Gli ultimi due anni di pandemia hanno dimostrato come l’educazione e il welfare in generale non siano una priorità in questo paese. Serve invece un dibattito ampio che rilanci questi punti all’ordine del giorno
Al terzo anno di pan-sindemia e nella fase di repentina transizione che il governo sembra aver intrapreso con l’arrivo del nuovo anno, sentiamo la necessità di un confronto più ampio e di una presa di posizione in merito alle politiche pubbliche di investimento e sui finanziamenti che l’Italia ha stanziato e stanzierà nel prossimo futuro. Con Giorgio Gilestro condividiamo l’urgenza di trovare equilibri collettivi necessari per la gestione di una crisi di lunga durata (2021) – consci che le priorità che si sapranno identificare e sostenere oggi, definiranno con buona probabilità gli spazi di vivibilità e di “movimento” di domani.
Questo testo nasce quindi dal desiderio di aprire un confronto più strutturato con tutta la comunità educante, ma anche con i corpi sociali, associazioni, spazi, sindacati e movimenti; e dalla necessità di provare a condividere lo shock collettivo che stiamo attraversando e a nominare lo spaesamento in cui sembriamo trovarci. Se, come suggerisce Amitav Ghosh (2017), lo spaesamento nasce quando «riconosciamo qualcosa cui abbiamo voltato le spalle», ci sembra oggi arrivato il momento di fare i conti con quanto abbiamo rimosso per anni.
Da una parte, sempre parafrasando Ghosh, la possibile prossimità con un interlocutore non umano, in questo caso un virus; dall’altra, quanto è stato rimosso anche nei confronti di un interlocutore più che umano, come l’istituzione e funzione del servizio pubblico, la sua gestione, il suo progressivo smantellamento.
Il caso della scuola pubblica italiana in pandemia è in questo senso emblematico. Non tanto perché rappresenta il settore pubblico tra i più vituperati negli ultimi decenni, quanto piuttosto perché dimostra come, allo smantellamento economico, abbia corrisposto un altrettanto inesorabile smantellamento simbolico: lo svilimento materiale della scuola è tale da essersi insinuato nelle menti di intere generazioni.
Da diverso tempo, insieme ad altre piattaforme e soggetti politici, denunciamo quali sono le conseguenze strutturali del disinvestimento nella scuola, mettendo in luce quegli elementi che hanno reso sempre più complessa una relazione di senso tra discente e docente; disarticolato il gruppo-classe come soggetto collettivo nei processi di apprendimento; smantellato la funzione emancipativa e democratica della scuola. Occorre urgentemente oggi mettere in luce le conseguenze che questo disimpegno ha determinato anche sul piano simbolico collettivo, provando ad analizzare quell’insieme di effetti che sono emersi con forza nel dibattito pubblico sulla scuola degli ultimi mesi.
Per descrivere lo spaesamento collettivo intorno alla funzione pubblica, sociale e politica della scuola, basti pensare alla rassegnazione con cui abbiamo accettato che il governo italiano, a differenza di altri, intervenisse sempre e solo sulla scuola, ogni qual volta si trattava di contenere il drammatico bilancio di contagi, ospedalizzazioni e morti che l’imperativo economico e la continua emersione di nuove varianti esasperavano.
Talvolta l’attacco nei confronti della scuola, rivendicato come principale misura di contenimento pandemico, ha raggiunto tale livore che dispiace constatare come simili energie e consenso non siano state impiegate contro, ad esempio, l’ininterrotta apertura delle fabbriche non essenziali dal 2020 ad oggi e la “compravendita” di codici Ateco; le oltre 1400 morti sul lavoro nel solo 2021; la stigmatizzazione dello smart-working e la crociata contro chi percepisce il Reddito di cittadinanza; le misure di sostegno risibili e discutibili, per la scelta delle priorità, a fronte di una crisi economica esponenziale; le scomposte aperture di negozi e locali nel periodo natalizio caratterizzato dalla variante Omicron; e infine, sullo sfondo, il mancato potenziamento del Servizio Sanitario Nazionale e del trasporto pubblico.
Mentre il governo sembra sempre più optare per la rinuncia al tracciamento e per la libera circolazione del virus nella prospettiva della sua endemizzazione, continuiamo a ribadire l’imprescindibilità di una strategia integrata di contenimento pandemico, ma anche il nostro stupore davanti a un paese intero che, quasi senza eccezioni, ha relegato la scuola pubblica a settore marginale, ancor più di una palestra. Se ancora oggi, al terzo anno di emergenza sanitaria, la limitazione dell’attività scolastica appare per moltз la misura più “razionale” per bilanciare il contagio, è lecito chiedersi se non sia da rassegnarsi al fatto che questo sia “l’equilibrio”, parafrasando le parole Gilestro, raggiunto come collettività. Dal canto nostro, ci ostiniamo a domandare se esiste una reale consapevolezza di questa scelta e delle sue conseguenze, o se non valga la pena discuterne ancora in maniera approfondita.
Ci sembra molto significativo che, benché in forme diverse, un simile spaesamento emerga anche nei confronti del Servizio Sanitario Nazionale e delle condizioni in cui si trova a gestire una crisi di salute pubblica epocale. Non è un caso che entrambi i settori risultino oggi più sotto attacco che sostenuti dalla collettività, e che le lotte che si sono prodotte al loro interno non siano riuscite a guadagnare quei rapporti di forza necessari per incidere su trasformazioni strutturali.
In queste poche righe, manteniamo come riferimento privilegiato il caso della scuola, ambito più prossimo a chi scrive, ma il tentativo è quello di aprire una riflessione che intrecci diversi settori del welfare e un ragionamento sul suo ruolo in prospettiva. Partire dalla scuola ci permette di evidenziare come la qualità del dibattito pubblico che si è sviluppato nei mesi passati rispecchi un problema più profondo, che vediamo connesso alla nostra incapacità di immaginare un’alternativa concreta al neoliberalismo imperante.
Ad esempio, se per molto tempo la posizione prevalente è stata quella per cui l’attivazione della DaD (didattica a distanza) nelle scuole fosse la prima e spesso l’unica misura da attuare per garantire la sicurezza sul territorio nazionale, dovremmo condividere cosa si intende per “sicurezza nazionale”, a maggior ragione se caricata sulle spalle di un comparto molto specifico della popolazione, lз minori, la cui maggioranza non ha voce in capitolo per ragioni d’età, né talvolta la cittadinanza. Inoltre, una misura presentata come “inevitabile” dovrebbe interrogarci su quanto non sia invece dovuta all’occultamento da parte dei governanti, e alla rimozione dei governati, delle scelte che a monte la determinano – in primis, a livello materiale, lo smantellamento ventennale di cui sopra (De Michele, 2020).
Durante questi mesi, con crescente stupore abbiamo notato la facilità attraverso cui entrambe le questioni sono state rese invisibili. Da una parte, con misure di tipo caritatevole, ad esempio la parziale distribuzione di tablet alle “famiglie in difficoltà”.
Un’operazione che ha derubricato quanto queste difficoltà siano frutto di profonde disparità socio-economiche e ambientali, difficilmente sanabili tramite la concessione di un dispositivo. Dall’altra parte, spesso quella più a “sinistra”, con la proliferazione di riflessioni troppo generaliste davanti a una situazione che andava aggravandosi di giorno in giorno, come, ad esempio, quella per cui essendo la scuola diventata l’anticamera del lavoro, tanto valeva tenerla chiusa. Benché sia innegabile l’impoverimento della funzione sociale della scuola causato anche dai numerosi tentativi di captazione, aziendalizzazione e privatizzazione, promossi dal suo interno e dall’esterno negli ultimi decenni, ci sembra importante sostenere che le lotte contro un attacco progressivo alla scuola dovrebbero partire dal fatto che essa è prima di tutto uno spazio pubblico.
Nonostante le contro-riforme ne abbiano depotenziato la funzione di spazio democratico di emancipazione, la scuola resta tuttora un luogo dove permane una tensione alla cura collettiva di cui si è percepita in questi ultimi due anni e mezzo l’assoluta necessità da parte di tutto il corpo sociale, e in particolare dalle sue aree più deprivate e fragili (Fragnito e Moscarelli, 2021). Considerare secondaria proprio la scuola ha inoltre significato affidarsi più o meno consapevolmente a un’idea riduzionista e privatistica della salute, farmaco-centrica e ospedalo-centrica, senza in/formazione, condivisione e prevenzione, senza responsabilità verso la collettività, senza l’attenzione necessaria ai determinanti economici, sociali e ambientali della salute, senza cura delle dimensioni emotive e psicologiche individuali e di gruppo.
Le conseguenze di tali politiche si rispecchiano nel crescente attacco ai meccanismi della sicurezza sociale e della solidarietà, in nome di una libertà individuale intesa come privilegio del privato cittadino. Per dare spazio, legittimità politica e futuro a ciò che ancora r-esiste nell’immaginario collettivo come bene comune globale, crediamo sia necessario rimettere al centro, ampliare e trasformare le istituzioni pubbliche della salute, dei saperi, della cura, oltre al riconoscimento e la tutela delle nostre fragilità e interdipendenze.
Ben poco ci interessa tornare a sottolineare, ancora una volta, i limiti legati all’impiego di uno strumento tecnologico incapace di risolvere problematiche ambientali e sociali complesse, eppure presentato per lunghi mesi come la “Soluzione”. Quello che ci preme rimarcare è invece quanto il facile ricorso alla didattica a distanza da parte di governo e Regioni (oramai anche in caso di neve, intemperie e termosifoni rotti), sia stato e sia tuttora funzionale a nascondere la violenza prodotta dalle carenze sistemiche della scuola, della sanità, delle politiche economiche sul lavoro produttivo e riproduttivo: del welfare.
Da questa prospettiva, il nostro assecondare la “scuola da casa”, non solo ha permesso la rimozione strategica di queste carenze, ma ha anche svelato una crescente difficoltà di ascolto reciproco e di interconnessione tra le lotte. Non si è infatti tenuto in gran considerazione come questa modalità didattica e di interazione sociale abbia accelerato diseguaglianze nell’apprendimento e deteriorato il benessere psicofisico di migliaia di ragazzз, oltre ad aver moltiplicato le ore di lavoro per il personale della scuola (formato tuttora in gran parte da donne, precarie, a cui si richiede tempo e “dedizione”) e messo in estrema difficoltà tutte quelle famiglie strette nel ricatto tra lavoro produttivo e riproduttivo.
Una simile incapacità di visione integrata e complessiva della crisi, emerge anche tra chi si ri-scopre scandalizzatǝ delle esigenze anzitutto economiche e di mercato, a cui il governo continua a dare priorità viavia che modifica le politiche di chiusura e di apertura della scuola. Di fronte a tale ovvietà, stupisce quanto una sintesi in fin dei conti parziale e autoreferenziale sia prevalsa sull’urgenza di ri-occupare lo spazio dell’Istruzione – forse tra i pochi spazi pubblici rimasti – ri-conoscendolo come potenziale ambito di trasformazione sociale.
Abbandonare la scuola alle sole direttive del governo, in un momento tanto cruciale come quello che stiamo vivendo, sarebbe deleterio.
L’insieme di queste ragioni, ci porta a constatare come un dibattito democratico intorno alle scelte in grado di bilanciare e tutelare il presente e il futuro della salute pubblica stenti a partire. Schiacciatз sull’emergenza, non siamo statз capaci di smascherare le contraddizioni che si sono prodotte in questi mesi, né di denunciare a fondo l’eziologia della crisi in corso; non abbiamo provato a ripensare modelli di welfare capaci di confrontarsi con l’impasse attuale, né a determinare cambi di rotta dentro il paradigma di sviluppo che ci trascina qui. Vogliamo però sottolineare quanto questo dibattito sia tuttora urgente e quanto sia necessario provare a intrecciare riflessioni e rivendicazioni sulle infrastrutture pubbliche e sociali, la scuola, la salute, il reddito, l’ambiente, la cura, per sperimentare la nostra capacità di proposta di nuove prospettive.
Il desiderio di condividere queste riflessioni nasce anche dal fatto che, negli ultimi tempi, molti equilibri sono mutati. Anzitutto lз studentз sono tornatз a rivendicare lo spazio pubblico e simbolico della scuola. Dalle numerose occupazioni è emerso un punto di vista sconcertante quanto rivelatore del disagio che per troppi mesi è stato reso invisibile dal governo e dalla maggioranza degli adulti di questo paese. Cresce inoltre la generale consapevolezza che intervenire sempre e solo sulla scuola sia frutto di una scelta politico-economica, prima ancora che sanitaria.
Per queste ragioni, le ultime direttive sulla scuola varate dal governo all’inizio dell’anno 2022 rispecchiano, da una parte, le indicazioni che arrivano dall’Europa e dalle esigenze di Confindustria; dall’altra, rivelano che la chiusura delle scuole come misura di efficace e sostenibile protezione dal Covid-19 ha ormai perduto credibilità e spendibilità sul piano del consenso, anche grazie alle mobilitazioni dal basso degli ultimi due anni. Assistiamo in questa fase all’accelerazione delle contraddizioni delle politiche pandemiche governative e alla speculare esasperazione di un disagio sociale e di una crisi collettiva di senso che si esprime – nonostante l’indubbia significatività di diversi percorsi di lotta, come quelli della Gkn, dei lavoratori della logistica o della cultura – anche in modalità discutibili e pericolosamente regressive.
Una fase difficile e complessa che ci sembra però aprire più spazi di dibattito per la costruzione di una posizione articolata sul ruolo e la funzione sociale che ha e che dovrebbe avere l’Istruzione e il servizio pubblico in generale.
Dall’inizio della pandemia sosteniamo che la scuola dovrebbe essere, in ogni situazione di crisi, l’ultima a chiudere e la prima a riaprire. Questo perché la forza trasformativa di cui oggi abbiamo urgentemente bisogno, deve poter dispiegarsi oltre la logica dell’emergenza e aver luoghi in cui ri-generarsi nell’ascolto e nel potenziamento reciproco delle molteplici prospettive che si danno. La difesa della scuola, e insieme a essa del servizio pubblico, ci sembra il principale ambito di riproduzione della nostra r-esistenza e contro-proposta. Nei prossimi mesi lavoreremo per moltiplicare spazi di incontro e di mobilitazione capaci di tenere insieme questi piani e ci auguriamo di trovarci al fianco di tantз altrз.
Tutte le immagini per concessione di Priorità alla Scuola e Sara Leghissa
In appendice alleghiamo le istanze mosse dal percorso di Priorità alla Scuola, costruite e arricchite con il confronto di diversi soggetti, associazioni e organizzazioni. Le prime sono misure di contenimento pandemico razionali e realistiche, di cui riteniamo fondamentale imporre al governo l’applicazione urgente nelle classi di tutta Italia, come del resto, in ogni altro ambito lavorativo e sociale. Le seconde riguardano le mancanze strutturali in cui verte la scuola oggi, la quantità e la qualità di finanziamenti che permetterebbero alla scuola di diventare luogo di massima interazione tra generazioni, territori e produzione di saperi, oltreché un ambito di lavoro dignitoso e un servizio di base per il contrasto alle diseguaglianze sociali.