticinata vent’anni orsono in un famoso saggio dall’omonimo titolo[37]? La risposta non sembra positiva; al contrario, gli indicatori empirici paiono di tutt’altro segno: il lavoro è proteiforme, ha mutato rapidamente forma e aspetto.

Se è vero infatti che l’art. 1 della Costituzione, nell’affermare solennemente il nesso inscindibile tra democrazia e lavoro[38], ci dice anche e soprattutto che “lavorare non è l’esperienza del servo o dello schiavo, ma del cittadino libero”[39]allora ben potremo convenire con chi definisce come “lavoro alienato” le maggioritarie forme di lavoro povero flessibile (simulacri del lavoro), al contrario esaltando quale “lavoro libero” le attività lavorative non remunerate a finalità sociale[40].

E’ dunque possibile sostenere, a ragione, che queste ultime forme di attività rappresentano la sublimazione del lavoro così come costituzionalmente inteso, in quanto sintesi ed equilibrio della libera realizzazione del proprio daimon (talento) e della altresì necessaria finalità sociale[41].

Eppure, manca l’elemento fondamentale ai fini della liberazione dell’uomo dalla schiavitù del bisogno, ovverosia la retribuzione. Eccoci arrivati allo snodo cruciale che richiede un coraggioso “salto culturale”[42].

Una via d’uscita: il reddito minimo universale

Se è vero, come abbiamo poc’anzi visto, che si è sviluppato un sistema parallelo di attività umane produttive di valore e ricchezza sociale senza remunerazione alcuna (tali da far parlare, come abbiamo visto, di “economia sociale”), è giusto che tali attività vengano remunerate direttamente dai beneficiari, ovvero dalla società[43]: ecco nascere l’esigenza, sempre più diffusa, di forme di “reddito minimo universale”[44] (definito anche basic income), erogabili dalle autorità pubbliche locali, nazionali o sovranazionali, ed a carico quindi della fiscalità generale[45].

Il reddito minimo universale, dunque, acquista in tale ottica la natura di un reddito (con cadenza mensile o periodica, attraverso un trasferimento diretto di denaro[46]) versato dalla società (nella forma della comunità politica locale, nazionale o sovranazionale[47]) a tutti i suoi membri[48], su base individuale e senza nè condizioni (ovvero non subordinato allo svolgimento di specifici lavori ordinari indicati, ad esempio, dai centri per l’impiego come nel modello del reddito minimo garantito) nè controllo dei mezzi economici (erogato dunque indipendentemente dalla sussistenza o meno di uno stato di bisogno economico), trattandosi della remunerazione per le molteplici forme di attività produttiva sociale svolte da ciascuno[49]. Un reddito “minimo”[50], ovvero sufficiente alla sola sopravvivenza dell’individuo (al fine di stimolare la persona ad un miglioramento delle proprie condizioni materiali attraverso il classico lavoro proprio dell’economia di mercato, dunque cumulabile con eventuali altri redditi aggiuntivi) e al contempo sufficiente ad affrancare le persone dalla “trappola della povertà” e del bisogno immediato, conferendo appunto una minima sicurezza di base[51].

Esperienze concrete di tale istituto, a parte quella consolidata dello stato dell’Alaska[52]e altre limitate applicazioni sociali[53], non se ne hanno: si tratta di un esperimento di “ingegneria sociale” inedito e di fatto nuovo per l’umanità. Ma vale la pena sperimentarlo, sia per le profonde motivazioni ideali[54]ivi sottese sia per le concrete ed impellenti istanze di giustizia sociale che esso porta con sé: del resto, “come è avvenuto nel passato per il suffragio universale, la metamorfosi del reddito minimo universale, da sogno di qualche eccentrico a evidenza per tutti, non avverrà in un sol giorno”[55].

Ovviamente non è nostra intenzione addentrarci nel “campo minato” delle discussioni relative alla compatibilità economica di questo vero e proprio strumento di “salario sociale”, pur ritenendo particolarmente interessanti e degne di rilievo le considerazioni svolte da Andrea Fumagalli il quale, nel suo recente saggio “Lavoro male comune”, ha posto in rilievo la fattibilità economica del reddito minimo garantito, che dovrebbe sostituire tutte le forme di ammortizzatori sociali oggi sussistenti (indennità di disoccupazione, cassa integrazione e simili), incidendo non sulla contribuzione sociale (Inps) ma sulla fiscalità generale (Irpef e altre imposte): con ciò, considerazione non secondaria, andando a ridurre il cuneo fiscale sul lavoro rappresentato dal costo dei contributi, che diminuirebbero della quota corrispondente all’eliminazione dei relativi ammortizzatori[56].

Fine del lavoro, diritto alla scelta del lavoro e seconda globalizzazione

Ora, come si affaccerebbe sul mercato del lavoro ordinario la persona che, essendo già remunerata -nel minimo vitale- per le attività sociali svolte nella vita quotidiana, fosse quindi affrancata dal bisogno primario di vivere?

Eccoci tornati, attraverso il reddito minimo universale, alla riappropriazione del potere contrattuale sottratto dallo strumento della flessibilità: certamente l’incremento della disponibilità economica di base di ciascun individuo potrebbe chiudere le porte alla “ricerca di un lavoro qualsiasi”, schiudendo al contempo gli orizzonti del “diritto alla scelta del lavoro”[57]. Con la correlativa necessità, per ciò che riguarda il lato della “domanda di lavoro” datoriale, di offrire condizioni lavorative più decorose e salari finalmente dignitosi, allo scopo di acquisire una manodopera che, altrimenti, diventerebbe pressoché irreperibile: e’ la fine del lavoro contemporaneo, e con esso la fine della dittatura della flessibilità esasperata e della “moderazione salariale”.

Questi potrebbero essere, in nuce, i germogli della “seconda globalizzazione”[58], di una nuova epoca in cui, oltre alla nascita di una nuova economia di mercato basata sullo sfruttamento delle energie rinnovabili[59], sulla conoscenza e sull’innovazione (la cosiddetta knoledge economy), sul ritorno della dialettica globale/locale con la riscoperta della centralità dei luoghi e delle comunità[60], vi sia altresì la forte affermazione della centralità dell’uomo attraverso un rinnovato illuminismo che, contro ogni forma di oscurantismo neoliberistico, ponga al servizio della società e della persona la tecnica e, prima fra tutte, la tecnica economica.

NOTE

[1] Ridefinita flexsecurity nell’omonimo progetto redatto da Pietro Ichino ed esposto nel suo Inchiesta sul lavoro, Milano, Mondadori, 2011, pp. 113 e ss.

[2] S. Porcari, Le politiche del lavoro, in Il mercato del lavoro in Italia, a cura di C. Dell’Aringa e C. Lucifora, Roma, Carocci, 2009, p. 255.

[3] Dapprima con la Seo, acronimo che sta per Strategia Europea del Lavoro (iniziata con il vertice di Lussemburgo del novembre 1997) e successivamente con la “Strategia di Lisbona” che, nel quadro già tracciato dalla Seo, è intervenuta nel 2000 sforzandosi di promuovere al livello comunitario le politiche di “flessicurezza” ed affermando la necessità di un’integrazione delle politiche del lavoro parallela all’integrazione delle politiche economico-monetarie. Le parole d’ordine sono “more and better jobs”,ovverosia la creazione sia di una quantità maggiore sia di una qualità migliore del lavoro, dando luogo ad un capitale umano altamente qualificato e ad un mercato del lavoro sempre più flessibile e sicuro.
[4] S. Porcari, Le politiche del lavoro, cit., p. 252-254.

[5] M. Magatti, L’infarto dell’economia mondiale, Milano, Vita e Pensiero, 2014.

[6] A. Camus, L’uomo in rivolta (trad. it. di L’homme revoltè), Milano, Bompiani, ed. 2009, p. 7: “In quest’ultimo caso, in mancanza di un valore superiore che orienti l’azione, ci si dirigerà nel senso dell’efficacia immediata. Nulla essendo vero o falso, buono o cattivo, la norma consisterà nel mostrarsi il più efficace, cioè il più forte. Gli uomini allora non si divideranno più in giusti ed ingiusti, ma in signori e schiavi”.

[7] N. Irti, Nichilismo Giuridico, 2005, Bari-Roma, Laterza, p. 34-35.

[8] Z. Bauman, Vita liquida, Roma-Bari, Laterza, ed. 2009, p. 96: “Solo lo scarto tende ad essere, ahimè, solido e durevole. Solidità è ormai sinonimo di scarto”. 

[9] Z. Bauman, Vite di scarto, Roma-Bari, Laterza, ed. 2007, p. 17: “Venire dichiarato in esubero significa essere stato eliminato per il fatto stesso di essere eliminabile: proprio come la bottiglia di plastica vuota e non rimborsabile o la siringa monouso, un bene privo di attrattiva e senza acquirenti, o un prodotto imperfetto o difettoso, inutilizzabile, che gli addetti al controllo qualità scartano dalla catena di montaggio. Esubero divide il suo spazio semantico con scarti, prodotti di risulta, immondizie, pattume: con rifiuti. La destinazione dei disoccupati, dell’esercito di riserva del lavoro, era quella di venire richiamati in servizio attivo. La destinazione dei rifiuti è la discarica, l’immondezzaio”.

[10] M. Magatti, L’infarto dell’economia mondiale, Milano, Vita e Pensiero, 2014, p. 78 e ss.; si veda anche, per un’approfondita e puntuale analisi, B. Barber, Consumati, da cittadini a clienti, Torino, Einaudi, 2010.

[11] Si tratta di un sistema di finanziamento molto diffuso soprattutto in Gran Bretagna, consistente nell’erogazione con modalità informale, veloce e senza istruttoria di crediti per somme non ingenti da restituire in breve tempo, di solito entro il giorno di pagamento dello stipendio (da qui il termine payday loan), con alti interessi caricati giornalmente, che generano spesso una “catena del debito”, si veda G. Standing, Diventare cittadini – Un manifesto del precariato, Milano, Feltrinelli, 2015, p. 218 e ss.

[12] Citiamo, nella immensa letteratura occupatasi della materia, L. Gallino, Il lavoro non è una merce, Roma-Bari, Laterza, 2007; R. Sennet, L’uomo flessibile, Milano, Feltrinelli, 1999; G. Standing, Precari – La nuova classe esplosiva, Bologna, Il Mulino, 2012; G. Standing, Diventare cittadini – Un manifesto del precariato, Milano, Feltrinelli, 2015.

[13] D.L. 34 del 20 marzo 2014 convertito con Legge n. 78/2014. Per un primo commento, si veda Santoro Passarelli, Jobs Act e contratto a tempo determinato,Torino, Giappichelli, 2014.

[14] Si veda lo “Schema di decreto legislativo recante disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183″, reso pubblico il 24 dicembre 2014 ed in attesa dell’approvazione definitiva dopo i pareri non vincolanti delle competenti Commissioni parlamentari.

[15] Art. 1 comma 7 lett. d) L. 183/2014.

[16] G. Standing, Diventare cittadini – Un manifesto del precariato, Milano, Feltrinelli, 2015, p. 69.

[17] Carlo Formenti, Se il lavoro si uberizza, blog Micromega, ultima consultazione 7 febbraio 2015.

[18] Fino alle forme di lavoro infimo e addirittura gratuito recentemente denunciate con riguardo all’evento di Milano-Expo 2015 da Giorgio Cremaschi, L’Expo della precarietà,in blog Micromega, ultima consultazione 9 febbraio 2015.

[19] Si tratta della ricerca “Working poor: un’analisi sui lavoratori a bassa remunerazione dopo la crisi”, a cura di Claudio Lucifora, i cui risultati sono stati presentati al Cnel e pubblicati su La Repubblica del 10 febbraio 2015, p. 25, nell’articolo a firma di Roberto Mania, “Quasi 4 milioni di working poor hanno il lavoro ma non basta più”. 

[20] G. Standing, Diventare cittadini – Un manifesto del precariato, cit., pp. 29 e ss.;

[21] M. Magatti, L’infarto dell’economia mondiale, cit., p. 79, in senso analogo, L. Gallino, Il lavoro non è una merce, cit., p. 84-85.

[22] M. Magatti, L’infarto dell’economia mondiale, cit., p. 81.

[23] G. Standing, Diventare cittadini – Un manifesto del precariato, cit., p. 112; si veda, per un’attenta e concreta analisi delle cause delle rivolte nelle città inglesi avvenute nell’agosto 2011, il reportage Gioventù bruciata di Fabrizio Gatti, in L’Espresso, 1 settembre 2011, p. 90-91.

[24]G. Standing, Diventare cittadini – Un manifesto del precariato, cit., p. 29;

[25]G. Standing, Diventare cittadini – Un manifesto del precariato, cit., p. 38 e ss.;

[26] Si tratta di quelle forme di reddito minimo garantito che, nei diversi paesi dell’Europa continentale (fra i principali Francia, Gran Bretagna, Germania, Olanda, Belgio), prevedono -a seguito della valutazione in ordine alla sussistenza di un’effettiva situazione economica di bisogno (cd test dei mezzi)- l’erogazione di un sussidio economico mensile, unitamente ad una serie di benefit aggiuntivi (per l’affitto, per le bollette, per la scuola, per i trasporti e simili), a condizione che il richiedente si impegni a cercare un lavoro o ad accettare l’impiego eventualmente reperito dal competente Centro per l’Impiego e a svolgere le attività formative richieste, impegno solitamente sancito dalla sottoscrizione di un contratto cd di ricollocazione. Per un’ampia e documentata trattazione dei differenti sistemi europei di reddito minimo, si rimanda al saggio di G. Perazzoli, Contro la miseria – viaggio nell’Europa del Welfare, Roma-Bari, Laterza, 2014.

[27]G. Standing, Diventare cittadini – Un manifesto del precariato, cit., pp. 190 e ss.; sulle modifiche al sistema del reddito minimo garantito in Gran Bretagna ed in Germania, G. Perazzoli, Contro la miseria – Viaggio nell’Europa del nuovo welfare, cit., p. 55 e ss.

[28] S. Porcari, Le politiche del lavoro, cit., p. 252.

[29] C. Dell’Aringa e C. Lucifora, Introduzione, in Il mercato del lavoro in Italia, cit., p. 17.

[30] Si veda L. Gallino in Il Lavoro non è una merce, cit., p. 55: “i contratti a termine, che sappiamo essere per lo più brevi, hanno un effetto negativo sulla produttività. Motivo? E’ semplice, potrebbe rispondere un qualsiasi esperto di organizzazione aziendale. Sul piano individuale, il lavoratore il quale deve pensare soprattutto a come trovare un nuovo contratto prima che scada quello in vigore è scarsamente motivato sul lavoro; non dispone di tempo per la formazione, né l’impresa ha alcun incentivo a fornirgliela; infine, lascia l’impresa prima di avere cumulato le esperienze da cui dipende in alto grado la produttività del lavoro. Sul piano organizzativo, la presenza nella stessa unità produttiva di lavoratori che ruotano di continuo, fra contratti che finiscono e contratti che cominciano, e dipendenti di aziende terze che ruotano quasi ogni giorno, limita lo sviluppo dello scambio di conoscenze, codici verbali e non verbali, sinergie tra competenze diverse, che sono un altro elemento essenziale della produttività”.

[31] Fenomeno che J. Rifkin nel suo La società a costo marginale zero, Milano, Mondadori, 2014, p.185-187, definisce come la rivoluzione del lavoro, con l’ascesa di un’economia sociale basata sul Commons collaborativo: “L’idea stessa che il valore di un essere umano fosse misurato quasi esclusivamente dalla sua produttività di beni e servizi e ricchezza materiale apparirà primitiva, se non barbara, e sarà guardata dai nostri posteri -cittadini di un mondo altamente automatizzato in cui gran parte dell’esistenza sarà vissuta all’interno del Commons collaborativo – come un terribile spreco di valore umano”.

[32] Jeremy Rifkin, La società a costo marginale zero, cit., pp. 185 e ss.

[33] Sic A. Fumagalli, Lavoro male comune, Milano, Bruno Mondadori, 2013, p.103:“Ciò che nel capitalismo materiale fordista veniva considerato improduttivo (cioè non produttivo di valore e quindi non soggetto ad alcuna forma di remunerazione) oggi è diventato produttivo. Ma le forme giuridiche, giuslavoriste statuali e sindacali di remunerazione sono rimaste ancorate al paradigma fordista. Siamo dunque davanti ad una sorta di scissione: da un lato, forme di attività umana sono diventate produttive ma non sono certificate come tali e quindi stimate sulla base di regole negoziali e contrattuali del tutto inadeguate; dall’altro, in modo apparentemente paradossale, un lento ma costante processo di svalutazione dei processi lavorativi tradizionali“.

[34] G. Standing, Diventare cittadini – Un manifesto del precariato, cit., p. 21.

[35] A. Fumagalli, Lavoro male comune, cit., pp. 35 e ss.

[36] R. Dahrendorf, Libertà attiva – Sei lezioni su un mondo instabile, Roma-Bari, Laterza, 2005, pp. 45 e ss.; analogamente L. Bruni, in Fondati sul lavoro, Milano, Vita e Pensiero, 2014, p. 30, distingue tra lavoro e attività lavorativa, essendo la prima forma connotata dalla remunerazione e la seconda potendo consistere in attività lavorativa non remunerata con finalità sociale.

[37] Jeremy Rifkin, La fine del lavoro, Milano, Mondadori, 1995.

[38] L. Bruni, in Fondati sul lavoro, cit., p. 25.

[39] L. Bruni, in Fondati sul lavoro, cit., p. 26.

[40] G. Standing, Diventare cittadini – Un manifesto del precariato, cit., pp. 20 e ss.

[41] Vide anche L. Bruni, in Fondati sul lavoro, cit., p. 67 e ss., in cui tuttavia è svolta una critica alle forme di “reddito di cittadinanza”.

[42] A. Fumagalli, Lavoro male comune, cit., pp. 101 e ss.

[43] “Nell’attuale contesto economico, occorre avere il coraggio di affermare che se la vita (nei suoi vari tempi, che abbiamo denominato tempo di lavoro, di opera, di ozio e di svago) viene messa a valore e produce ricchezza, allora è la vita intera che deve essere remunerata. Se non fosse così, si ripristinerebbe la schiavitù”, sic A. Fumagalli, Lavoro male comune, cit., p.101; in J. Rifkin, La Fine del Lavoro, Milano, Mondadori, edizione 2002, p. XLIX e ss., sembrerebbe affermarsi la possibilità di remunerare tali attività attraverso sistemi di valuta parallela, quali le “banche delle ore”.

[44] Mentre il reddito minimo garantito -già esistente nei paesi dell’Europa centrale e sopradescritto- si caratterizza per essere riservato ai meno abbienti (test dei mezzi), è spesso erogato su base familiare, ed è condizionato dall’impegno dei richiedenti all’inserimento lavorativo e alla disponibilità di accettare un lavoro, il reddito minimo universale o basic incombe (definito comunemente anche “reddito di cittadinanza”) è attribuito a tutti, ricchi e poveri (senza controllo delle risorse patrimoniali), su base individuale e senza alcuna esigenza di contropartite. Il reddito minimo universale è cumulabile con altre forme di reddito, mentre il reddito minimo garantito viene meno -o diminuisce- con l’ingresso di altre forme di reddito: non è dunque cumulabile. Si rimanda, per un’ampia trattazione, a P. Van Parijs e Y. Vanderborght, Il reddito minimo universale, Milano, Egea, ed. 2013; si veda anche G. Perazzoli, Contro la miseria, cit.,pp. 129 e ss.; G. Standig, Diventare cittadini – Un manifesto del precariato, cit., p. 244-260; G. Standing, Precari, cit., p. 271-273; A. Fumagalli, Lavoro male comune, cit., p. 97-114. 

[45] A. Fumagalli, Lavoro male comune, cit. p. 98. Sono tuttavia possibili, come insegna l’esperienza dell’Alaska, forme di finanziamento differenti, attraverso ad esempio le plusvalenze maturate da fondi sovrani di investimento costituiti dai proventi dell’estrazione delle risorse naturali (petrolio) o dagli introiti della tassazione delle rendite finanziarie o dell’inquinamento (nel caso dell’Alaska, si tratta di un fondo sovrano -l’Alaska Permanent Fund- costituito con parte dei proventi derivanti dall’estrazione del petrolio, le cui rendite vengono suddivise in parti uguali, alla fine di ogni anno, tra tutti i cittadini residenti in Alaska da almeno sei mesi, un dividendo sociale che di fatto assume la forma di integrazione del reddito o reddito minimo universale).

[46] L’erogazione diretta e mensile di una somma di denaro è la forma più comune e preferita nella letteratura intervenuta in materia (si veda in particolare Standing,Diventare cittadini, cit., p. 245), rispetto ad altri possibili interventi, quali i crediti d’imposta o le somme di denaro una tantum o annuali.

[47] P. Van Parijs e Y. Vanderborght, Il reddito minimo universale, Milano, Egea, ed. 2013, pp. 137-139, ipotizzano la possibilità di un eurodividendo di € 1.000,00 netti annuali per ogni persona, da finanziare con la riallocazione dei proventi dell’Iva, dei fondi strutturali e con un’istituenda “tassa europea sull’energia inquinante”.

[48] Il reddito di base, secondo tale prospettiva, “non è una forma di assistenza sociale”, bensì una forma di distribuzione diretta primaria del reddito, A. Fumagalli, Lavoro male comune, p. 102 e 106.

[49] Differente è la definizione di P. Van Parijs e Y. Vanderborght, Il reddito minimo universale, Milano, Egea, ed. 2013, pp. 5 e ss., che parlano di reddito minimo senza “esigenza di contropartite”, conferendo a tale strumento natura “assistenziale” ed ignorando dunque il profilo strettamente remunerativo di attività sociale evidenziato da A. Fumagalli e ribadito nel presente lavoro.

[50] A. Fumagalli nello scritto citato evidenzia la compatibilità economica di un reddito minimo universale di 600/700 € al mese, in sostituzione di tutti gli ammortizzatori sociali esistenti, con un aggravio annuo tra i 5 e i 15 miliardi di euro rispetto alla spesa corrente. Somme di gran lunga inferiori rispetto, ad esempio, alle quattro finanziarie succedutesi da agosto 2011 in poi (targate Tremonti e Monti), costate in nome dell’austerity quasi 100 miliardi di euro, A. Fumagalli, Lavoro Male comune, p. 110-111; G. Standig in Diventare cittadini, cit., p. 248, ipotizza invece un reddito minimo universale su tre livelli, di cui il primo rappresentato da una cifra fissa legata alle necessità economiche della sussistenza, da adeguare solo in caso di cambiamenti nel reddito nazionale pro capite, il secondo in funzione di emolumento economico stabilizzatore anticiclico, ovverosia crescente in fase recessiva e discendente in fase espansiva; il terzo ed ultimo livello, infine, relativo ai costi addizionali per le necessità extra dei disabili.

[51] G. Standig, Diventare cittadini – Un manifesto del precariato, cit., p. 245. 

[52] Definito come l’unico vero sistema di reddito minimo universale ad oggi esistente, viene istituito nel 1976 dal governatore repubblicano (a riprova che certe idee non hanno specifiche etichette..) Jay Hammond per mettere a frutto a favore dei propri concittadini l’enorme ricchezza generata dai pozzi di petrolio della Baia di Prudhoe, il più importante giacimento dell’America Settentrionale. Viene dunque creato nel 1976 un Fondo sovrano permanente con gli introiti derivanti dall’estrazione e dalla vendita del petrolio, i cui dividendi vengono distribuiti annualmente e suddivisi in parti uguali tra tutti coloro che risiedono legalmente in Alaska da almeno sei mesi (oggi circa 650.00 persone). L’importo è passato da circa 300 dollari annuali a persona nei primi anni, a più di 2.000,00 dollari annui nel 2000, rendendo l’Alaska lo stato più egualitario degli Stati Uniti. Nel 2004 il dividendo è sceso a 920 dollari annui a persona. Si veda P. Van Parijs e Y. Vanderborght, Il reddito minimo universale, cit., pp. 30-31.

[53] Si annovera il Brasile, che nel gennaio del 2004 ha approvato una legge che, in linea di principio, istituisce il “reddito di base per tutti i brasiliani”. Tuttavia, il testo della legge specifica come si inizierà dai più bisognosi, per poi via via estenderlo a tutti gli strati della popolazione, in relazione alla fattibilità di bilancio: più un impegno programmatico che una concreta esperienza. In Standing, Diventare cittadini – Un manifesto del precariato, cit., vengono citati anche degli esperimenti pilota condotti dallo stesso autore in alcuni villaggi indiani nel periodo 2011-2013 (p.252) nonché l’esperienza iraniana di un fondo sovrano pubblico con scopo e funzionalità analoga a quella dell’Alaska Permanent Fund (p. 264).

[54] Ascoltiamo, a tal proposito, le parole di Chiara Saraceno: “La ragione forte, sul piano dei principi, sta proprio nel suo carattere di riconoscimento di diritto individuale a una dotazione di base che consenta lo sviluppo di capacità e sciolga i lacci della dipendenza come destino sociale: che si tratti del destino dell’origine di nascita o di quella del legame familiare. Non vi è piena cittadinanza se la famiglia in cui si nasce definisce il perimetro delle scelte possibili, se occorre accettare un lavoro purchessia, anche se degradante o malpagato, se non si può uscire da un matrimonio non più sostenibile, se si dipende dal giudizio e disponibilità di altri – familiari o assistenza sociale – nel soddisfacimento di tutte le proprie necessità. Un reddito di base consente individualizzazione, scelta, senza per questo eliminare responsabilità verso altri e interdipendenze” (in P. Van Parijs e Y. Vanderborght, Il reddito minimo universale, Prefazione alla prima edizione, XXIX).

[55] Van Parijs e Y. Vanderborght, Il reddito minimo universale, cit., p. 142.

[56] A. Fumagalli, Lavoro male comune, cit. , p. 113: “un unico ammortizzatore sociale a carico della fiscalità collettiva, uguale per tutti, che vada progressivamente a sostituire quelli vecchi sembra ragionevole, anche perché consentirebbe di ridurre quel cuneo fiscale sul lavoro rappresentato dai contributi sociali a favore di un maggiore salario in busta paga”[56].

[57] A. Fumagalli, Lavoro male comune, cit., p. 114.

[58] Si rimanda a M. Magatti, L’infarto dell’economia mondiale, cit., pp. 63 e ss.

[59] J. Rifkin, La Terza Rivoluzione Industriale, Milano, Mondadori, 2011.

[60] E. Moretti, La nuova geografia del lavoro, Milano, Mondadori, 2013.

(11 febbraio 2015)

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