Il sottosegretario alle Politiche Sociali Maria Cecilia Guerra ha risposto così alla specifica domanda: questo Governo non farà una misura di reddito garantito, minimo, di cittadinanza, basic income, comunque lo si voglia chiamare. Il ministro Fornero lo aveva preannunciato, evidentemente in modo improvvido, a pochi giorni dall’assunzione del suo incarico governativo, ora è arrivata una smentita definitiva, benché non motivata se non genericamente con la carenza di risorse economiche disponibili.
Pare che l’ipotesi alternativa (?) alla quale si sta lavorando è una Social Card riformata da ridisegnare a livello locale sulla base delle differenti condizioni dei territori. Mi risulta difficile trovare una coerenza fra le due misure, la “carta acquisti” è “preordinata ad alleviare una situazione di estremo bisogno e di difficoltà nella quale versano talune persone, mediante l’erogazione di una prestazione che non è compresa tra quelle assicurate dal sistema previdenziale e da quello sanitario, ma costituisce un intervento di politica sociale attinente all’ambito materiale dell’assistenza e dei servizi sociali, oggetto di una competenza residuale regionale” (Sentenza Corte Costituzionale n° 10 del 2010).
Il nodo è venuto al pettine durante la sessione di chiusura della Conferenza nazionale “Cresce il welfare, cresce l’Italia” che si è tenuta a Roma il 1 e 2 marzo, dove cinquanta organizzazioni del sociale si sono riunite per ragionare sulle politiche e elaborare proposte per un nuovo modello di welfare.
Nel frattempo è andato avanti il confronto fra governo e parti sociali per la riforma del mercato del lavoro, e degli ammortizzatori sociali. All’orizzonte un accordo che giorno per giorno si avvicina un po’, poi si allontana, poi viene sostenuto dal governo, poi ritenuto non indispensabile, poi caldeggiato dai partiti, ma tanto la riforma si farà. E si farà comunque, con o senza accordo, entro marzo, secondo l’impegno preso da Monti il giorno del suo insediamento e come richiesto dalla solita Europa. Così come d’altronde è successo per la Grecia, per la Spagna.
Ma l’Europa, nelle sue raccomandazioni all’Italia sul Piano Nazionale di Riforma, già evidenziava che i lavoratori con contratti a tempo determinato, in particolare quando sono ufficialmente registrati come lavoratori autonomi ma hanno, in concreto, un rapporto di lavoro subordinato, hanno una tutela minore e che non tutti i lavoratori che perdono il posto di lavoro ricevono un adeguato sostegno al reddito, in quanto la segmentazione del mercato del lavoro si accompagna ad un sistema frammentato di indennità di disoccupazione.
E quindi il governo italiano si è proiettato su una riforma che, con l’intenzione dichiarata di superare la segmentazione del mercato del lavoro, agisce da un solo versante, e cioè quello della riduzione delle tutele per i lavoratori dipendenti, senza introdurre alcuna misura per tutelare le fasce più deboli: gli inoccupati, i lavoratori precari, tutti quelli che lavorano in una delle altre 45 forme contrattuali previste dall’ordinamento italiano, i disoccupati di lunga durata, chi perde il lavoro ad un’età più avanzata, ma non abbastanza avanzata da consentire il pensionamento, traguardo che si allontana sempre di più, forse nel tentativo di ridurre lo spread fra l’età pensionabile e quella della morte.
Lo fa con l’attacco all’articolo 18, secondo un’ipotesi che lo manterrebbe solo per i licenziamenti discriminatori o nulli. E quando la Cgil su questo si irrigidisce perché ritiene giusto mantenere un diritto essenziale conquistato dai lavoratori, che oggi si tende a definire “privilegio”, non manca chi grida agli estremismi. E’ ancora necessario ricordare l’esiguità delle cause di lavoro relative a fattispecie ricadenti nell’articolo 18, a fronte per esempio del numero di donne “dimesse” a seguito di gravidanza senza neanche l’onere per l’impresa di mandare una lettera di licenziamento ?
E lo fa con una proposta di riforma degli ammortizzatori sociali che opererebbe solo per i lavoratori dipendenti, e che riduce gli effetti delle protezioni perché ne contrae la durata e ne abbassa il valore, mentre non si hanno notizie di misure che dovrebbero riguardare tutta la platea del lavoro non dipendente: la nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego andrebbe infatti a sostituire l’indennità di mobilità, di disoccupazione ordinaria, con requisiti ridotti e quella speciale edile, riducendone però gli importi e mantenendo la tutela sul posto di lavoro limitatamente ai casi in cui la ripresa dell’attività lavorativa appaia probabile, cancellando quindi quelli che vengono ritenuti scivoli estremamente lunghi quando la ripresa dell’attività lavorativa è altamente improbabile se non del tutto impossibile.
Dunque: restringimento dei diritti, delle tutele, delle protezioni e delle prestazioni per i lavoratori dipendenti, nulla per i lavoratori precari, o per chi il lavoro non ce l’ha. Approfondimento della spaccatura fra gli insider, sempre di meno e sempre meno garantiti, e gli outsider, sempre di più e con condizioni crescenti di incertezza nello scenario attuale di crisi globale. Riduzione del lavoro a mero fattore della produzione, fungibile, mobile, flessibile, duttile, alienato. Peggioramento delle condizioni sociali ed economiche per una vita libera e dignitosa.
E invece proprio in un periodo di crisi profonda come l’attuale il percorso verso la pari dignità sociale va preservato e va costruito, nel lavoro o fuori del lavoro. La Costituzione moderna identifica il lavoratore come figura che dà diretta concretezza all’homo dignus. Ma, come ricorda Rodotà, proprio questa antropologia della modernità giuridica è ora messa in discussione, sfidata e radicalmente negata, da una logica di mercato che, in nome della produttività e degli imperativi della globalizzazione, prosciuga i diritti e fa tornare verso quella “gestione industriale degli uomini” che è stato il tratto angosciante dei totalitarismi del Novecento, che rompe il nesso tra lavoro e dignità, con riduzione delle persone a cose, a “oggetti” compatibili con le esigenze della produzione. Dall’esistenza libera e dignitosa si tende a passare ad una sorta di “grado zero” dell’esistenza, alla retribuzione come mera soglia di sopravvivenza, come garanzia solo del “salario minimo biologico”, del “minimo vitale”. Torna così una domanda capitale, e antica: se il lavoro possa essere inteso come pura merce, se la determinazione del suo prezzo possa essere solo affare di mercato, perché la tutela del lavoro, e la cittadinanza sociale che essa implica, interferiscono sul valore di scambio.
E però anche su questo l’Europa ci dà delle indicazioni: il Parlamento Europeo sottolinea la necessità di misure concrete che sradichino la povertà e l’esclusione sociale, esplorando strategie di ritorno all’occupazione, favorendo un’equa redistribuzione del reddito e della ricchezza, e garantendo regimi di reddito minimo adeguato che debbano stabilirsi almeno al 60% del reddito mediano dello Stato membro interessato. D’altronde in Europa solo Italia ed Ungheria non hanno misure di reddito minimo.
Sulla base dei criteri stabiliti nella risoluzione del Parlamento Europeo del 20 ottobre 2010 molte organizzazioni stanno lavorando all’elaborazione di un testo da promuovere attraverso una Iniziativa dei Cittadini Europei per l’approvazione di una direttiva che garantisca il diritto di tutti i cittadini europei al reddito minimo garantito. L’ICE, introdotta dall’articolo 11 del Trattato sull’Unione Europea, costituisce un invito rivolto alla Commissione perché proponga un atto legislativo su questioni per le quali l’UE ha la competenza di legiferare.
Un reddito minimo adeguato dovrebbe soddisfare alcune condizioni come quelle definite ad esempio dall’European Anti Poverty Network per assicurare misure efficaci per un approccio integrato ad un’inclusione attiva: che sia adeguato per una vita dignitosa, attraverso la definizione condivisa di standard, almeno al livello della soglia di povertà (60% del reddito mediano); che non sia condizionato allo stato occupazionale, è necessario che il reddito non sia legato all’obbligo di accettare un qualsiasi lavoro, senza riguardo alla sua bassa qualità, ed in particolare con salari inadeguati o condizioni lavorative scadenti, partendo dalla considerazione che la maggior parte delle persone ha bisogno e desidera lavorare, ma ha il diritto a percepire un reddito adeguato come diritto umano; che sia una misura facilmente comprensibile, trasparente ed efficace, per garantire l’effettivo utilizzo da parte del maggior numero di potenziali beneficiari, evitando inoltre lo stigma che tende ad essere attribuito al conseguimento di benefici senza un corrispettivo lavorativo; che sia continuo e sostenibile, per evitare cambiamenti improvvisi ai livelli di reddito, in particolare nei momenti di transizione fra diverse possibili misure (ad esempio assistenza sociale, indennità, ammortizzatori sociali, ecc.) per assicurare che sia evitata la “trappola della povertà”; un reddito minimo adeguato inserito in una gerarchia progressiva fra reddito minimo e salario dignitoso, più alto in termini reali e regolarmente indicizzato ai prezzi di beni e servizi, con un approccio che preserverebbe l’incentivo al lavoro, riducendo sostanzialmente la povertà nel lavoro ed il rischio di impoverimento.
Il Comitato centrale della FIOM dell’8 novembre scorso ha avanzato nel documento finale la proposta di istituire un reddito di cittadinanza che, “…nell’ambito di una riforma del sistema di ammortizzatori sociali e di previdenza sociale, sia da un lato in grado di garantire il diritto allo studio a tutti, dall’altro affronti la questione di una tutela a fronte di una disoccupazione non volontaria, figlia di una precarietà esasperata.”
Si tratta di un segnale importante in un contesto sindacale sostanzialmente avverso ad una misura di reddito minimo, e che invece va nella direzione di una ricomposizione sociale fra chi il lavoro ce l’ha e chi invece non ce l’ha, e cerca di superare la divergenza di interessi che spacca lo stesso fronte del lavoro proprio nel momento peggiore dell’attacco ai diritti e alla democrazia.
E invece proprio qualche giorno fa il ministro Fornero ha smentito una volta di più le sue prime aperture, sostenendo che in Italia se si introducesse una misura di reddito di base la gente si adagerebbe, si siederebbe e mangerebbe pasta al pomodoro.
Forse invece se ci fosse il reddito minimo e ci fossero piccoli margini di scelta e più potere negoziale si potrebbe intraprendere un percorso verso condizioni di lavoro decente, e più sicure, e più dignitose.
E forse se ci fosse stato il reddito minimo non sarebbe successo quello che è accaduto a quattro operaie che a Barletta confezionavano magliette e tute da ginnastica. E guadagnavano meno di 4 euro all’ora. Matilde Doronzo, 32 anni, Giovanna Sardaro, 30 anni, Antonella Zaza, 36 anni e Tina Ceci, 37 anni, le quattro operaie morte nel crollo della palazzina di Barletta, che lavoravano in nero dalle 8 alle 14 ore al giorno. L’orario variava a seconda del lavoro che c’era da fare: «Avevano ferie e tredicesima pagate, ma senza contratto. Lavoravano per pagare affitti, mutui, benzina. Lavoravano per poter vivere. Anzi, sopravvivere».